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Autore: kazoquel4    08/07/2014    4 recensioni
Quando Percy Jackson viene arrestato di nuovo per vandalismo, sua madre non ne può più. Viene spedito dall'altra parte del paese per passare un anno con suo padre - quel padre che l'ha abbandonato quando aveva un anno. Quando incontra la sua vicina sottuttoio Annabeth Chase, le cose non fanno che peggiorare per il delinquente dagli occhi verdi. Ma quando qualcosa inizia a nascere tra i due, cosa succederà?
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Se sono un tipo problematico? Sì. Potete dirlo forte.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Il delinquente dagli occhi verdi
Di kazoquel4
 


Capitolo 1 
xxxPercyxxx
 
Strinsi la mano attorno alla tracolla dello zaino, uscendo all’aeroporto.
Sbattei gli occhi di fronte all’improvvisa luce del sole e mi feci scudo con una mano. Fuori, file di macchine costeggiavano la strada.
Le persone mi spingevano per passare avanti, correndo per salutare i loro cari e poi uscire di lì.
Guardai tra quelli che stavano aspettando, ma non vidi la persona che cercavo.
Abbassandomi di più il cappuccio sulla faccia, mi appoggiai a una parete, beandomi della frescura dell’ombra. Guardai chiunque passava con sguardo sospettoso.
New York era accattivante. Mentre volavamo più vicino, tutto ciò che ero riuscito a fare era stato fissare i giganteschi grattaceli e l’Empire State Building, che si innalzavano così alti tra le strade affollate. Era piuttosto diverso da dove vivevo con mia madre, a San Francisco, prima di essere spedito là in un tentativo di insegnarmi l’educazione.
Dopo qualche, mh… infrazione della legge, mia madre aveva deciso che era l’ora che cambiassi aria, per aiutarmi a dare una svolta alla mia vita. Perciò ero stato spedito dall’altra parte del paese e affidato a mio padre, Poseidone Jackson, nella speranza che sarebbe riuscito a cambiare il mio comportamento.
La cosa non mi avrebbe poi tanto infastidito, se mio padre non fosse stato il più grande idiota che ci fosse mai stato. Quando avevo solo un anno, lui e mia madre avevano avuto un grosso litigio e poi divorziato; lui aveva lasciato la nostra casa di San Francisco per iniziare una nuova vita a New York e non l’avevo più visto da allora. Quando avevo sette anni e mia madre si era risposata con un tizio orribile di nome Gabe Ugliano, l’accordo si era concluso.
Non riuscivo neanche a ricordarlo, mio padre, e non avevo nessun contatto con lui. Voglio dire, mi mandava un biglietto di compleanno una volta l’anno, ma erano tutte lettere distaccate, noncuranti e praticamente sempre in ritardo.
Qualche settimana fa, dopo essere stato arrestato per vandalismo (era solo qualche graffito, ad essere sinceri) mia madre ha detto di essere ufficialmente stufa delle mie abitudini. E, riluttante al mandarmi in riformatorio, ha deciso che la mossa migliore fosse mandarmi un anno da mio padre, per vedere se la cosa avrebbe cambiato il mio atteggiamento.
E quindi eccomi lì, a New York, sul punto di  convivere con un tizio che mi aveva abbandonato quando avevo un anno. E, come bonus, l’anno scolastico era già iniziato da due mesi.
Fantastico.
Un’auto blu scuro si fermò di fronte all’aeroporto. Osservai il conducente scendere e poi lanciare uno sguardo verso l’entrata. Era straordinariamente bello, con i capelli neri spruzzati da qualche striscia di grigio mossi dal vento. Era molto abbronzato e, perfino da dove mi trovavo, potevo vedere che i suoi occhi erano di un verde accecante, come il mare dopo una tempesta. Sapevo che mi somigliava, mia madre ci aveva paragonati centinaia di volte, e dalle foto che aveva di lui, sapevo che si trattava di mio padre.
Sospirai annoiato, allontanandomi dalla parete e andando sul marciapiede. Facendomi strada tra la folla, arrivai davanti alla macchina e all’uomo.
“Signor Jackson?” lo chiamai.
Poseidone mi guardò, sorpreso.
“Sì?” domandò, aggrottando la fronte.
Mi strinsi nelle spalle, lasciando cadere il cappuccio per rivelare il mio volto. Immediatamente, il volto di Poseidone s’illuminò di realizzazione.
“Perseo?” chiese, osservandomi più da vicino.
Roteai gli occhi. “Chi altri?” dissi, sarcasticamente.
Una piccola ruga solcò la fronte di mio padre, ma presto tornò a sorridere. Aveva un sorriso rilassato e gentile che gli illuminava il volto, rendendolo ancora più bello.
“Sei cresciuto molto,” disse, guardandomi con espressione quasi fiera.
“Be’, dato che l’ultima volta che mi hai visto avevo un anno, spererei di essere cresciuto,” risposi inespressivo, mentre lo guardavo a mia volta. “Possiamo andare adesso?”
Poseidone sembrò leggermente preoccupato, ma annuì.
“Salta su,” disse, andando al posto del guidatore.
Aprii la portiera, salendo in auto. Mi tolsi lo zaino, lasciandomelo cadere ai piedi, e mi appoggiai al sedile. Accanto a me, Poseidone allacciò la cintura.
“Allacciati,” disse, mettendo la chiave nel quadro. Sentii il motore partire, ruggendo sotto di me.
“Sto bene così,” risposi, distendendo le gambe più che potevo nello spazio angusto.
Poseidone mi guardò con la coda dell’occhio.
“Perseo, metti la cintura.”
“No,” replicai. “Mi conosci da quanto, due minuti? Decido io se mettere o meno la cintura.”
Poseidone sospirò, scuotendo il capo.
“Bene,” mormorò, immettendosi in strada. “Non metterla.”
Sentii un sorrisetto aprirsi sul mio volto per la piccola vittoria. Ci inserimmo nel relativamente poco traffico di mezzogiorno. Fuori, guardavo la città di New York scorrerci accanto; c’era un gruppo di pedoni e veicoli che non potevo vedere individualmente, ma fusi insieme in un grande cosa confusa.
“Quindi,” esordì Poseidone, rompendo il silenzio. “Come stai?”
“Bene,” risposi brevemente.
Poseidone aumentò la presa sul volante per un momento. “Sei felice del tuo primo giorno domani alla Goode High School?” chiese con delicatezza.
“No,” dissi bruscamente, afferrando uno dei lacci della mia felpa blu scuro.
Poseidone sospirò. “Perseo-”
“Tutti mi chiamano Percy,” lo interruppi, prima che potesse continuare. “Non chiamarmi Perseo.”
“Percy,” si corresse Poseidone. “Capisco che sia strano e che, ovviamente, per te sia difficile-”
“Per me?” dissi, roteando gli occhi. “Io sto benissimo.”
Avevo pensato alla mia situazione durante il lunghissimo volo fino a lì e alla fine avevo deciso che sarebbe stato meglio se, per quell’anno, me ne fossi stato per conto mio. Meno parlavo, meno ragioni avrebbe avuto mio padre per parlare con me.
Ci fu un silenzio imbarazzante. Mio padre teneva gli occhi sulla strada, senza guardare più verso di me, e io mi accontentai di guardare fuori dal finestrino. Cercai di leggere alcuni nomi dei negozi, ma le scritte luminose danzavano davanti ai miei occhi, le lettere che roteavano su se stesse: la mia dislessia era di nuovo all’opera. Sentendomi ancora più irritato dal fatto che non riuscivo neanche a leggere i nomi dei negozi accanto ai quali stavamo passando, mi sistemai al mio posto, guardando torvo le mie gambe.
“Tutto bene?” domandò Poseidone. Quando non risposi, sembrò prenderlo come un invito per continuare a parlare. “Mentre io sono felicissimo che tu stia con me quest’anno-”
Sì, sì, okay, pensai, annoiato.
“- sono piuttosto costernato per la ragione per cui sei qui,” continuò Poseidone, lanciandomi uno sguardo tagliente. “Tua madre ti ha già detto che il tuo comportamento ha preso una brutta piega negli ultimi anni.”
“Scommetto che tu e la mamma vi sarete fatti una gran risata al telefono, parlando di tutte le mie colpe,” sbottai.
“Percy, sai che-”
“Non so neanche perché sono qui,” dissi, roteando gli occhi. “Non è che io abbia fatto nulla di male.”
“Sei stato arrestato per atti di vandalismo su una proprietà pubblica!” esclamò Poseidone, alzando la voce.
“Era solo un po’ di pittura!” mi difesi. “Non ho rapinato una banca!”
“Per quel che ne so, ci sei andato vicino,” disse bruscamente. “Tipo rubare in quel minimarket come hai fatto qualche mese fa.”
“Sgraffignare un paio di dolcetti lo chiami rubare?” risposi, incredulo. “Ne ho viste di peggio.”
“Oh, ne sono sicuro, con quella gang con cui vai in giro,” ringhiò Poseidone. Sembrava essere passato dallo stato ‘padre orgoglioso’ a quello ‘ragazzino, non ti sopporto’. Era solo questione di tempo prima che io fossi rispedito a San Francisco, etichettato come ‘causa persa’, e ficcato in un riformatorio. Le mie insegnanti mi prendevano in giro, dicendomi che era lì che sarei finito. Sapevano ben poco del fatto che l’avessi realizzato poco dopo il mio primo arresto.
“Sì, be’, la gang non mi ha seguito qui, no?” dissi, seccato. “Quindi, non capisco perché-”
“A me importa di te!” rispose Poseidone, alzando i toni.
Risi di gusto. “Oh, questa è bella. Non mi hai visto né sentito per sedici anni e all’improvviso t’importa di me?”
“Ma certo! Sono tuo padre!” esclamò lui.
“Puoi essere mio padre legalmente, ma per me sei uno sconosciuto,” urlai con un ringhio. “Non hai mai fatto niente per me!”
“Mi occuperò di te per un anno!” gridò in risposta.
“E sarà l’anno più lungo della mia vita!” dissi, guardandolo. “Quindi lasciami in pace. Io ti starò alla larga, così non dovremo parlarci!”
Poseidone strinse i denti, guardando dritto davanti a sé. Io strinsi forte le braccia al petto, guardando di nuovo fuori dal finestrino.
Se aveva pensato che saremmo subito stati migliori amici, si sbagliava di grosso. Ero stufo che tutti mi trattassero come se fossi un bambino. Avevo diciassette anni, potevo prendere le mie decisioni da solo! E nessuno mi avrebbe detto chi dovevo essere, nemmeno la legge.
Il resto del viaggio in auto passò in completo silenzio. Venti minuti dopo, Poseidone svoltò in una strada laterale costeggiata da casette carine e di medie dimensioni. Ognuna aveva un piccolo giardino e un vialetto e sembravano avere due piani.
L’auto entrò nel vialetto di fronte a una casa azzurra. Il prato era tenuto con cura, tagliato alla perfezione. L’intero quartiere sembrava luminoso e allegro, un cambiamento notevole rispetto al piccolo e cupo posto nel quale vivevo a San Francisco.
Poseidone tolse la chiave dal quadro e uscì dall’auto. Lo seguii, balzando sul cemento scuro e stirando bene le gambe.
Vedendo che Poseidone stava già aprendo la porta, afferrai il mio zaino e chiusi la portiera, mettendomi la borsa sulla spalla.
Appena entrai in casa, la porta si chiuse alle mie spalle. Strisciai sul pavimento scuro e lucido con la punta delle scarpe da tennis, guardandomi intorno. Proprio dietro l’angolo, c’era una stanza che sembrava essere il salotto, completo di un divano lungo, di una tonalità blu scuro e una TV a schermo piatto. Sentii un sorrisetto spuntarmi in viso, mentre infilavo le mani in tasca, girellando.
“Bel posto,” mormorai, un po’ sbalordito.
“Grazie,” rispose Poseidone, che era proprio dietro di me e mi fece sobbalzare. Mi superò, dirigendosi verso una serie di scale alla mia destra.
“Vieni, ti faccio vedere la tua stanza,” disse piatto, ovviamente ancora arrabbiato con me.
Stranamente curioso, lo seguii per le scale. Il secondo piano era formato da un lungo corridoio con una fila di porte. Poseidone girò a sinistra, raggiungendo la porta che si trovava in fondo.
“Qui è dove starai,” disse, aprendo la porta ed entrando.
Mi sentii mozzare il fiato quando entrai. Era una stanza molto grande, dipinta nella mia tonalità preferita di blu. Il letto era grande e spazioso, con una coperta bianca e morbide, e una scrivania, completa di computer, si trovava dall’altro lato della stanza.
Era ovvio che Poseidone avesse fatto di tutto per renderla confortevole e non poteva immaginare quanto ciò mi colpì. Io e mia madre vivevamo con Gabe il Puzzone (così avevo soprannominato il mio patrigno) in un piccolo appartamento con due camere. E, dato che Gabe aveva più o meno completo possesso della casa, ero stato costretto a divedere la mia stanza per farne il suo ‘studio’. Quindi, praticamente, ogni giorno dovevo farmi strada tra pile di lattine di birra vuote e pacchetti di sigarette e la puzza era assolutamente insopportabile. Perciò vedere quella stanza mi fece davvero sentire a casa, anche se non avrei mai lasciato che mio padre se ne accorgesse.
“Spero che ti piaccia,” disse Poseidone, sarcastico.
Ingoiando il rospo, scrollai le spalle. “È okay,” risposi, lanciando lo zaino sul letto.
Poseidone mi guardò attentamente. “Hmmmm,” fu tutto ciò che disse.
Mi spostai a disagio sotto il suo sguardo. “Quindi, mmmh… Ciao,” dissi speranzoso, guardando verso il computer. Avevo usato un PC solo a scuola per fare ricerche, sarebbe stato interessante averne uno tutto per me.
Ma Poseidone non aveva ancora finito. “Controlla l’armadio,” disse, facendo cenno verso una porta accanto a me.
Gli lanciai un’occhiata, alla quale lui rispose con sguardo risoluto. Roteando gli occhi, aprii l’anta dell’armadio e mi ritrovai a guardare una serie di grucce vuote e qualche maglietta.
“Okay,” dissi, cercando di prenderlo in giro. “Sto cercando Narnia, oppure…”
Mentre osservavo l’armadio, il mio sguardo cadde su qualcosa ai miei piedi. Aggrottando la fronte, mi abbassai per prenderlo.
“Uno skateboard?” chiesi, esaminandolo.
Sembrava vecchio e logoro, ma ben fatto. Feci ruotare una delle ruote come prova; scorsero senza intoppi e me le immaginai correre sul marciapiede.
“Era mio,” spiegò Poseidone con nostalgia. Alzai lo sguardo e lo vidi guardare lo skateboard con un piccolo sorriso, come se stesse ricordando i loro bei tempi insieme. “Ho pensato che potesse piacerti.”
Un ricordo mi riaffiorò alla mente: il me di dodici anni che correva per le strade su uno skateboard a basso costo. Il vento che mi scompigliava i capelli, il sorriso esaltato che avevo. Amavo andare sullo skate. Era così, prima che mi unissi alla gang di Tim Raynolds, qualche mese dopo. Loro pensavano che fare skateboard fosse stupido e, anche se avevo protestato, una notte scoprii che il mio skate era misteriosamente scomparso. Il resto della gang mi teneva d’occhio per vedere cos’avrei fatto, cercando di capire se fossi adatto a entrare nel gruppo. Io non feci nulla. Non chiesi mai a nessuno di loro di quella faccenda, anche se sapevo che erano stato loro a prenderlo. E da quel momento non ero più andato sullo skateboard.
“Io non lo uso,” dissi, piatto, porgendo l’oggetto a mio padre.
Poseidone alzò un sopracciglio, ma non si mosse per prenderlo. “Oh, davvero?”
“È stupido,” insistei. “Prendilo, non lo voglio.”
Poseidone scosse il capo. “È tuo adesso. Puoi buttarlo se vuoi, ma ti suggerisco di provarlo. Potresti scoprire che ti piace.” 
Feci un verso derisorio e lasciai cadere lo skateboard sul letto. Poseidone continuò la conversazione come se l’oggetto non fosse mai stato tirato fuori.
“Ora, vado a prendere la pizza per cena. Ne desideri una in particolare?”
Volevo rispondere no, vattene via, ma non potei impedirmi di dire: “Mi piacciono le acciughe.”
Poseidone ridacchiò, il suo buon umore era apparentemente tornato. “Oh, bene,” disse. “Sono il mio condimento preferito. Molte persone lo trovano strano.”
Sentii le labbra contrarsi e trattenni un sorriso. Poseidone si voltò, dirigendosi verso l’ingresso. “Tornerò tra quarantacinque minuti!” m’informò. “Ti prego, cerca di stare fuori dai guai!”
Roteai gli occhi e lo ignorai. Mi buttai sul letto, appoggiandomi ai cuscini morbidi.
A quanto sembrava, quel lavoro da biologo marino di mio padre pagava bene, a giudicare da dove viveva. Mi sentivo fuori posto, però. Non era come ero abituato. Ma mi stiracchiai sul letto, chiudendo gli occhi.
Posso abituarmici.
Sentii l’auto di Poseidone uscire dal vialetto. Quando se ne fu andata, aprii di nuovo gli occhi. Lanciai uno sguardo al computer, poi allo skateboard ai piedi del letto.
Con un sospiro, balzai giù, afferrando lo skate. Almeno, con Poseidone fuori di casa, non mi sarei dovuto preoccupare di mettermi in imbarazzo davanti a lui.
Un giro non avrebbe fatto male a nessuno. 

 
   
 
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