Capitolo
13
"Era
davvero necessario? Dobbiamo ancora occuparci della principessa,
e—"
La
voce è lontana. E, dietro le palpebre chiuse, echi
di—
"E,
quando scopriranno di questo piccolo contrattempo,"
e i suoi piedi sbattono contro qualcosa, le caviglie scrocchiano,
"saremo
già via da un bel pezzo."
Echi
di—
"Lo
sai che avrebbe trovato il modo di spifferare i
nostri
piani alla regina. Non provo rimorsi per quest’idiota."
"Lo
so."
Echi
di—
"Allora
smettila di lamentarti, e aiutami a trasportarlo."
Luce
delle stelle.
"Lasciamolo
nel mucchio dei rifiuti, dove merita di stare."
Poi—
Nulla.
(nulla.)
Prova
a spalancare la porta con un
botto, ma a questo punto,
la rabbia ha avuto il tempo di smorzarsi, e non è proprio
sicura se ha sentito
o ha sentito— come in quegli strascichi
di sogno—quando sei mezza
addormentata e precipiti e poi ti svegli e ti
accorgi di essere a letto,
ma la caduta ti era sembrata—beh, reale,
per un minuto secondo—se in
sogno cadi e muori, muori anche nella vita reale?
Non
è questo il punto, attieniti al punto.
Oh,
sì—
Beh,
alla fine apre la porta, almeno. Lascia che si
chiuda alle
proprie spalle. Le stalle hanno un’aria particolarmente
allegra e luminosa
nella luce appena sorta del primo mattino, con una grossa pila di
fieno, e i
cavalli che nitriscono nei recinti. Sente, "Ma non la voglio
questa
bardatura, voglio quella vecchia!
"Spiacente,
piccolo. Dobbiamo apparire al meglio per quei due stupidi
co—"
Kristoff
esce da uno dei recinti, reggendo un finimento decorato, sul viso
uno sguardo di quasi-orrore. "—come va?" finisce, poco
convincente.
"Ciao,"
Anna lo saluta brusca, con un cenno, e poi si lancia
disperata nella pila di fieno. Basta così. Al tremila
percento. "Basta
così," lo informa.
Kristoff
si carica la bardatura su una sola spalla e si volta con
un’occhiata confusa. Le corna di Sven sono appena visibili
oltre il legno scuro
di ciliegio, e poi la testa, che fa capolino, negli occhi
un’espressione
comprensiva, pensierosa. Anna non credeva che le renne potessero
sembrare
pensierose, o comprensive—stessa differenza? Quello che
è—ma Sven ci riesce
proprio bene. Chiude gli occhi e li copre con un braccio e non voleva
fare la drammatica, ma lo è alquanto. Un pochino.
"Basta?"
Kristoff chiede. Lo sente toccarle tentativamente la
gamba con la punta dello stivale.
"Basta,"
afferma. Poi si strofina il viso. Si siede. "Ok,
basta coi basta così, adesso. Sei pronto per—"
"Woah,
woah, woah, furia scatenata, non pensare neanche di cavartela
così." Kristoff aggancia le finiture di Sven con tre
movimenti rapidi e
poi dà delle pacche sul fianco della renna. La guarda
alzando un sopracciglio.
"Che c’è che non va?"
"Se
muori in un sogno, muori anche nella realtà?"
"Cosa."
"Voglio
dire, pensaci. Sei mai morto in sogno?"
"Non
ci penso, di solito. Mai. E’ per questo che sei sconvolta?
Sei
morta in sogno?"
"No.
Ho sentito Gemello Scemo e Gemello più Scemo parlare col
principe
Albert di Elsa, ma ovviamente non mi crede,
perché di punto in bianco le
è venuto il pepe al tu-sai-cosa e ha deciso che Albert
é in realtà una brava
persona, il che, ti prego, non è assolutamente
il caso—"
"Che,
pensi che le piaccia o cose così?" Kristoff si lascia
cadere accanto a lei.
"Penso
che lo tolleri. E lei non tollera un sacco di gente. Che
cavolo, a malapena tollera te—senza
offesa," si corregge subito,
mordendosi il labbro con una smorfia. "Le piaci. Davvero. E’
solo—ok, non
importa, dimentica quello che ho detto, mi sto solo scavando la fossa."
Il
discorso cade, e ascoltano i cavalli pestare il pavimento. Alla fine
Kristoff chiede, "Parlavano di lei? Cioè?"
"Cioè—roba
di tradimento. Non lo so."
"Ma
sei sicura di non aver sentito delle voci?"
No,
pensa, perché era presto, ed era stanca, e si sarebbe alzata
allo
spuntare dell’alba solo in caso di apocalisse, ma dice,
convinta,
"Sì."
Kristoff
solleva il cappello per grattarsi la fronte, e ha l’aria
piuttosto
frustrata. Esala un respiro profondo. "Vorrei tanto
che avessi
sentito delle voci."
"Vorresti
che fossi pazza?"
"No!
No, non è quello—vorrei che avessi sentito le voci
perché così
magari potremmo sbagliarci su di loro. I Principi delle Isole del Sud.
Anna,
stiamo per andare in posti isolati e selvaggi con due
di loro—"
"Assieme
a delle guardie—"
"Non
è questo il punto," si gira un po’, e la guarda, e
lei vuole
arrampicarglisi in grembo e rimanere lì, ma non si muove "Il
punto è che,
sarete tu, e due di loro. E io—" si interrompe, arrossendo
tutto, e guarda
di lato. Anna non sa esattamente cosa dire, ha paura di dire qualsiasi
cosa,
quindi si butta sulla cosa più banale che riesca a pensare,
cioè, dopo un
momento, due—
"Quindi,
volevo solo dirti grazie, di nuovo. Perché lo stai facendo,
so che non si tratta di—di cavare ghiaccio,
o niente, e devi avere a che
fare con questi due Principi, e so che non capiresti, perché
si tratta di
politica—"
Sembra
vagamente offeso.
Anna
lo guarda alzando le sopracciglia.
Alla
fine lui annuisce, evasivamente.
"—perché
si tratta di politica," continua, "ma grazie, e
potrei—avrei potuto essere molto più tesa a
riguardo, lo sai? Ma non lo sono.
Chiedimi perché non lo sono."
Kristoff
alza gli occhi. La asseconda. "Perché non lo sei?"
"Perché,"
sussurra, dandogli di gomito, e poi non riesce a
continuare, non se lo guarda dritto in quella faccia stupidamente
attraente—deve riprendersi un
po’—"perché tu sarai lì con
me.
Quiiiiindi," conclude, lottando per tirarsi le ginocchia al petto con
tutto quel fieno, e trattenendole con le braccia quando ci riesce,
"quindi
ecco. E grazie. Come ho detto."
Non
lo stava guardando. Si era concentrata sulla spaccatura dello zoccolo
di Sven a qualche metro di distanza, cercando di dimenticare la
confusione
della mattina, il suono delle voci provenienti dalla galleria, lo
sguardo
incredulo di Elsa—e sua sorella non era mai stata il tipo che
non vuole
guardare in faccia la realtà—ma allora, e se aveva
davvero capito
male—ma allora, e se invece aveva capito
bene—
E
poi sarebbe andata in giro coi lupi.
E
sapeva che erano lupi. Lo sapeva. Glielo aveva
avvertito addosso,
dal primo momento che li aveva visti—
"Anna."
Il
mondo si ferma. Tutto. Rumori e pensieri e respiro. Avrebbe potuto
farsi
avvolgere dal suono di quella voce. Non aveva sentito mai nessuno
prima
dire il suo nome in quel tono. Sbatte le palpebre, sbatte, sbatte, lo
guarda in
tralice. Deglutisce. "Sì?"
Il
cuore le martella un ritmo irregolare contro la fragile gabbia che lo
racchiude come un uccellino.
"Ti
seguirei ovunque," Kristoff esclama, allungandosi e
prendendole le mani dalle ginocchia, coprendole completamente con le
sue,
"per far sì che tu sia al sicuro. Voglio dire,
io—Anna, io ti amo."
Parole.
Fuori, all’aperto. Aperto. Porte aperte.
Vuole
dirlo. Davvero. Ma non riesce a far funzionare la bocca. Invece si
mette
in ginocchio, piantandogli un casto, veloce bacio sulla guancia prima
di
strisciare fuori dalla pila di fieno. Le stalle sono troppo piccole. Ha
bisogno
di andarsene. "Ma la, uh," indica col pollice un punto indefinito
alle proprie spalle, "slitta è fuori?"
Kristoff
si alza in piedi. Il rossore sul volto sta sbiadendo, ma è
ancora
evidente, e ha voglia di abbracciarlo e non lasciare andare mai
più, ma poi
pensa ai lupi, e alle porte, e tutto è troppo complicato,
e le fa male
il cuore. Lui annuisce, brusco. "Già."
"Vado,
uhm—a controllarla. Vieni con…?" la voce si
affievolisce,
mentre si incammina verso la porta.
"Fra
un minuto."
"Ok.
Ok, benissimo. Sarò qui fuori. Proprio qui. Proprio fuori."
Prova
ad aprire la porta, ma le tremano le mani, e le dita scivolano.
Attacca il chiavistello. Si apre, cigolando.
Esce,
inciampando.
Elsa
indugia un momento nel corridoio.
E’
breve—uno sguardo fuori. Una mano tra i capelli.
Un’ombra di pensiero,
un pensiero pericoloso—fidati di lui,
non—Io mi fido di Anna—e poi il
mondo riprende il proprio posto. Dà le spalle alle finestre,
luminose e
accecanti, si volta verso le scale, la gonna che le sfiora le gambe e
le
scarpette nere che battono un ritmo rumoroso nel silenzio del castello.
Era
tanto presto che il mondo non si era ancora messo in moto, vorticando e
vorticando e vorticando—
"Ti
sta usando!"
E
se lo avesse ammesso con se stessa, dopotutto non era stato quello il
suo
timore, tutto quel tempo?
Fidarsi.
Fidarsi. Ecco perché era tanto più facile
chiudere tutti fuori.
Ma
no. No, quello era—il passato, e—
"Ti
sta usando!"
Elsa
raggiunge il piano terra, le armature tutte rivolte verso
l’entrata,
contro avversari invisibili. Buone ragioni. Si
aggrappa al pensiero come
a una cima di salvataggio. Ci dovevano essere delle buone ragioni se
Albert
aveva detto quello che aveva detto, nel caso l’avesse davvero
detto, buone
ragioni se era—entrato di soppiatto nel
castello per vedersi coi
gemelli—corrotto la guardia notturna esausta con del
denaro—Ne sarebbe stato
capace? E perché? Buone ragioni. O
nessuna ragione. Forse tutta questa storia
era solo dovuta ad Anna che esagerava.
Elsa
si costringe a respirare.
Anna
esagerava molte volte.
Il
corridoio è silenzioso. E’ tutto quello che nota
mentre volta rapida
ogni angolo, fermandosi bruscamente prima della galleria
d’arte. Non sa cosa si
aspettasse, ma di certo non era questo—
Vuoto.
L’orologio
a pendolo ticchetta, Giovanna d’Arco la guarda, impassibile;
si
attarda all’ingresso, controllando le panche basse e il
pavimento di legno,
immacolato, la vivida luce del sole che filtra dalle finestre.
Niente.
Fa
un paio di passi, entrando di soppiatto, lanciando occhiate veloci
sotto
il mobilio, ma non vede nessuno, a parte il tribunale silente che la
giudica
dall’alto. Davvero Anna si era immaginata le cose?
No,
qualcuno doveva essere stato lì. Qualcuno—
"Regina
Elsa, è sveglia ben presto, stamane."
Si
volta, il ghiaccio che scricchiola formandosi tra le dita tese.
C’è uno
dei gemelli in piedi sulla soglia, pronto per una giornata di
escursioni al
freddo pungente.
Apre
la bocca. La chiude, subito. Lui ride.
"Tomas,"
dice, toccandosi il petto con una mano. "Non si
preoccupi—persino i miei fratelli confondono ancora me e
Viktor."
"Principe
Tomas." Elsa recupera, in fretta. "Porgo le mie
scuse."
"Non
c’è bisogno." Sorride, disinvolto, ma gli occhi
sono
leggermente stretti a fessura, espressione che non lo abbandona.
"Qualcosa
non va?"
"Si
è—" si lecca le labbra, "—appena alzato?"
"Sì.
Sono sceso dabbasso per vedere se fosse pronto qualcosa per
colazione. Pensavo dovessimo partire presto?"
"Sì.
Infatti." Più tempo per voi all’aria
pungente e rarefatta.
Le offre il braccio e lei lo ignora visibilmente, scivolando con grazia
nella
sala. "E suo fratello?"
"Sarà
qui a breve."
"Eccellente."
Non
ha senso.
"Mi
auguro," comincia, camminando lentamente accanto a lei,
stringendo le mani dietro la schiena. Non era magro quanto Albert, la
sua
corporatura era più simile a quella di—lui.
"Mi auguro che Albert
non le abbia causato fastidi?"
Lo
guarda con malizia.
Ride.
"Era sempre il combinaguai, a casa. Sapeva che," inizia,
"una volta si convinse che avrebbe sposato la delfina di Francia? E
poi,
quando scoprì che lei avrebbe sposato il principe di Albion,
decise di sfogare
la propria rabbia sul naso di un servitore su una delle scalinate sul
retro."
Conosceva
già quella storia. Tiene le labbra serrate, ma il sorriso
cordiale. "Cielo, davvero?" E
nei suoi
incubi è su una scalinata nei quartieri della
servitù, e un sorriso appare
rapido e la sovrasta come una fiamma tremula, e il dolore dal naso
all’interno
della testa—fa male. Brucia.
"Davvero.
Svolazza continuamente dalle grazie di una donna a quelle di
un’altra," Tomas conclude con un sorrido. "Il suo amore
è sempre così
facile da ottenere—e altrettanto facile da perdere. Pensavo
dovesse
saperlo."
Elsa
si blocca. Quasi impercettibilmente. Sente il cuore che le martella
nel petto, lo stomaco si chiude—qualcosa—orribile—e
si dice, sarà
sulla sua nave. Questo è un gioco di
menzogne e finzione; sarà sulla sua
nave. "Credo proprio di essere benissimo capace di farmi da
sola delle
opinioni," inclina la testa. "Ciò nonostante, la ringrazio
per la sua
premura, Principe Tomas."
"Davvero,"
sorride, fiacco.
Crede
di essere più abile di quanto sia, a questo
gioco,
decide lei
leccandosi le labbra, tirandosi la treccia. Si afferra la destra con la
sinistra e fa cenno col capo alla sala da pranzo. E’ allora
che sente passi
frettolosi, un respiro affannoso—
"Regina
Elsa!" Kai si inchina. Sembra scomposto, i capelli
leggermente scompigliati, la cravatta infilata male. "Perdonatemi se
non
sono stato presente—"
"Bevuto
troppo, la notte scorsa?" Un’altra voce, strascicata, da
dietro. E’ Viktor, che scende le scale, e Kai gli lancia
un’occhiata
oltraggiata. I servitori hanno una riserva di vino nei loro alloggi, e
gli era
permesso di farne uso dopo che i compiti della giornata erano finiti.
Quanto
era facile, farvi scivolare poche gocce di sonnifero?
Elsa
vuole urlare. Troppi inganni, e non riesce capire più cosa
è reale e
cosa no. La temperatura cala pericolosamente, e afferma, gelida, "Di
certo
lei non può parlare, Principe Viktor." Si lancia
un’occhiata alle spalle,
il collo rigido. Viktor è in piedi, fermo sul gradino
più basso, che si
aggiusta le maniche e guarda con disprezzo l’uomo davanti a
loro. Non un
bicchiere di troppo, perché Kai non beve mai molto.
No.
Ci sto pensando troppo.
Albert
sarà sulla nave.
Si
volta. "Kai, non c’è niente da perdonare. Ti
dispiacerebbe far
preparare della carne fredda in sala da pranzo per colazione? E informa
Anna e
Kristoff."
"Sì,
vostra maestà. Certo."
Fa
un passo avanti, avvertendo dietro di sé i
fratelli—
Due
lupi, che ringhiano e mordono alle sue calcagna.
"Principessa
Anna! Buon giorno."
"Buon
giorno."
"Allora,
è entusiasta per il viaggio di oggi?"
"Carni
fredde a colazione. La mia preferita."
Anna
saltella nervosa su e giù. C’è la
slitta, che viene caricata sul
carro, e Sven, e le guardie a
cavallo—quattro—e—e—
Lancia
uno sguardo a Kristoff e non riesce a guardarlo negli occhi. La
colazione affrettata di fette di carne fredda le si rivolta
spiacevolmente
nello stomaco, e si strofina la faccia con le mani. Quando alza di
nuovo lo
sguardo Viktor e Tomas hanno montato a cavallo, due destrieri bianchi,
e
sembrano principeschi e pomposi e decisamente stupidi,
se glielo si
chiedeva—
"Anna?"
Sobbalza.
"Oh—ehi. Salve."
"Salve."
Si
strofina le braccia, facendo involontariamente un passo indietro verso
il castello, giocherellando col tacco della scarpa sulle pietre che
pavimentano
il portile. Per la prima volta da settimane ha troppo caldo, col
cristallo che
pulsa come un altro cuore sotto il collo alto del vestito che indossa.
Il sole
è troppo forte. Kristoff controlla la badatura di Sven, e
vorrebbe che
guardasse dalla sua parte, solo una volta almeno. "Quindi, allora, ah,
hai
trovato niente, huh?"
"No.
La galleria d’arte era deserta."
Anna
sbuffa dal naso. Stava diventando pazza. Ok, forse non pazza, forse,
cioè, folle—ma folle era meglio o peggio di pazza?
"Ma
stanno nascondendo qualcosa." La voce di Elsa è
così bassa
che a malapena la sente. Sua sorella mantiene ancora una specie di
espressione
serena, mentre sorveglia la crescente confusione nel cortile,
perché il
castello alla fine sta iniziando ad arrivare allo
stato in cui è Anna, e
cioè, sveglio—si lecca le
labbra.
"Sì,
come se non fosse ovvio."
"So
che non ti fidi di Albert—"
"Ma
perché, tu sì? Elsa," Anna si volta verso di lei.
"Guardami negli occhi e dimmi che ti fidi di lui."
Sua
sorella la guarda negli occhi, la bocca si apre appena, e poi scuote la
testa, mordendosi il labbro.
Anna
non dice ha. Non dice niente. Il loro mondo
barcollava
pericolosamente verso l’orlo del precipizio, in quel momento.
Quello che vuole
dire è, ehi, Kristoff mi ha detto che mi ama, e io
non sono riuscita a
dirgli che lo ricambio. Ma sarebbe stato brutto, e abbastanza
egoista,
quindi, cioè, no. Invece dice, "Voglio che se ne vadano."
"Lo
faranno. Mostra loro le montagne. Fagli sentire il freddo. Il
freddo fa soffrire le persone."
"Elsa—"
"Solo
tattica, Anna. Qualcosa che, in quanto regina, devi
conoscere." Non c’è rabbia nella sua voce, solo un
riserbo esausto che ti
riduce fino all’osso.
Anna
si afferra la mano destra con la sinistra, e i suoi occhi incrociano
quelli di Kristoff dall’altra parte del cortile. Il mondo si
ferma,
inciampando, e tutto quello che rimane è quella sua stupida
brutta enorme
faccia—
Perché
ha dovuto dire una cosa del genere, huh?
Vuole
abbracciarlo.
Si
accontenta di mordersi il labbro. Si accontenta di mimare le parole,
"Mi dispiace."
Kristoff
scuote la testa, voltandosi di nuovo verso il carro e Sven.
Complicato,
tutto, solo—argh—
"Anna?"
"Sì?"
"Fai…attenzione,
d’accordo?"
"Psh,
attenzione? Elsa, ti prego. Sono l’epitome
dell’attenzione. Ho
inventato io la parola." Anna ghigna. "Starò benone. Sai che
voglio
aiutarti, e se portarti," abbassa la voce, guardando a terra "questi
imbecilli fuori dai piedi per un paio d’ore e farli
spaventare su nelle
montagne è quello che devo fare, allora devo farlo."
"Grazie."
Elsa sorride, uno di quei sorrisi rari, che le
raggiunge gli occhi, ed è contagioso; Anna sorride di
rimando, stringendo la
sorella in un abbraccio. Elsa rimane rigida per un momento, come
ricordandosi
che può farla, adesso, questa cosa degli abbracci, e poi la
stringe a sé e
bisbiglia, "Mi raccomando."
Anna
le sussurra, di rimando, "Anche tu."
Elsa
guarda la comitiva che se ne va, sei uomini a cavallo e Sven che
trotta avanti al carro che porta la slitta, Kristoff e Anna in testa.
Sono
separati da uno spazio talmente largo che è imbarazzante. Le
spalle di lui sono
tese; quelle di lei, curve. E’ tentata, per un momento, di
richiamarli e farli
tornare nelle ali protettive del cortile, ma non lo fa. Invece li
osserva
mentre se ne vanno, attraverso i cancelli aperti, per la strada
rialzata, nella
città.
La
città.
Il
suo sospiro è più profondo del solito, ricoperto
di ghiaccio ai margini.
"Vostra
maestà?"
Sussulta,
distogliendo lo sguardo da dove l’aveva fisso, il retro della
testa della sorella; Kai è accanto al suo gomito, e ha un
aspetto molto più
composto di prima. Ha il naso rosso. Lancia un’altra occhiata
oltre i cancelli,
ma la comitiva non si vede più. "Sì?"
"Ho
messo le note spese sulla vostra scrivania, affinché siano
approvate prima da voi. Weselton ha inviato un’altra missiva
riguardo
alla—"
Prova
rancore, ma non sa perché. "Bruciala," lo interrompe. Basta
duchi. Basta accordi commerciali con gente dubbia.
“Sì,
vostra maestà," Kai esclama, con un ghigno lupesco,
scribacchiando qualcosa sulla pergamena che ha in mano. Mentre lui
scrive, lei
sorveglia il cortile; parecchi servi, uscendo dal retro delle cucine,
sbadigliano, massaggiandosi articolazioni doloranti nella schiena.
Aggrotta le
ciglia.
Albert
sarà sulla nave.
Esclama,
"Devo fare una brevissima visita al Principe Albert. Ho
bisogno che porti fuori il vino della servitù,
affinché sia controllato."
Kai
sobbalza, ma tutto quello che dice è, "Sì, vostra
maestà."
"Voi,"
attira l’attenzione di due guardie di passaggio con un
rapido cenno di mano. "Con me."
Si
inchinano, e lei si volta, e se ne va.
Segue
il percorso che ha fatto anche la carovana, fuori dai cancelli
aperti, ma invece di andare a destra, nel cuore della città,
vira a sinistra,
verso il porto. Le persone fanno cenni del capo al suo passaggio; le
persone si
inchinano. Annuisce, permettendosi un accenno di quasi sorriso. La
liberà
inebriante che aveva avvertito giorni prima sembra svanita, senza
l’anonimato
del mantello, e deve ricordarsi di mantenere il sorriso, la postura, la
grazia.
Il mercato è luminoso, movimentato, sboccia come un fiore
nell’aria del primo
mattino. Immagina, per un momento, di fermarsi ad annusare le
margherite bianche
del banchetto accanto a lei; immagina di correre alla taverna; immagina
di
ballare.
Arriva
al porto.
"Mastro
Olin," saluta, guardandolo dal muretto che sovrasta il
pontile marrone e segnato dalle intemperie.
L’uomo
sussulta, si volta; regge parecchi fogli di pergamena, stretti nelle
mani brune, e indica una delle navi. I suoi ragazzi, attorno a lui,
eseguono
gli ordini. Fa un mezzo sorriso. "Che piacere, vostra
maestà!"
Ferma
le guardie con un cenno di mano, e prosegue da sola scendendo le
scale che portano al pontile. Domanda, "Niente da riportare?"
"Quasi,
tranne per il fatto che quella nuova nave delle Isole del Sud
sta consumando la maggior parte delle nostre risorse. Pare, vostra
maestà," Olin continua, abbassando la voce mentre lei si
avvicina,
"che sia abitata da— gente riprovevole."
Guarda
in tralice l’enorme vascello, quello ancorato più
vicino, i cui
colori non riconosce. Odia le navi, e il ghiaccio che le schiocca
attorno alle
dita lo prova. Eppure, lo considera con un’occhiata scaltra,
esaminatrice. E’
più sottile degli altri, snello e allungato, il vessillo
delle Isole del Sud
sbatacchiato languidamente dalla tiepida brezza estiva. Dice, "Non
sembra
un vascello mercantile."
"Infatti,
non lo è—è un brigantino. Niente li
eguaglia per velocità, e
sicuramente ‘sti ambasciatori sono arrivati qui in tempo
record."
"Già,
infatti." Osserva uno dei tipi sul ponte, un uomo robusto
con una cicatrice seghettata su un occhio. Odia le navi. "Come
procedono
le riparazioni dell’altra?"
"Procedono.
Un altro paio di giorni, può darsi, e potrà
essere messa
in mare."
"C’è
stato qualche—movimento?"
"Non
che io sappia—e l’abbiamo tenuto costantemente
d’occhio."
"Grazie,
Mastro Olin." Elsa guarda gli uomini che brulicano
davanti a lei, come formiche sui pontili, che trasportano casse enormi
e sacchi
pesanti. Lo ripete. "Grazie."
Avanza,
a testa alta, e gli uomini si spostano di lato come un mare che si
apre, alcuni armeggiando immediatamente per togliersi il cappello,
alcuni
inchinandosi profondamente. Ascolta il picchiare sordo delle proprie
scarpette
contro il legno, osserva le navi passare, vascelli mercantili, come
quello che
se li era portati via per due settimane. Non riesce nemmeno a
immaginare di
salire su una nave. Com’è che dicevano, i marinai?
Il
mare, volubile padrona e crudele assai—
Prega
per chi, disgraziato, vi si avventura;
Perché,
altrimenti, la sua testa vedrai
Galleggiare
sull’acqua scura.
Si
ferma accanto alla nave, ma i suoi pensieri erano stati
occupati
troppo dalla luce delle stelle e dal ballare da soffermarsi sui due
ritratti
nel corridoio. Due settimane, avevano detto. Un uomo passa accanto al
ballatoio, e lo chiama, "Signore."
Il
marinaio sussulta. C’è qualcosa di familiare
nell’espressione incredula,
nel naso grosso, la pelle segnata dalle intemperie, e le rammentano un
giorno
che sembra appartenere a una vita fa, quando ha chiesto di vedere un
uomo che
non conosceva, e che ancora non conosce, non davvero.
Sarebbe
stata una brutta cosa, conoscerlo?
Esclama,
"Per favore, mi vada a chiamare il Principe Albert." Lo
stomaco le si chiude, le budella si aggrovigliano, e non per la stazza
delle
navi avanti a sé. Riesce solo a sentire Anna, echi della
mattina, la galleria
d’arte vuota. L’uomo la guarda sbattendo le ciglia.
"Mi
scusa, maestà, ma se n’è andato un poco
di tempo fa."
E
lo stomaco sprofonda.
Il
ghiaccio si cristallizza sotto i suoi piedi, ma mantiene la voce ferma.
"Il motivo?"
"Non
so di preciso. Ha detto che tornava."
"Sì,"
annuisce, brusca. "Beh, grazie."
"Quando
volete, maestà," fa il marinaio, anche se non sembra
averlo detto con convinzione, anche se ha l’aria di uno che
spera che lo lasci
tornare al proprio lavoro, e lo accontenta. Gira i tacchi, cammina
lungo il
porto, oltrepassa gli uomini che si inchinano e la salutano
meravigliati, e,
per la prima volta, è sconvolta, e non riesce a rispondere
in maniera
appropriata—i loro volti si confondono e diventano un mare di
pelle e occhi
curiosi, le navi
che li sovrastano sono
nuvole di tempesta.
Probabilmente
è andato a trovare Petter e Klara.
Si
sta arrampicando sugli specchi.
Era
sembrato così sincero, pensa, frenetica, con la voglia di
stringersi le
tempie, di richiamare alle punte delle dita la maledizione, per
posarvele e
dare sollievo al mal di testa che iniziava a pulsare lì. Era
sembrato così
sincero; ma poi l’atteggiamento coi fratelli, e—
"Dovrebbe
saperlo, non li ritengo particolarmente affidabili."
"Non
lo sono. Mi creda."
Elsa
chiude gli occhi, tentando di lasciare al rumore di sottofondo che
calmasse i suoi nervi in fiamme, ma tutto quello che fa è
renderla
improvvisamente, orribilmente consapevole del fatto che è
circondata da persone.
Cosa
non avrebbe dato per una porta chiusa.
"Che
tempo che fa, eh?"
"Già."
"Già,
voglio dire, cioè—cioè, è
super assurdo quanto faccia freddo qua
sopra, tanto da—credo che mi piacerebbe provare a cavare il
ghiaccio, mi
porteresti a cavare il ghiaccio?"
"Certo."
Si
sta spezzando. Vuole dirlo, davvero, ma non riesce ad aprire bocca.
Guarda gli alberi oltrepassarli, scuri e spogli, ritorti, rami curvi
coperti di
bianco. Si sono lasciati dietro il carro, e riesce a sentire i cavalli
affaticarsi per tenere il passo con la slitta. Sven va piuttosto
veloce. Vuole
dirlo. Si guarda indietro, ma i principi sono a quasi cinque metri di
distanza,
e le guardie ancora più lontano, quindi si rigira e stringe
le mani a pugno in
grembo e si morde il labbro e perché lui le rendeva le cose
così difficili—"Sentiscusaok?"
"Che?"
chiede.
"Scusa,"
sibila lei.
"Aspetta,
che hai detto, non ho sentito—"
"Kristopher!"
Le
lancia un’occhiata con l’ombra di un sorriso, ma
poi svanisce subito e
il momento è passato e torna a fissare il sentiero avanti a
loro. Anna non
sapeva dove stessero andando, esattamente, solo in qualche posto in alto
e molto freddo per far scappare a gambe levate un
paio di ambasciatori
cretini. Si risistema nella slitta, ed è come la prima
volta, tutti e due
fianco a fianco—
"Vuoi
dirmi che hai conosciuto un uomo e ti ci sei fidanzata nello
stesso giorno?"
"E’
vero amore!"
Si
afferra la mano destra con la sinistra. "Mi dispiace non averti
detto che ti ricambio."
"Niente
di che, lasciamo perdere, ok?"
"Aspetta,
che? No, no che non possiamo. Dobbiamo parlarne."
"No,
invece no."
"Quindi
mi—mi stai tagliando fuori?"
"Non
ti—Anna, ti prego." Kristoff chiude gli occhi. Vuole
baciarlo. Vuole urlare.
"Sì.
Sì, invece—credi che non sappia che significa
essere tagliata
fuori? Perché ti racconterò una storia, che
inizia con la p e finisce con o—"
ma prima di finire pensa a porte aperte, il che
la riporta direttamente ad Hans, il che la riporta indietro alla sua stupidità,
quindi lascia cadere il discorso. La slitta rallenta, e tagliano per un
sentiero su per la montagna. La neve si fa più alta,
nascondendo il terreno
nero e ghiacciato sotto di essa. Quest’inverno non era il
bellissimo reticolo
di ghiaccio creato da Elsa. Era sporco, intricato e pericoloso.
"Non
sono io quello che sbatte le porte in faccia alle persone,"
Kristoff borbotta di rimando.
Anna
incrocia le braccia, indignata. "Scusami? Non
escludo
nessuno—mi piacciono le porte aperte, io sposerei
le porte
aperte—"
"E
allora perché gli permetti ancora di rovinarti la vita?"
Kristoff scatta, schioccando le redini.
Le
sembra di aver ricevuto un pugno allo stomaco. "Che?"
"Sei
ancora—" geme, e per un momento le redini gli scivolano.
Quasi automaticamente, Anna allunga la mano per afferrarle, e si
toccano, un
calore che riesce ad avvertire anche attraverso i guanti, un calore
più forte
di quello del cristallo di fuoco posato accanto al cuore. Entrambe
ritirano la
mano con aria colpevole, in fretta. Lui si strofina la nuca, facendo
cenno a
Sven di proseguire quando la renna si volta, preoccupata. "Ma"
continua, imbarazzato, "—ma di cos’è che
hai paura?"
"No,
perché? Perché mi escludi sempre?
Perché
tagli sempre il mondo fuori? Ma di cos’è che hai
paura?!"
Oh.
Oh.
Oh,
cielo.
"Senti,"
Kristoff dice, ancora un mormorio basso, ancora lo
sguardo rivolto di lato, a disagio. "Senti, io non—io voglio
solo—vuoi
troncare?" Indica prima se stesso e poi lei, l’espressione di
chi soffre.
Si volta di nuovo verso il sentiero. "Non voglio—forzarti a
fare niente,
non è—non voglio."
E’
ancora parecchi passi indietro, al ma di
cos’è che hai paura, e
il suo cervello sta elaborando il tutto lentamente, troppo lentamente.
"Io—"
"Avete
intenzione di fermarvi presto?" uno dei principi chiede a
gran voce.
Kristoff
è in preda alla collera, e lei riesce a sentirlo, sospeso
tra di
loro, politica, cosa ne sai tu, sii diplomatica.
Risponde, scorbutico,
"Sì."
Anna
incrocia le braccia. Nonostante tutti i vestiti, e il calore del
cristallo, rabbrividisce, lungo tutta la schiena, fino alle punte delle
dita.
Non
preoccuparti,
pensa.
Solo
qualcuno che calpesta la mia tomba.
Non
ha senso.
Per
niente.
Ti
sta usando.
Elsa
è quasi, quasi grata di essere fuori dal
mare di volti e voci,
di ritorno nel cortile del castello, ma i cancelli aperti ghignano
maligni
dietro di lei. Li vuole chiusi, in tutto e per tutto sbarrati, per la
prima
volta dall’incidente. Tornare sui propri passi, pensa,
stringendosi forte tra
le braccia, sarebbe stato facile. Una sola parola.
Doveva
arrivare fino al fondo di quella situazione, e l’unico modo
per
farlo sarebbe stato trovare Albert, e chiedere spiegazioni.
Avrebbe—avrebbe
mandato dei messaggeri in giro a cercarlo—
Ti
sta usando.
No.
No, doveva solo—solo questa volta—
Fa
il primo passo all’interno del castello, anticipando la lunga
camminata
nel corridoio dei ritratti, gli occhi che la fissano calmi, accusatori,
come
hai potuto pensare a lui, lasciare che lui ti parlasse in quel modo,
permettergli di suggerire quelle cose, sei una regina, sei una regina,
sei—
Ogni
passo diventa ghiaccio, e poi neve alta. Abbassa lo sguardo,
allarmata.
Stai
calma. Stai—
Avrebbe
risolto tutto, avrebbe. Doveva.
Stai—
Qualcuno
strilla.
Agghiacciante,
riecheggia e si diffonde nell’aria mattutina, facendole male
ai timpani, spaventandola a tal punto che la neve allarga la sua morsa,
come un
ragno, su per le scale fino alla sala d’ingresso, passando
dalle porte
socchiuse. Le guardie stanno già accorrendo, e anche lei,
seguendo il suono
morente della voce, attorno alle stalle e nel retro del castello.
Arriva ai
cancelli posteriori, il cuore che martella, una scia di ghiaccio che la
segue.
C’è una servetta che regge un grosso cesto di
bucce di patate, pallidissima,
che guarda a bocca aperta il mucchio di spazzatura di fronte a
sé.
"Che
è successo?" Elsa chiede, tagliente, cercando di stare calma,
calma, calma—
"Vostra
maestà!" La serva la guarda, orripilata, e si piega in un
inchino, ma mentre lo fa riesce a far cadere il cesto.
"Che
è successo?" Elsa ripete. Le guardie
l’hanno quasi
raggiunta, le spade che sbattono contro i fianchi. "Cosa è
accaduto?"
La
ragazza si stringe il petto e indica il cumulo di spazzatura. Sembra
impaurita, ma Elsa non sa se è per la propria presenza, le
bucce rovesciate, o
per qualunque fosse stata la cosa che l’aveva spaventata in
primo
luogo—"Ecco, lì, ho trovato—proprio
lì—una mano!"
"Cosa?"
Elsa chiede, gli occhi stretti per la confusione. Fa tre
passi, spingendosi verso la montagnola. L’odore era
già pregnante e
stucchevole, nell’aria estiva, una puzza disgustosamente
dolciastra che li
copriva come velluto. Vede ogni genere di buccia scartata, ortaggi e
terra, e
poi—
C’è
una mano, tinta di rosso scarlatto.
Aggrotta
le ciglia, sbatte le palpebre, pensa che una volta riaperti gli
occhi, l’allucinazione sarebbe scomparsa, si sarebbe provata
fasulla, ma era
ancora lì—allunga tentativamente una mano, poi si
ferma; con mano tremante
sposta un po’ di spazzatura di lato, abbastanza da
intravedere dei ricci
castani—
No.
"Aiutatemi!"
rantola, lanciando via immediatamente sporco e
spazzatura, e non le importa del decoro, delle proprie mani. "Subito!"
Una
delle guardie afferra le dita che spuntano e l’altra il
braccio, e
assieme tirano. Il corpo viene via dal mucchio di spazzatura con un
risucchio,
ed eccolo steso a terra sulla pietra, bianco come un morto, il sangue
che
gocciola ancora da una ferita aperta lungo lo stomaco, incrostata di
fango e
sudiciume. I suoi occhi sono chiusi.
"Al—Albert?"
Elsa chiede, cadendo sulle ginocchia. C’è dello
sporco sul dorso delle mani pallide, come la roba che lui ha
appiccicata sulla
fronte. Lo chiede perché non riesce a crederci, eppure lo
fa, e—"Chiamatemi
il medico!" grida, e la sua voce è stridula come
mai l’aveva sentita
prima—è un’emozione nuova, questa paura
matta, più della rabbia che in
precedenza aveva provato nei confronti del principe, più
simile all’onda
dirompente di dolore di tua sorella è morta—"Albert,"
esclama,
le dita che appena toccano i suoi ricci. "Albert, devi svegliarti.
Questa
non è una richiesta, è un ordine."
Gli
occhi di lui rimangono chiusi, e il mondo si muove troppo lentamente.
Sussurra,
tra sé e sé "Ti prego."
Echi
di—
"Ti
prego."
—luce
delle stelle.
"Ti
prego."
.
.
(nulla.)