Film > Frozen - Il Regno di Ghiaccio
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Autore: thefireplanet    10/07/2014    0 recensioni
Ci sono dei pesi, quando sei regina, che non hanno niente a che fare con una maledizione. Ci sono dei doveri, quando sei principessa, che non hanno niente a che fare con l'essere una sorella. E la strada per il vero amore non è mai stata in discesa.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna, Elsa, Hans, Kristoff, Nuovo personaggio
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 13

 

 

 

"Era davvero necessario? Dobbiamo ancora occuparci della principessa, e—"

La voce è lontana. E, dietro le palpebre chiuse, echi di—

"E, quando scopriranno di questo piccolo contrattempo," e i suoi piedi sbattono contro qualcosa, le caviglie scrocchiano, "saremo già via da un bel pezzo."

Echi di—

"Lo sai che avrebbe trovato il modo di spifferare i nostri piani alla regina. Non provo rimorsi per quest’idiota."

"Lo so."

Echi di—

"Allora smettila di lamentarti, e aiutami a trasportarlo."

Luce delle stelle.

"Lasciamolo nel mucchio dei rifiuti, dove merita di stare."

Poi—

Nulla.


(nulla.)


Prova a spalancare la porta con un botto, ma a questo punto, la rabbia ha avuto il tempo di smorzarsi, e non è proprio sicura se ha sentito o ha sentito— come in quegli strascichi di sogno—quando sei mezza addormentata e precipiti e poi ti svegli e ti accorgi di essere a letto, ma la caduta ti era sembrata—beh, reale, per un minuto secondo—se in sogno cadi e muori, muori anche nella vita reale?

Non è questo il punto, attieniti al punto.

Oh, sì—

Beh, alla fine apre la porta, almeno. Lascia che si chiuda alle proprie spalle. Le stalle hanno un’aria particolarmente allegra e luminosa nella luce appena sorta del primo mattino, con una grossa pila di fieno, e i cavalli che nitriscono nei recinti. Sente, "Ma non la voglio questa bardatura, voglio quella vecchia!

"Spiacente, piccolo. Dobbiamo apparire al meglio per quei due stupidi co—"

Kristoff esce da uno dei recinti, reggendo un finimento decorato, sul viso uno sguardo di quasi-orrore. "—come va?" finisce, poco convincente.

"Ciao," Anna lo saluta brusca, con un cenno, e poi si lancia disperata nella pila di fieno. Basta così. Al tremila percento. "Basta così," lo informa.

Kristoff si carica la bardatura su una sola spalla e si volta con un’occhiata confusa. Le corna di Sven sono appena visibili oltre il legno scuro di ciliegio, e poi la testa, che fa capolino, negli occhi un’espressione comprensiva, pensierosa. Anna non credeva che le renne potessero sembrare pensierose, o comprensive—stessa differenza? Quello che è—ma Sven ci riesce proprio bene. Chiude gli occhi e li copre con un braccio e non voleva fare la drammatica, ma lo è alquanto. Un pochino.

"Basta?" Kristoff chiede. Lo sente toccarle tentativamente la gamba con la punta dello stivale.

"Basta," afferma. Poi si strofina il viso. Si siede. "Ok, basta coi basta così, adesso. Sei pronto per—"

"Woah, woah, woah, furia scatenata, non pensare neanche di cavartela così." Kristoff aggancia le finiture di Sven con tre movimenti rapidi e poi dà delle pacche sul fianco della renna. La guarda alzando un sopracciglio. "Che c’è che non va?"

"Se muori in un sogno, muori anche nella realtà?"

"Cosa."

"Voglio dire, pensaci. Sei mai morto in sogno?"

"Non ci penso, di solito. Mai. E’ per questo che sei sconvolta? Sei morta in sogno?"

"No. Ho sentito Gemello Scemo e Gemello più Scemo parlare col principe Albert di Elsa, ma ovviamente non mi crede, perché di punto in bianco le è venuto il pepe al tu-sai-cosa e ha deciso che Albert é in realtà una brava persona, il che, ti prego, non è assolutamente il caso—"

"Che, pensi che le piaccia o cose così?" Kristoff si lascia cadere accanto a lei.

"Penso che lo tolleri. E lei non tollera un sacco di gente. Che cavolo, a malapena tollera te—senza offesa," si corregge subito, mordendosi il labbro con una smorfia. "Le piaci. Davvero. E’ solo—ok, non importa, dimentica quello che ho detto, mi sto solo scavando la fossa."

Il discorso cade, e ascoltano i cavalli pestare il pavimento. Alla fine Kristoff chiede, "Parlavano di lei? Cioè?"

"Cioè—roba di tradimento. Non lo so."

"Ma sei sicura di non aver sentito delle voci?"

No, pensa, perché era presto, ed era stanca, e si sarebbe alzata allo spuntare dell’alba solo in caso di apocalisse, ma dice, convinta, "Sì."

Kristoff solleva il cappello per grattarsi la fronte, e ha l’aria piuttosto frustrata. Esala un respiro profondo. "Vorrei tanto che avessi sentito delle voci."

"Vorresti che fossi pazza?"

"No! No, non è quello—vorrei che avessi sentito le voci perché così magari potremmo sbagliarci su di loro. I Principi delle Isole del Sud. Anna, stiamo per andare in posti isolati e selvaggi con due di loro—"

"Assieme a delle guardie—"

"Non è questo il punto," si gira un po’, e la guarda, e lei vuole arrampicarglisi in grembo e rimanere lì, ma non si muove "Il punto è che, sarete tu, e due di loro. E io—" si interrompe, arrossendo tutto, e guarda di lato. Anna non sa esattamente cosa dire, ha paura di dire qualsiasi cosa, quindi si butta sulla cosa più banale che riesca a pensare, cioè, dopo un momento, due—

"Quindi, volevo solo dirti grazie, di nuovo. Perché lo stai facendo, so che non si tratta di—di cavare ghiaccio, o niente, e devi avere a che fare con questi due Principi, e so che non capiresti, perché si tratta di politica—"

Sembra vagamente offeso.

Anna lo guarda alzando le sopracciglia.

Alla fine lui annuisce, evasivamente.

"—perché si tratta di politica," continua, "ma grazie, e potrei—avrei potuto essere molto più tesa a riguardo, lo sai? Ma non lo sono. Chiedimi perché non lo sono."

Kristoff alza gli occhi. La asseconda. "Perché non lo sei?"

"Perché," sussurra, dandogli di gomito, e poi non riesce a continuare, non se lo guarda dritto in quella faccia stupidamente attraente—deve riprendersi un po’—"perché tu sarai lì con me. Quiiiiindi," conclude, lottando per tirarsi le ginocchia al petto con tutto quel fieno, e trattenendole con le braccia quando ci riesce, "quindi ecco. E grazie. Come ho detto."

Non lo stava guardando. Si era concentrata sulla spaccatura dello zoccolo di Sven a qualche metro di distanza, cercando di dimenticare la confusione della mattina, il suono delle voci provenienti dalla galleria, lo sguardo incredulo di Elsa—e sua sorella non era mai stata il tipo che non vuole guardare in faccia la realtà—ma allora, e se aveva davvero capito male—ma allora, e se invece aveva capito bene—

E poi sarebbe andata in giro coi lupi.

E sapeva che erano lupi. Lo sapeva. Glielo aveva avvertito addosso, dal primo momento che li aveva visti—

"Anna."

Il mondo si ferma. Tutto. Rumori e pensieri e respiro. Avrebbe potuto farsi avvolgere dal suono di quella voce. Non aveva sentito mai nessuno prima dire il suo nome in quel tono. Sbatte le palpebre, sbatte, sbatte, lo guarda in tralice. Deglutisce. "Sì?"

Il cuore le martella un ritmo irregolare contro la fragile gabbia che lo racchiude come un uccellino.

"Ti seguirei ovunque," Kristoff esclama, allungandosi e prendendole le mani dalle ginocchia, coprendole completamente con le sue, "per far sì che tu sia al sicuro. Voglio dire, io—Anna, io ti amo."

Parole. Fuori, all’aperto. Aperto. Porte aperte.

Vuole dirlo. Davvero. Ma non riesce a far funzionare la bocca. Invece si mette in ginocchio, piantandogli un casto, veloce bacio sulla guancia prima di strisciare fuori dalla pila di fieno. Le stalle sono troppo piccole. Ha bisogno di andarsene. "Ma la, uh," indica col pollice un punto indefinito alle proprie spalle, "slitta è fuori?"

Kristoff si alza in piedi. Il rossore sul volto sta sbiadendo, ma è ancora evidente, e ha voglia di abbracciarlo e non lasciare andare mai più, ma poi pensa ai lupi, e alle porte, e tutto è troppo complicato, e le fa male il cuore. Lui annuisce, brusco. "Già."

"Vado, uhm—a controllarla. Vieni con…?" la voce si affievolisce, mentre si incammina verso la porta.

"Fra un minuto."

"Ok. Ok, benissimo. Sarò qui fuori. Proprio qui. Proprio fuori."

Prova ad aprire la porta, ma le tremano le mani, e le dita scivolano. Attacca il chiavistello. Si apre, cigolando.

Esce, inciampando.


Elsa indugia un momento nel corridoio.

E’ breve—uno sguardo fuori. Una mano tra i capelli. Un’ombra di pensiero, un pensiero pericoloso—fidati di lui, non—Io mi fido di Anna—e poi il mondo riprende il proprio posto. Dà le spalle alle finestre, luminose e accecanti, si volta verso le scale, la gonna che le sfiora le gambe e le scarpette nere che battono un ritmo rumoroso nel silenzio del castello. Era tanto presto che il mondo non si era ancora messo in moto, vorticando e vorticando e vorticando—

"Ti sta usando!"

E se lo avesse ammesso con se stessa, dopotutto non era stato quello il suo timore, tutto quel tempo?

Fidarsi. Fidarsi. Ecco perché era tanto più facile chiudere tutti fuori.

Ma no. No, quello era—il passato, e—

"Ti sta usando!"

Elsa raggiunge il piano terra, le armature tutte rivolte verso l’entrata, contro avversari invisibili. Buone ragioni. Si aggrappa al pensiero come a una cima di salvataggio. Ci dovevano essere delle buone ragioni se Albert aveva detto quello che aveva detto, nel caso l’avesse davvero detto, buone ragioni se era—entrato di soppiatto nel castello per vedersi coi gemelli—corrotto la guardia notturna esausta con del denaro—Ne sarebbe stato capace? E perché? Buone ragioni. O nessuna ragione. Forse tutta questa storia era solo dovuta ad Anna che esagerava.

Elsa si costringe a respirare.

Anna esagerava molte volte.

Il corridoio è silenzioso. E’ tutto quello che nota mentre volta rapida ogni angolo, fermandosi bruscamente prima della galleria d’arte. Non sa cosa si aspettasse, ma di certo non era questo—

Vuoto.

L’orologio a pendolo ticchetta, Giovanna d’Arco la guarda, impassibile; si attarda all’ingresso, controllando le panche basse e il pavimento di legno, immacolato, la vivida luce del sole che filtra dalle finestre.

Niente.

Fa un paio di passi, entrando di soppiatto, lanciando occhiate veloci sotto il mobilio, ma non vede nessuno, a parte il tribunale silente che la giudica dall’alto. Davvero Anna si era immaginata le cose?

No, qualcuno doveva essere stato lì. Qualcuno—

"Regina Elsa, è sveglia ben presto, stamane."

Si volta, il ghiaccio che scricchiola formandosi tra le dita tese. C’è uno dei gemelli in piedi sulla soglia, pronto per una giornata di escursioni al freddo pungente.

Apre la bocca. La chiude, subito. Lui ride.

"Tomas," dice, toccandosi il petto con una mano. "Non si preoccupi—persino i miei fratelli confondono ancora me e Viktor."

"Principe Tomas." Elsa recupera, in fretta. "Porgo le mie scuse."

"Non c’è bisogno." Sorride, disinvolto, ma gli occhi sono leggermente stretti a fessura, espressione che non lo abbandona. "Qualcosa non va?"

"Si è—" si lecca le labbra, "—appena alzato?"

"Sì. Sono sceso dabbasso per vedere se fosse pronto qualcosa per colazione. Pensavo dovessimo partire presto?"

"Sì. Infatti." Più tempo per voi all’aria pungente e rarefatta. Le offre il braccio e lei lo ignora visibilmente, scivolando con grazia nella sala. "E suo fratello?"

"Sarà qui a breve."

"Eccellente."

Non ha senso.

"Mi auguro," comincia, camminando lentamente accanto a lei, stringendo le mani dietro la schiena. Non era magro quanto Albert, la sua corporatura era più simile a quella di—lui. "Mi auguro che Albert non le abbia causato fastidi?"

Lo guarda con malizia.

Ride. "Era sempre il combinaguai, a casa. Sapeva che," inizia, "una volta si convinse che avrebbe sposato la delfina di Francia? E poi, quando scoprì che lei avrebbe sposato il principe di Albion, decise di sfogare la propria rabbia sul naso di un servitore su una delle scalinate sul retro."

Conosceva già quella storia. Tiene le labbra serrate, ma il sorriso cordiale. "Cielo, davvero?" E nei suoi incubi è su una scalinata nei quartieri della servitù, e un sorriso appare rapido e la sovrasta come una fiamma tremula, e il dolore dal naso all’interno della testa—fa male. Brucia.

"Davvero. Svolazza continuamente dalle grazie di una donna a quelle di un’altra," Tomas conclude con un sorrido. "Il suo amore è sempre così facile da ottenere—e altrettanto facile da perdere. Pensavo dovesse saperlo."

Elsa si blocca. Quasi impercettibilmente. Sente il cuore che le martella nel petto, lo stomaco si chiude—qualcosa—orribile—e si dice, sarà sulla sua nave. Questo è un gioco di menzogne e finzione; sarà sulla sua nave. "Credo proprio di essere benissimo capace di farmi da sola delle opinioni," inclina la testa. "Ciò nonostante, la ringrazio per la sua premura, Principe Tomas."

"Davvero," sorride, fiacco.

Crede di essere più abile di quanto sia, a questo gioco, decide lei leccandosi le labbra, tirandosi la treccia. Si afferra la destra con la sinistra e fa cenno col capo alla sala da pranzo. E’ allora che sente passi frettolosi, un respiro affannoso—

"Regina Elsa!" Kai si inchina. Sembra scomposto, i capelli leggermente scompigliati, la cravatta infilata male. "Perdonatemi se non sono stato presente—"

"Bevuto troppo, la notte scorsa?" Un’altra voce, strascicata, da dietro. E’ Viktor, che scende le scale, e Kai gli lancia un’occhiata oltraggiata. I servitori hanno una riserva di vino nei loro alloggi, e gli era permesso di farne uso dopo che i compiti della giornata erano finiti. Quanto era facile, farvi scivolare poche gocce di sonnifero?

Elsa vuole urlare. Troppi inganni, e non riesce capire più cosa è reale e cosa no. La temperatura cala pericolosamente, e afferma, gelida, "Di certo lei non può parlare, Principe Viktor." Si lancia un’occhiata alle spalle, il collo rigido. Viktor è in piedi, fermo sul gradino più basso, che si aggiusta le maniche e guarda con disprezzo l’uomo davanti a loro. Non un bicchiere di troppo, perché Kai non beve mai molto.

No. Ci sto pensando troppo.

Albert sarà sulla nave.

Si volta. "Kai, non c’è niente da perdonare. Ti dispiacerebbe far preparare della carne fredda in sala da pranzo per colazione? E informa Anna e Kristoff."

"Sì, vostra maestà. Certo."

Fa un passo avanti, avvertendo dietro di sé i fratelli—

Due lupi, che ringhiano e mordono alle sue calcagna.


"Principessa Anna! Buon giorno."

"Buon giorno."

"Allora, è entusiasta per il viaggio di oggi?"

"Carni fredde a colazione. La mia preferita."


Anna saltella nervosa su e giù. C’è la slitta, che viene caricata sul carro, e Sven, e le guardie a cavallo—quattro—e—e—

Lancia uno sguardo a Kristoff e non riesce a guardarlo negli occhi. La colazione affrettata di fette di carne fredda le si rivolta spiacevolmente nello stomaco, e si strofina la faccia con le mani. Quando alza di nuovo lo sguardo Viktor e Tomas hanno montato a cavallo, due destrieri bianchi, e sembrano principeschi e pomposi e decisamente stupidi, se glielo si chiedeva—

"Anna?"

Sobbalza. "Oh—ehi. Salve."

"Salve."

Si strofina le braccia, facendo involontariamente un passo indietro verso il castello, giocherellando col tacco della scarpa sulle pietre che pavimentano il portile. Per la prima volta da settimane ha troppo caldo, col cristallo che pulsa come un altro cuore sotto il collo alto del vestito che indossa. Il sole è troppo forte. Kristoff controlla la badatura di Sven, e vorrebbe che guardasse dalla sua parte, solo una volta almeno. "Quindi, allora, ah, hai trovato niente, huh?"

"No. La galleria d’arte era deserta."

Anna sbuffa dal naso. Stava diventando pazza. Ok, forse non pazza, forse, cioè, folle—ma folle era meglio o peggio di pazza?

"Ma stanno nascondendo qualcosa." La voce di Elsa è così bassa che a malapena la sente. Sua sorella mantiene ancora una specie di espressione serena, mentre sorveglia la crescente confusione nel cortile, perché il castello alla fine sta iniziando ad arrivare allo stato in cui è Anna, e cioè, sveglio—si lecca le labbra.

"Sì, come se non fosse ovvio."

"So che non ti fidi di Albert—"

"Ma perché, tu sì? Elsa," Anna si volta verso di lei. "Guardami negli occhi e dimmi che ti fidi di lui."

Sua sorella la guarda negli occhi, la bocca si apre appena, e poi scuote la testa, mordendosi il labbro.

Anna non dice ha. Non dice niente. Il loro mondo barcollava pericolosamente verso l’orlo del precipizio, in quel momento. Quello che vuole dire è, ehi, Kristoff mi ha detto che mi ama, e io non sono riuscita a dirgli che lo ricambio. Ma sarebbe stato brutto, e abbastanza egoista, quindi, cioè, no. Invece dice, "Voglio che se ne vadano."

"Lo faranno. Mostra loro le montagne. Fagli sentire il freddo. Il freddo fa soffrire le persone."

"Elsa—"

"Solo tattica, Anna. Qualcosa che, in quanto regina, devi conoscere." Non c’è rabbia nella sua voce, solo un riserbo esausto che ti riduce fino all’osso.

Anna si afferra la mano destra con la sinistra, e i suoi occhi incrociano quelli di Kristoff dall’altra parte del cortile. Il mondo si ferma, inciampando, e tutto quello che rimane è quella sua stupida brutta enorme faccia—

Perché ha dovuto dire una cosa del genere, huh?

Vuole abbracciarlo.

Si accontenta di mordersi il labbro. Si accontenta di mimare le parole, "Mi dispiace."

Kristoff scuote la testa, voltandosi di nuovo verso il carro e Sven.

Complicato, tutto, solo—argh

"Anna?"

"Sì?"

"Fai…attenzione, d’accordo?"

"Psh, attenzione? Elsa, ti prego. Sono l’epitome dell’attenzione. Ho inventato io la parola." Anna ghigna. "Starò benone. Sai che voglio aiutarti, e se portarti," abbassa la voce, guardando a terra "questi imbecilli fuori dai piedi per un paio d’ore e farli spaventare su nelle montagne è quello che devo fare, allora devo farlo."

"Grazie." Elsa sorride, uno di quei sorrisi rari, che le raggiunge gli occhi, ed è contagioso; Anna sorride di rimando, stringendo la sorella in un abbraccio. Elsa rimane rigida per un momento, come ricordandosi che può farla, adesso, questa cosa degli abbracci, e poi la stringe a sé e bisbiglia, "Mi raccomando."

Anna le sussurra, di rimando, "Anche tu."


Elsa guarda la comitiva che se ne va, sei uomini a cavallo e Sven che trotta avanti al carro che porta la slitta, Kristoff e Anna in testa. Sono separati da uno spazio talmente largo che è imbarazzante. Le spalle di lui sono tese; quelle di lei, curve. E’ tentata, per un momento, di richiamarli e farli tornare nelle ali protettive del cortile, ma non lo fa. Invece li osserva mentre se ne vanno, attraverso i cancelli aperti, per la strada rialzata, nella città.

La città.

Il suo sospiro è più profondo del solito, ricoperto di ghiaccio ai margini.

"Vostra maestà?"

Sussulta, distogliendo lo sguardo da dove l’aveva fisso, il retro della testa della sorella; Kai è accanto al suo gomito, e ha un aspetto molto più composto di prima. Ha il naso rosso. Lancia un’altra occhiata oltre i cancelli, ma la comitiva non si vede più. "Sì?"

"Ho messo le note spese sulla vostra scrivania, affinché siano approvate prima da voi. Weselton ha inviato un’altra missiva riguardo alla—"

Prova rancore, ma non sa perché. "Bruciala," lo interrompe. Basta duchi. Basta accordi commerciali con gente dubbia.

“Sì, vostra maestà," Kai esclama, con un ghigno lupesco, scribacchiando qualcosa sulla pergamena che ha in mano. Mentre lui scrive, lei sorveglia il cortile; parecchi servi, uscendo dal retro delle cucine, sbadigliano, massaggiandosi articolazioni doloranti nella schiena. Aggrotta le ciglia.

Albert sarà sulla nave.

Esclama, "Devo fare una brevissima visita al Principe Albert. Ho bisogno che porti fuori il vino della servitù, affinché sia controllato."

Kai sobbalza, ma tutto quello che dice è, "Sì, vostra maestà."

"Voi," attira l’attenzione di due guardie di passaggio con un rapido cenno di mano. "Con me."

Si inchinano, e lei si volta, e se ne va.

Segue il percorso che ha fatto anche la carovana, fuori dai cancelli aperti, ma invece di andare a destra, nel cuore della città, vira a sinistra, verso il porto. Le persone fanno cenni del capo al suo passaggio; le persone si inchinano. Annuisce, permettendosi un accenno di quasi sorriso. La liberà inebriante che aveva avvertito giorni prima sembra svanita, senza l’anonimato del mantello, e deve ricordarsi di mantenere il sorriso, la postura, la grazia. Il mercato è luminoso, movimentato, sboccia come un fiore nell’aria del primo mattino. Immagina, per un momento, di fermarsi ad annusare le margherite bianche del banchetto accanto a lei; immagina di correre alla taverna; immagina di ballare.

Arriva al porto.

"Mastro Olin," saluta, guardandolo dal muretto che sovrasta il pontile marrone e segnato dalle intemperie.

L’uomo sussulta, si volta; regge parecchi fogli di pergamena, stretti nelle mani brune, e indica una delle navi. I suoi ragazzi, attorno a lui, eseguono gli ordini. Fa un mezzo sorriso. "Che piacere, vostra maestà!"

Ferma le guardie con un cenno di mano, e prosegue da sola scendendo le scale che portano al pontile. Domanda, "Niente da riportare?"

"Quasi, tranne per il fatto che quella nuova nave delle Isole del Sud sta consumando la maggior parte delle nostre risorse. Pare, vostra maestà," Olin continua, abbassando la voce mentre lei si avvicina, "che sia abitata da— gente riprovevole."

Guarda in tralice l’enorme vascello, quello ancorato più vicino, i cui colori non riconosce. Odia le navi, e il ghiaccio che le schiocca attorno alle dita lo prova. Eppure, lo considera con un’occhiata scaltra, esaminatrice. E’ più sottile degli altri, snello e allungato, il vessillo delle Isole del Sud sbatacchiato languidamente dalla tiepida brezza estiva. Dice, "Non sembra un vascello mercantile."

"Infatti, non lo è—è un brigantino. Niente li eguaglia per velocità, e sicuramente ‘sti ambasciatori sono arrivati qui in tempo record."

"Già, infatti." Osserva uno dei tipi sul ponte, un uomo robusto con una cicatrice seghettata su un occhio. Odia le navi. "Come procedono le riparazioni dell’altra?"

"Procedono. Un altro paio di giorni, può darsi, e potrà essere messa in mare."

"C’è stato qualche—movimento?"

"Non che io sappia—e l’abbiamo tenuto costantemente d’occhio."

"Grazie, Mastro Olin." Elsa guarda gli uomini che brulicano davanti a lei, come formiche sui pontili, che trasportano casse enormi e sacchi pesanti. Lo ripete. "Grazie."

Avanza, a testa alta, e gli uomini si spostano di lato come un mare che si apre, alcuni armeggiando immediatamente per togliersi il cappello, alcuni inchinandosi profondamente. Ascolta il picchiare sordo delle proprie scarpette contro il legno, osserva le navi passare, vascelli mercantili, come quello che se li era portati via per due settimane. Non riesce nemmeno a immaginare di salire su una nave. Com’è che dicevano, i marinai?

Il mare, volubile padrona e crudele assai—

Prega per chi, disgraziato, vi si avventura;

Perché, altrimenti, la sua testa vedrai

Galleggiare sull’acqua scura.

Si ferma accanto alla nave, ma i suoi pensieri erano stati  occupati troppo dalla luce delle stelle e dal ballare da soffermarsi sui due ritratti nel corridoio. Due settimane, avevano detto. Un uomo passa accanto al ballatoio, e lo chiama, "Signore."

Il marinaio sussulta. C’è qualcosa di familiare nell’espressione incredula, nel naso grosso, la pelle segnata dalle intemperie, e le rammentano un giorno che sembra appartenere a una vita fa, quando ha chiesto di vedere un uomo che non conosceva, e che ancora non conosce, non davvero.

Sarebbe stata una brutta cosa, conoscerlo?

Esclama, "Per favore, mi vada a chiamare il Principe Albert." Lo stomaco le si chiude, le budella si aggrovigliano, e non per la stazza delle navi avanti a sé. Riesce solo a sentire Anna, echi della mattina, la galleria d’arte vuota. L’uomo la guarda sbattendo le ciglia.

"Mi scusa, maestà, ma se n’è andato un poco di tempo fa."

E lo stomaco sprofonda.

Il ghiaccio si cristallizza sotto i suoi piedi, ma mantiene la voce ferma. "Il motivo?"

"Non so di preciso. Ha detto che tornava."

"Sì," annuisce, brusca. "Beh, grazie."

"Quando volete, maestà," fa il marinaio, anche se non sembra averlo detto con convinzione, anche se ha l’aria di uno che spera che lo lasci tornare al proprio lavoro, e lo accontenta. Gira i tacchi, cammina lungo il porto, oltrepassa gli uomini che si inchinano e la salutano meravigliati, e, per la prima volta, è sconvolta, e non riesce a rispondere in maniera appropriata—i loro volti si confondono e diventano un mare di pelle e occhi curiosi, le navi che li sovrastano sono nuvole di tempesta.

Probabilmente è andato a trovare Petter e Klara.

Si sta arrampicando sugli specchi.

Era sembrato così sincero, pensa, frenetica, con la voglia di stringersi le tempie, di richiamare alle punte delle dita la maledizione, per posarvele e dare sollievo al mal di testa che iniziava a pulsare lì. Era sembrato così sincero; ma poi l’atteggiamento coi fratelli, e—

"Dovrebbe saperlo, non li ritengo particolarmente affidabili."

"Non lo sono. Mi creda."

Elsa chiude gli occhi, tentando di lasciare al rumore di sottofondo che calmasse i suoi nervi in fiamme, ma tutto quello che fa è renderla improvvisamente, orribilmente consapevole del fatto che è circondata da persone.

Cosa non avrebbe dato per una porta chiusa.


"Che tempo che fa, eh?"

"Già."

"Già, voglio dire, cioè—cioè, è super assurdo quanto faccia freddo qua sopra, tanto da—credo che mi piacerebbe provare a cavare il ghiaccio, mi porteresti a cavare il ghiaccio?"

"Certo."

Si sta spezzando. Vuole dirlo, davvero, ma non riesce ad aprire bocca. Guarda gli alberi oltrepassarli, scuri e spogli, ritorti, rami curvi coperti di bianco. Si sono lasciati dietro il carro, e riesce a sentire i cavalli affaticarsi per tenere il passo con la slitta. Sven va piuttosto veloce. Vuole dirlo. Si guarda indietro, ma i principi sono a quasi cinque metri di distanza, e le guardie ancora più lontano, quindi si rigira e stringe le mani a pugno in grembo e si morde il labbro e perché lui le rendeva le cose così difficili—"Sentiscusaok?"

"Che?" chiede.

"Scusa," sibila lei.

"Aspetta, che hai detto, non ho sentito—"

"Kristopher!"

Le lancia un’occhiata con l’ombra di un sorriso, ma poi svanisce subito e il momento è passato e torna a fissare il sentiero avanti a loro. Anna non sapeva dove stessero andando, esattamente, solo in qualche posto in alto e molto freddo per far scappare a gambe levate un paio di ambasciatori cretini. Si risistema nella slitta, ed è come la prima volta, tutti e due fianco a fianco—

"Vuoi dirmi che hai conosciuto un uomo e ti ci sei fidanzata nello stesso giorno?"

"E’ vero amore!"

Si afferra la mano destra con la sinistra. "Mi dispiace non averti detto che ti ricambio."

"Niente di che, lasciamo perdere, ok?"

"Aspetta, che? No, no che non possiamo. Dobbiamo parlarne."

"No, invece no."

"Quindi mi—mi stai tagliando fuori?"

"Non ti—Anna, ti prego." Kristoff chiude gli occhi. Vuole baciarlo. Vuole urlare.

"Sì. Sì, invece—credi che non sappia che significa essere tagliata fuori? Perché ti racconterò una storia, che inizia con la p e finisce con o—" ma prima di finire pensa a porte aperte, il che la riporta direttamente ad Hans, il che la riporta indietro alla sua stupidità, quindi lascia cadere il discorso. La slitta rallenta, e tagliano per un sentiero su per la montagna. La neve si fa più alta, nascondendo il terreno nero e ghiacciato sotto di essa. Quest’inverno non era il bellissimo reticolo di ghiaccio creato da Elsa. Era sporco, intricato e pericoloso.

"Non sono io quello che sbatte le porte in faccia alle persone," Kristoff borbotta di rimando.

Anna incrocia le braccia, indignata. "Scusami? Non escludo nessuno—mi piacciono le porte aperte, io sposerei le porte aperte—"

"E allora perché gli permetti ancora di rovinarti la vita?" Kristoff scatta, schioccando le redini.

Le sembra di aver ricevuto un pugno allo stomaco. "Che?"

"Sei ancora—" geme, e per un momento le redini gli scivolano. Quasi automaticamente, Anna allunga la mano per afferrarle, e si toccano, un calore che riesce ad avvertire anche attraverso i guanti, un calore più forte di quello del cristallo di fuoco posato accanto al cuore. Entrambe ritirano la mano con aria colpevole, in fretta. Lui si strofina la nuca, facendo cenno a Sven di proseguire quando la renna si volta, preoccupata. "Ma" continua, imbarazzato, "—ma di cos’è che hai paura?"

"No, perché? Perché mi escludi sempre? Perché tagli sempre il mondo fuori? Ma di cos’è che hai paura?!"

Oh.

Oh.

Oh, cielo.

"Senti," Kristoff dice, ancora un mormorio basso, ancora lo sguardo rivolto di lato, a disagio. "Senti, io non—io voglio solo—vuoi troncare?" Indica prima se stesso e poi lei, l’espressione di chi soffre. Si volta di nuovo verso il sentiero. "Non voglio—forzarti a fare niente, non è—non voglio."

E’ ancora parecchi passi indietro, al ma di cos’è che hai paura, e il suo cervello sta elaborando il tutto lentamente, troppo lentamente. "Io—"

"Avete intenzione di fermarvi presto?" uno dei principi chiede a gran voce.

Kristoff è in preda alla collera, e lei riesce a sentirlo, sospeso tra di loro, politica, cosa ne sai tu, sii diplomatica. Risponde, scorbutico, "Sì."

Anna incrocia le braccia. Nonostante tutti i vestiti, e il calore del cristallo, rabbrividisce, lungo tutta la schiena, fino alle punte delle dita.

Non preoccuparti, pensa.

Solo qualcuno che calpesta la mia tomba.


Non ha senso.

Per niente.

Ti sta usando.

Elsa è quasi, quasi grata di essere fuori dal mare di volti e voci, di ritorno nel cortile del castello, ma i cancelli aperti ghignano maligni dietro di lei. Li vuole chiusi, in tutto e per tutto sbarrati, per la prima volta dall’incidente. Tornare sui propri passi, pensa, stringendosi forte tra le braccia, sarebbe stato facile. Una sola parola.

Doveva arrivare fino al fondo di quella situazione, e l’unico modo per farlo sarebbe stato trovare Albert, e chiedere spiegazioni. Avrebbe—avrebbe mandato dei messaggeri in giro a cercarlo—

Ti sta usando.

No. No, doveva solo—solo questa volta—

Fa il primo passo all’interno del castello, anticipando la lunga camminata nel corridoio dei ritratti, gli occhi che la fissano calmi, accusatori, come hai potuto pensare a lui, lasciare che lui ti parlasse in quel modo, permettergli di suggerire quelle cose, sei una regina, sei una regina, sei

Ogni passo diventa ghiaccio, e poi neve alta. Abbassa lo sguardo, allarmata.

Stai calma. Stai

Avrebbe risolto tutto, avrebbe. Doveva.

Stai

Qualcuno strilla.

Agghiacciante, riecheggia e si diffonde nell’aria mattutina, facendole male ai timpani, spaventandola a tal punto che la neve allarga la sua morsa, come un ragno, su per le scale fino alla sala d’ingresso, passando dalle porte socchiuse. Le guardie stanno già accorrendo, e anche lei, seguendo il suono morente della voce, attorno alle stalle e nel retro del castello. Arriva ai cancelli posteriori, il cuore che martella, una scia di ghiaccio che la segue. C’è una servetta che regge un grosso cesto di bucce di patate, pallidissima, che guarda a bocca aperta il mucchio di spazzatura di fronte a sé.

"Che è successo?" Elsa chiede, tagliente, cercando di stare calma, calma, calma

"Vostra maestà!" La serva la guarda, orripilata, e si piega in un inchino, ma mentre lo fa riesce a far cadere il cesto.

"Che è successo?" Elsa ripete. Le guardie l’hanno quasi raggiunta, le spade che sbattono contro i fianchi. "Cosa è accaduto?"

La ragazza si stringe il petto e indica il cumulo di spazzatura. Sembra impaurita, ma Elsa non sa se è per la propria presenza, le bucce rovesciate, o per qualunque fosse stata la cosa che l’aveva spaventata in primo luogo—"Ecco, lì, ho trovato—proprio lì—una mano!"

"Cosa?" Elsa chiede, gli occhi stretti per la confusione. Fa tre passi, spingendosi verso la montagnola. L’odore era già pregnante e stucchevole, nell’aria estiva, una puzza disgustosamente dolciastra che li copriva come velluto. Vede ogni genere di buccia scartata, ortaggi e terra, e poi—

C’è una mano, tinta di rosso scarlatto.

Aggrotta le ciglia, sbatte le palpebre, pensa che una volta riaperti gli occhi, l’allucinazione sarebbe scomparsa, si sarebbe provata fasulla, ma era ancora lì—allunga tentativamente una mano, poi si ferma; con mano tremante sposta un po’ di spazzatura di lato, abbastanza da intravedere dei ricci castani—

No.

"Aiutatemi!" rantola, lanciando via immediatamente sporco e spazzatura, e non le importa del decoro, delle proprie mani. "Subito!"

Una delle guardie afferra le dita che spuntano e l’altra il braccio, e assieme tirano. Il corpo viene via dal mucchio di spazzatura con un risucchio, ed eccolo steso a terra sulla pietra, bianco come un morto, il sangue che gocciola ancora da una ferita aperta lungo lo stomaco, incrostata di fango e sudiciume. I suoi occhi sono chiusi.

"Al—Albert?" Elsa chiede, cadendo sulle ginocchia. C’è dello sporco sul dorso delle mani pallide, come la roba che lui ha appiccicata sulla fronte. Lo chiede perché non riesce a crederci, eppure lo fa, e—"Chiamatemi il medico!" grida, e la sua voce è stridula come mai l’aveva sentita prima—è un’emozione nuova, questa paura matta, più della rabbia che in precedenza aveva provato nei confronti del principe, più simile all’onda dirompente di dolore di tua sorella è morta—"Albert," esclama, le dita che appena toccano i suoi ricci. "Albert, devi svegliarti. Questa non è una richiesta, è un ordine."

Gli occhi di lui rimangono chiusi, e il mondo si muove troppo lentamente.

Sussurra, tra sé e sé "Ti prego."

Echi di

"Ti prego."

luce delle stelle.

"Ti prego."


.

.

(nulla.)

 

 

  
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