Film > Frozen - Il Regno di Ghiaccio
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Autore: thefireplanet    17/07/2014    0 recensioni
Ci sono dei pesi, quando sei regina, che non hanno niente a che fare con una maledizione. Ci sono dei doveri, quando sei principessa, che non hanno niente a che fare con l'essere una sorella. E la strada per il vero amore non è mai stata in discesa.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna, Elsa, Hans, Kristoff, Nuovo personaggio
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 14

 

 

Note della traduttrice: Vi potrà capitare, nel capitolo seguente, di riconoscere una citazione quasi letterale di una battuta tratta dal film “Lo Hobbit: La desolazione di Smaug”. E’ una specie di “gioco” che l’autrice fa, nei capitoli precedenti, infatti, sono presenti allusioni a Hercules, Mulan e il Re Leone.

 

 

Perdonatemi, inoltre, se non ho ancora risposto alle recensioni, ma non ho avuto proprio tempo. Risponderò quanto prima.


"Devi imparare a controllarti."

"Pensi che non ci stia provando?" ruggisce, ed ecco il dolore familiare che si liquefa lungo le braccia, si raccoglie alle punte delle dita. Il fuoco prorompe dalle mani guantate, consumando tutta la stoffa bianca, che cade al suolo, bruciata e annerita. Il quinto paio, quel giorno, e non era nemmeno mezzogiorno. Strizza gli occhi, inspira-espira-inspira, ma il battito cardiaco accelera rapidamente e il dolore intenso, che fonde, avanza ancora, e il fuoco colpisce il pavimento di pietra, si sposta sul ciglio della cella, e fa diventare le sbarre arancioni, poi rosse.

Di nuovo in cella. Era troppo pericoloso, e quindi l’avevano messo di nuovo in cella, dove tutto quello che poteva bruciare erano paia di guanti e le suole dei propri stivali—

E poi la sua testa è scaraventata all’indietro, e sbatte contro il muro opposto, inciampando poi sui resti abbandonati della propria brandina, e cade in un angolo. Il fuoco si ferma. Alza lo sguardo, strofinandosi la mascella, sentendo un livido bluastro-viola che inizia a formarsi. Il re torreggia su di lui, guardando disgustato i pezzi bruciacchiati dei propri guanti, anneriti sulle nocche dove la sua mano aveva toccato il viso di Hans.

Hans ringhia, "Perché—"

"Se non impari a controllarlo," King Alfons dice, le ginocchia che scricchiolano mentre si piega, poggiandovi sopra le mani, la testa piegata di lato, "se non ci riesci, dovrò trovare qualcuno che ci riesca."

Hans sputa. Furia, che ribolle sotto la superficie della pelle, fa puzzare vagamente la cella di carne bruciata. Il re si alza. Si volta.

"I tuoi fratelli saranno presto di ritorno da Arendelle, col loro trofeo. Sospetto che tu abbia tre giorni, forse quattro. Cinque, se gli dei ti sorridono." Pausa. "Ti suggerisco di utilizzare bene questo lasso di tempo, no?"

Hans si sente come se una bomba gli fosse scoppiata dentro le ossa, tutto è fuoco, dolore e agonia. Esclama, a denti stretti, "Che trofeo? Se non mi dici niente—"

"Il trofeo che ci procurerà quello che tu non sei riuscito a fare, fratellino," il sorriso del re è a malapena un movimento delle labbra. Si volta di nuovo, per andarsene.

"E cioè?" Hans cerca di impedire alla propria voce di avere un tono disperato, ma fallisce.

"La completa e totale cooperazione della regina Elsa."


"Dobbiamo cauterizzare la ferita, e in fretta!"

Elsa stringe i pugni così tanto che le unghie le si conficcano nel palmo facendolo sanguinare, piccole lune rosse crescenti. Riesce a trovare la voce. "Mettetelo sul tavolo." Le guardie la guardano, piuttosto scioccate, ma la sala da pranzo era un posto come un altro—

Agita la mano, convulsamente, e quello che era rimasto dalla mattina—carni fredde e coppe di acqua e calici di vino e l’onnipresente pane—volano contro il muro opposto, trasportati da una brezza gelida che congela gli spigoli del ripiano del tavolo e fa traballare pericolosamente il fuoco nel caminetto. Il cibo si spiaccica come sangue contro il rosemåling. Il medico, un uomo smilzo conosciuto col nome Knut, si aggiusta teso il monocolo e urla, "Sul tavolo, allora!"

Le guardie, una che regge la testa di Albert, e l’altra le gambe, lo sistemano in fretta, poggiandolo sul mogano scuro. Un altro dei suoi uomini tiene già ferma una lama sul fuoco del caminetto. Elsa osserva il metallo diventare incandescente con lo stomaco che si contorce. "Dovete—" si blocca, un malfermo passo in avanti, cercando ancora di capire dove fosse—"Dovete proprio?"

"Se non lo facciamo," Knut fa, facendo scivolare un pugnale sotto la tunica di Albert e strappando via il tessuto marrone-rossastro, "morirà dissanguato." Si ricorda di aggiungere, all’ultimo secondo, "Vostra maestà."

"Veloci, allora," una delle guardie che aveva portato via Albert dal mucchio dei rifiuti esclama, cupo, sfilandosi la cinghia di cuoio della spada e infilandola tra le labbra inerti di Albert, e poi preme le mani sulle spalle del principe per tenerlo fermo. "E tu, le gambe."

Non capisce. Perché dovevano immobilizzarlo? Perché—fa un passo avanti, per aiutarli, il cuore che le martella in petto un ritmo irregolare, e il medico dice, "Mettete il piatto della lama direttamente nella ferita."

Elsa tende la mano, allunga il braccio, per aiutare, per fare qualsiasi cosa

"Vostra maestà?" Knut fa una smorfia. "Vi consiglio di distogliere lo sguardo."

Scuote la testa, premendo le labbra, ed ecco che l’uomo preme il piatto della lama incandescente conto lo stomaco scoperto di Albert—

E Albert urla.

Svegliandosi, all’improvviso, si dibatte, quasi scaraventando via la guardia che gli immobilizza le spalle, la voce che gli graffia la gola come chiodi. Il cuore di Elsa si ferma. Si copre la bocca con le mani, le preme; ci mette un po’per capire perché—perché anche lei sta urlando, e deve soffocare le grida, subito, subito. Il ghiaccio insinua i propri artigli sul pavimento della sala da pranzo. La temperatura nella stanza cala vertiginosamente. Albert urla, in preda ai conati, e il medico dice, cupo, "Rigirate la lama!"

La guardia fa come gli è ordinato.

Elsa riesce a malapena a sopportarlo.

E poi Knut è in piedi di fronte a lei, proprio lì, e per farlo ha dovuto farsi strada in un metro e mezzo di neve. Dice, piano, con cautela, "Regina Elsa, questo problema richiede capacità di guarigione che io non posseggo."

"Ma avete cauterizzato," sussurra, da dietro le dita.

"Per guadagnare tempo. Non sappiamo dire che danno ci sia, all’interno."

"Ma ha smesso di sanguinare."

"Potremmo aver bisogno di riaprire la ferita."

I respiri di Albert sono più lenti, ma è bianco come il nevischio che Elsa ha attorno ai piedi. Guarigione. Guarigione, guaritori, aveva bisogno di—

Si toglie la mano dalla bocca, echi delle urla che ancora riecheggiano nella sala da pranzo, e chiede, "Riuscite a tenerlo vivo fino al mio ritorno?"

Il medico deglutisce. "Vostra maestà, non posso promettere niente."

Guarda l’uomo disteso e considera l’idea, per un momento, di prendergli la mano, ma a cosa sarebbe servito? A niente. Niente, nessuna promessa, la realtà che si disgrega ai margini. Nessuna promessa. "Allora fate del vostro meglio."

"Sì, Vostra maestà."

"Preparate il mio cavallo," ordina.


Anna se ne sta lì in piedi, le braccia incrociate sotto il mantello, gli stivali che affondano nella neve fresca e soffice, e capisce perché Kristoff la adora.

Davanti a lei, che si stende fino all’orizzonte, non c’è nient’altro che aria fredda di montagna e sole che si riflette brillando sui picchi innevati, tanto luminoso da costringerla a strizzare gli occhi. C’è silenzio, ma non il tipo di silenzio inquietante—non col vento che soffia fischiando tra le rocce nude, cantando piano, mentre scuote gli alberi dietro di loro. E’ crudo, vivo. Gli abeti dietro di loro proiettano le ombre simili a denti storti, spezzati. Sa dove si trova; quella rupe, sotto il castello di Elsa, tranne per il fatto che questa volta non c’era un mostro di neve gigante a spaventarli e a farli precipitare.

Ed era una bella caduta. Neve fresca o no.

Si guarda alle spalle, chiedendosi se sia ancora lì, come una cosa morta, sospeso, e in attesa, o se si sia sciolto con la partenza di Elsa, lasciando al suo posto un ghiacciaio che si scioglie. Anna si guarda le mani, mordendosi il labbro, e poi agita tentativamente le dita coperte dai guanti, immaginandosi del ghiaccio spuntare da esse, tipo whoom.

Ha.

Volge di nuovo lo sguardo al paesaggio innevato. E’ abbastanza da far spalancare la bocca per la meraviglia a chiunque, tranne forse i due stupidi principi delle stupide Isole del Sud, che si limitavano a fissare, più o meno, come se stessero assistendo a una qualche mostra d’arte a tema neve, e che tutto quello non fosse più impressionante di Giuditta che regge la testa di quel generale, quindi, cioè, quello che è.

I cavalli nitriscono tra gli alberi dietro di loro. Non riesce a vederli, e nemmeno le guardie, e riesce a immaginare, per un momento, di essere, a parte Kristoff, totalmente sola. Pensa, mentre lo guarda, accanto a lei, mentre lo osserva pulirsi il naso con una manica, una smorfia che gli prende tutta la faccia, pensa, bel lavoro, ragazza, perché se questo non urlava impenetrabile allora niente poteva farlo. Lui la becca a fissarlo e la il cipiglio si fa più marcato e Anna schizza con lo sguardo di nuovo fisso al panorama innevato e prova a fischiettare. Fa troppo freddo per fischiare, scopre, e quindi ricomincia a cercare di far riprendere sensibilità alle dite, sbattendole assieme.

"E’ davvero impressionante," Tomas fa notare, strusciando uno stivale nella neve fitta, osservandola separarsi davanti a sé. "Eri al corrente del fatto che Arendelle fosse così ben protetta, fratello?"

"No davvero," Viktor risponde, un po’ goffo.

Tomas fa un passo, poi due, verso l’orlo del precipizio. E’ un’altezza che fa venire le vertigini; Anna ricorda, perché essere tenuta appesa su un precipizio di sessanta metri (cento? duecento? Più un milione) da un mostro di neve arrabbiato di certo tendeva a, cioè, imprimerti a fuoco le cose nel cervello—e dice, d’impulso, "State attenti," anche se non c’è poi tanta intenzione dietro. Solo due parole.  State attenti. Suonava meglio di vi prego scivolate e cadete, sarebbe carino da parte vostra, in realtà

Ok, era molte cose, ma un’assassina? Proprio no.

"Bella caduta, non è così?" Tomas borbotta, come parlando a sé stesso. "Trenta metri?"

"Sessanta," Kristoff corregge automaticamente, e poi ha tutta l’aria di essere infastidito, persino arrabbiato. Incrocia le braccia, guardando male la parte di cielo alla propria sinistra. Viktor fa un cenno col mento. "Fatti indietro, fratello. Non voglio venire a raccogliere le tue budella."

"Ci sono dieci metri di neve fresca, laggiù," Kristoff borbotta, ma lo sentono tutti.

"Atterraggio morbido dunque, eh?" Tomas ridacchia, lanciando loro un’occhiata. Anna si morde il labbro. Kristoff si limita a restare lì, a fissarli. Tomas continua, "Perché non ci fermiamo a mangiare qui? E’ un posto come un altro, e il paesaggio è semplicemente mozzafiato."

Kristoff scrolla le spalle. Deve comportarsi da principessa, non è così, maledizione—fa un sorriso tirato. "Magnifica idea. Vado a prendere il—"

"Non ce n’è bisogno," Tomas sorride. "Mio fratello e io siamo vostri ospiti. Il minimo che possiamo fare è prendere il cesto, no?"

E prima che possa controbattere di nuovo, si dirigono verso il margine della radura. Anna li guarda farsi sempre più piccoli, e alla fine scompaiono dietro i tronchi. Senza pensarci troppo, afferra la mano di Kristoff, riuscendo ad afferrargli, attraverso i guanti, il mignolo e l’anulare. Dopo un momento, due, lui le prende la mano come si deve, coprendo completamente il guanto blu col suo, e le chiede, "Cos’hai?"

"Ho? Non ho niente, sto bene. Così bene. Più che bene. Ho fame. Hai fame? Oh, pensa se Elsa ci ha fatto preparare il cioccolato—"

"Calmati."

"Ehi, Kristoff. Riguardo—riguardo a prima, quello che volevo dire—"

"Non dire niente," brontola, guardando a disagio di lato, ma non le lascia la mano e Anna lo interpreta come un buon segno. "Possiamo—possiamo parlarne un volta che non dobbiamo più occuparci di questi perdenti."

Sbuffa dal naso, Piegando la testa di lato, in modo da appoggiarla sul suo braccio. La lascia lì, le piace la sensazione. "Perdenti. Bella parola. Che ne dici di miserabili?"

"Ma se sono dei reali."

"Kristopher, ti prego. Non saranno mai reali. Non come, reali da re, comunque—"

"Cosa te lo fa dire?"

"Giocano," esclama, stringendo gli occhi contro il riverbero della neve avanti a lei, "ma non molto bene."

"Stiamo giocando?"

"Metaforicamente. Ma nemmeno io sono molto brava. Elsa è la migliore." Anna sospira, facendo svolazzare la frangetta. "Vorrei tanto essere come te."

"Un…maschio?"

"No, stupido. Un venditore di ghiaccio. E poi potremmo avere il nostro club privato dei venditori di ghiaccio, e faremmo entrare solo persone fighe, il che non includerebbe nessuno che ha il cognome delle Isole del Sud."

"…tu sei matta."

Gli stringe di più la mano.

"Kristoff?"

"Huh?"

"Non voglio tagliarti fuori," sussurra, e può solo sperare che riesca a trasmettere tutto quello che vorrebbe dire, ma che non può, non ancora. Kristoff si irrigidisce; e Anna lo riesce a sentire sotto la testa, la tensione dei muscoli del braccio, il respiro tirato in dentro di botto. Alla fine si abbassa, un po’ goffo, e le bacia brevemente la fronte.

"Ti credo," sussurra lui di rimando.

Aumenta la stretta sulla mano di lui e non vuole lasciarla più andare.


Esalazioni di vapore si innalzano in aria con uno ssss, e la scia di ghiaccio che la segue—fin dal cortile del palazzo—si scioglie poco dopo essersi formata, circondata dalle rocce spruzzate di muschio e dai piccoli geyser. Elsa tira le redini di scatto, il cavallo nitrisce impaziente. Ha l’affanno; l’aveva spinto al massimo, per tutta la strada fin da Arendelle, su un sentiero che aveva fatto solo due volte prima, tutte e due delle quali in preda al terrore, e anche questa volta—

La terza volta è quella buona, pensa. Era stato un miracolo che si fosse ricordata la strada fino a quel punto. Lo attribuisce all’adrenalina, che riesce praticamente a sentire mentre le pulsa nelle vene come fuoco liquido, rendendo i colori più vividi, i pensieri più veloci. Tempeste, ghiaccio e gelo—a che serve questa maledizione se non posso aiutarci le persone?

Smonta da cavallo, sollevandosi gli orli delle gonne con una mano, e usando l’altra per accarezzare il fianco del cavallo, grata. "Grazie," sussurra. "Aspetta qui."

Va via di fretta.

La vallata è invitante, e si chiede, mentre avanza nell’erba lussureggiante, che diventa prima marrone chiaro, poi scuro, e poi morta, si chiede se ci sarebbe mai andata per qualche altra ragione che non fosse stata necessità, solo per dire ciao. Pensa ad Albert, che sta morendo sulla tavola da pranzo, e sa che, in qualche modo, anche questo era colpa sua. Riesce a sentirlo.

Come?

Perché?

Non importa.

Si ferma, esaminando le formazioni rocciose, disposte come le spire di uno strano serpente marino dato alla luce sulla terra. Le cose sembravano diverse sotto il sole; le rocce meno invitanti, un grigio sbiadito, sotto quei raggi. Apre la bocca, ma non emette suono, e deve stringere le mani a pugno contro i fianchi. "Salve?" riesce a dire alla fine. "Papi?"

Non c’è alcun movimento.

"Papi, per favore, è—è il mio—il mio amico, è—mortalmente ferito. Non possiamo guarirlo senza magia."

Pausa. Aspetta. Ancora, nulla, a parte l’eco della propria voce in tutta la valle, come le urla di Albert nella sala da pranzo. Torce le mani, si tira la treccia. Apre la bocca per dire qualcosa—qualsiasi cosa –in più, solo che sente un rumore, pietra su terra, che rotola nella sua direzione. Si guarda attorno, nella radura vuota, e poi gli occhi mettono a fuoco l’unico masso che va verso di lei; alla fine spunta un troll, che sbatte assonnato le palpebre, una fila di cristalli rosa appesi al collo e ciuffi di erba ingiallita che le fanno da capelli, spuntando dalla testa. Elsa comincia, in fretta, "Scusatemi, tanto, ma ho davvero bisogno—"

"Tesoro," il troll esclama, sopprimendo uno sbadiglio, "devi chiudere il becco, altrimenti svegli i bambini."

"Mi scusi?"

"Dormono tutti," il troll sbadiglia, strofinandosi i grandi occhi grigi. "E vedere persone che arrivano qui a tutte le ore—" Il troll si interrompe.  La guarda, sbattendo le palpebre. Scuote la testa di acquistare lucidità, si aggiusta il vestito fatto di muschio. Poi, a bocca aperta, chiede incredula, "Regina Elsa?"

"Sì, sì, mi dispiace, è che—per favore," la voce di Elsa è diventata un sussurro bassissimo, "per favore, devo parlare con Papi. E’ urgente."

"Senza dubbio, visto che sei venuta qui a un’ora del genere—aspetta un secondo, vado a prenderlo. Non ti muovere," il troll la avverte con la sua voce profonda, vellutata, prima di rotolare via, fuori campo visivo. Elsa sente strati di ghiaccio formarsi sulla sommità delle scarpette nere, lottare per attecchire al suolo della valle mite e fertile.

Sente rumore di ciottoli, ed ecco due rocce venire verso di lei. Sbatte le palpebre. Il troll con i cristalli rosa appare di nuovo, assieme a Papi, sul viso un’espressione grave e triste al di sotto della criniera leonina di erba. "Regina Elsa?"

"Mi spiace tantissimo," Elsa bisbiglia, torcendosi le mani, "ma il mio amico, è stato ferito, e non riusciamo a curarlo. Sta morendo. Ti prego, Papi, abbiamo bisogno della magia—"

"Ma maestà," il vecchio troll brontola, avvicinandosi a lei con espressione esausta, "anche tu hai dei poteri magici."

"No," sussurra lei, agitando avanti e indietro le dita, osservando schegge di ghiaccio piantarsi al suolo. "Ho una maledizione. Non posso guarirlo."

Papi apre la bocca, come se stesse per aggiungere qualcosa, e poi la chiude piano, scuotendo leggermente la testa. "Dov’è?"

"Al castello."

"Verrò con te. Bulda, ti lascio in carica, mentre sono via."

"In carica? Col cavolo—il mio bambino sta dalle tue parti, non è così?" il troll chiamato Bulda chiede, eccitata. Elsa si risparmia l’obbligo di dover raccontare tutta la storia grazie a Papi che dice "Bulda, non è questo il momento."

"Beh, se vedi Kristoff, digli di venirmi a fare visita, okay? Digli che mi preoccupo per lui—"

"Bulda," Papi avverte.

L’altro troll alza gli occhi.

Papi posa lo sguardo arguto su di lei, ed Elsa rabbrividisce. Dice, lentamente, "Ti seguo."

Elsa si volta.

Corre.


Anna osserva il panorama davanti a sé e indica vaga un punto alla propria sinistra, un gruppetto di alberi scuri e collinette misteriose appena visibili in lontananza, solo che forse indica con un po’ troppo entusiasmo, perché il braccio di Kristoff si alza di scatto e le impedisce di avanzare. Un mucchietto di neve scivola giù dall’orlo del precipizio. "Sei mai stato laggiù?" chiede, appoggiando le mani sul suo braccio e spingendo giù con forza. Non lo muove di un millimetro.

"Puoi farti indietro di tipo, tre metri, per favore?"

"Sei maiiiiii—"

"Sì, okay, ci sono stato. Una volta."

"E invece la—"

"Tre metri, furia scatenata."

"—ggiù?"

Passi, che scricchiolano sulla neve, e si volta verso gli abeti in tempo per vedere Viktor e Tomas venirne fuori, trasportando un grosso cesto di vimini intrecciato fitto fitto, profilato di stoffa rossa. Kristoff borbotta qualcosa a proposito dei muli e fa un passo avanti, e si trascina dietro Anna. E lei, cioè, ha capito, significa: allontanati dal bordo—un paio di passi e Kristoff si ferma, e inizia a scavare col lato dello stivale, sollevando un mucchietto di neve, che ammassa cercando di dargli la forma approssimativa di una specie di tavolino basso. Anna si accovaccia, picchiando i lati del mucchietto per aiutarlo.

"Non si poteva desiderare un posto migliore per pranzare," uno dei gemelli dice. Anna si soffia via i capelli dalla faccia, e si alza cercando di non mostrarsi troppo infastidita, cosa che probabilmente fallisce miseramente, ma tanto. L’altro gemello dice, "Le guardie ci hanno già messo a bollire dell’acqua da bere," e picchietta una borraccia che tiene appesa al fianco.

"Acqua bollita," Kristoff borbotta, "la mia preferita."

Il volto del gemello si irrigidisce. Anna ci mette un momento a rendersi conto che si tratta di Tomas, il più smilzo. "A dire il vero, la Regina Elsa ci ha fatto preparare delle foglie da tè. Preferiresti qualcos’altro?"

"Acqua bollita," Kristoff scatta.

Tomas scrolla le spalle lentamente, con cautela, osservando suo fratello sistemare il cesto sul tavolo provvisorio. "E’ un po’ che lo volevo chiedere—ma esattamente, qual è la tua relazione con la famiglia reale? Sua maestà ci ha informato che saresti stato la nostra guida, il che implica una qualche forma di fiducia, ma le tue maniere da selvaggio e rozzo —"

"E’ il Reale Venditore e Fattorino di ghiaccio," Anna li interrompe, stizzita, il gomito già piantato nel fianco di Kristoff, per dirgli calmo calmo calmo—"Che, ad Arendelle, sarebbe, cioè, l’equivalente di un duca. O un marchese."

"Hm," è tutto quello che Tomas risponde. È uno hm che non le piace, che insinua qualcos’altro e a questo punto tanto vale sguainare le spade, perché tutto quel girare in tondo attorno alle cose era ridicolo, totalmenteorribilmenteridicolo—e non odiava girare in tondo, lo amava, davvero—solo che adesso lo odiava, davvero lo odiava, perché l’ultima volta che aveva girato in tondo era tra le braccia di quel cretino del loro fratello—troppi fratelli.

Disgustoso.

Anna si stringe le mani, poi si morde il labbro per evitare di dire qualcosa di stupido, ed esclama, "Beh, mangiamo, in modo da poter, sapete, no, continuare col tour di queste montagne molto alte, molto grandi."

Il che, forse, era un poco esagerato, ma ormai. Oops, e tutto il resto.

Apre il cesto e tira fuori uno dei tramezzini incartati per bene. Kristoff borbotta vagamente di non aver fame, e si volta, e si allontana di un paio di passi, le braccia incrociate e la bocca contorta da una smorfia decisa, cosa che lei ritiene positiva, tutto sommato, perché, cioè, non aveva davvero voglia che iniziassero a prendersi a pugni, e comunque, lei li avrebbe messi tutti a tappeto, quindi sul serio, non sarebbe servito a niente. Tomas si sfila la borraccia a tracolla, e poi alcune tazze pesanti dal cesto. "Tè, principessa?" chiede, sollevando una tazza in sua direzione.

Annuisce. Tomas versa il liquido profumato di caprifoglio, ancora fumante, dalla borraccia, e le passa la tazza. Se non avesse avuto tutto quel caldo, pensa, mentre lo beve, sarebbe stato perfetto. Ne versa nella sua, in quella del fratello, e chiede, "Ed è sicura che il—Venditore di Ghiaccio Reale non desideri unirsi a noi?"

Si volta e guarda Kristoff, seduto di spalle. "Abbastanza sicura, sì."

Tomas scrolla le spalle. "Alle buone relazioni," dice, sollevando la tazza.

"Cin cin," Anna risponde.

Bevono.


Elsa entra come una furia in sala da pranzo, e dal rumore sembra un uragano. Le finestre si aprono, le porte sbattono contro il muro, e il fuoco nel caminetto traballa una volta e poi si spegne. La luce del sole all’improvviso diventa troppo poca. La tensione è forte, palpabile, e fa un respiro profondo e brusco, pensando mantieni il controllo, mantieni—il vento si smorza del tutto, il ghiaccio si ritira. Esamina la scena—Albert, estremamente pallido, prono e senza vita sul tavolo; un grosso secchio d’acqua calda che è diventata nera di sangue e terra; e Knut che tenta di misurare il battito cardiaco, all’altezza del gomito.

"Il paziente?" Papi domanda, srotolandosi al suo fianco. Sobbalza, e guarda giù, perché aveva quasi dimenticato—dimenticato cosa? Scuote la testa. Il vecchio troll sembra fuori posto sotto il soffitto perfetto e vivace del castello, la natura che gli aderisce addosso come una—beh, pensa, prima—pelle. Le guardie sussultano. Una di loro scivola, e il suo piede sbatte nel secchio d’acqua, facendola traboccare sul pavimento lucido. Il medico inizia a tossire con violenza, guardando prima la creatura di roccia grigia e poi la regina, con un occhio comicamente enorme dietro la lente del monocolo.

"Sul tavolo," Elsa dice, e si costringe a tenere la schiena dritta, il tono calmo. Mantieni il controllo.

"Vostra maestà, io—io—" Knut inizia, e lei scuote leggermente, pianissimo, il capo in sua direzione, seguendo i passi calmi e tranquilli di Papi e lottando contro l’impulso di gridare vai troppo lento—il troll si ferma davanti a una delle sedie.

"Sono un vecchio troll," comincia, salutando a questo modo le guardie, e tutte e due hanno gli occhi più grossi del sole, "e non sarò tanto presuntuoso da non chiedere aiuto. Vi spiace?" inclina la testa verso il tavolo. Elsa non ha tempo per la loro incredulità, e agita la mano quasi spazientita. Una forte brezza glaciale crea un vortice sotto il troll e lo deposita, anche se non proprio con delicatezza, almeno sul tavolo, in modo che riesca a raggiungere Albert. Papi la osserva pensieroso, ma non dice niente. Dopo un momento, due, in cui si perde nei suoi pozzi di saggezza, si volta di nuovo verso il principe che giace sul tavolo ed esamina la ferita irregolare che ha lungo lo stomaco. Elsa si avvicina, solenne, e appoggia le mani sullo schienale alto di una delle sedie, afferrandolo stretto; il gelo si espande su di esso, lentamente, formando un reticolo cristallino.

Le si secca la bocca.

La ferita è un macello di pelle gonfia e arrossata, bruciata e nera ai bordi e rossa e piena di pus al centro. Emana cattivo odore, di carne in putrefazione, ed Elsa ha paura di guardargli il petto. Ha paura di controllare se stia respirando. Trova il suo volto, invece, e ha del sangue che gli cola dalla bocca, come se si fosse morso la lingua. Il medico, dietro di lei, tossisce di nuovo, ritrovando la voce. "Il b-battito cardiaco è debole, e si sta indebolendo ancora," dice.

"Già," Papi risponde, esaminandolo con calma con il mento appoggiato a un pugno. Fa un piccolo passo in avanti, gli occhi che si chiudono, l’altra mano con le dita grigie e tozze tese, sospese in aria all’altezza della ferita. Una delle guardie bisbiglia, "Ma che sta facendo?"

Sente un oof quando qualcuno dà di gomito a quest’ultima.

"C’è un’infezione, qui," Papi afferma dopo un attimo. Si acciglia, le sopracciglia cespugliose che si abbassano. "E un’emorragia interna. Qualunque sia la lama che gliel’ha fatto, era uncinata."

Le unghie di Elsa graffiano il legno.

Il cipiglio di Papi si fa più marcato, e poi, tanto repentinamente quanto era venuto, scompare. Piega la testa di lato, ed Elsa osserva l’ondeggiare della sua criniera erbosa. Nel suo tono profondo, roco, continua: “Siamo fortunati. C’è della terra dentro di lui—normalmente avrebbe aggravato l’infezione, ma," e qui apre gli occhi, volgendo la testa verso di lei con un sorrisetto, "siamo fortunati."

"La tua magia," Elsa esala, ricordandosi di quella conversazione, tanto tempo fa. "Viene dalla—"

"Dalla terra, sì. Mi serve altra terra dalla fonte," Papi si interrompe, ritirando la mano. "Dove l’avete trovato?"

"La terra del mucchio dei rifiuti—portatene un po’ qui," Elsa ordina, alla guardia più vicina. Annuisce, andando via dalla sala di corsa. Elsa stacca le dita dal ghiaccio formatosi sullo schienale della sedia e si rivolge a Knut. "La ringrazio, grazie di tutto," dice. Stanca, così stanca. "Perché non va a riposare, ora?"

"Se per voi va bene, Vostra maestà," deglutisce, fissando ancora il troll con qualcosa che assomiglia alla meraviglia, "Preferisco restare."

Annuisce. Papi si volta dalla sua parte, guardandola fissa, e alla fine tende una mano. "Regina Elsa, mi permetti di prendere in prestito il tuo potere? Sono, dopo tutto, un vecchio troll."

Si guarda la mano nuda, che trema. La porge. "Prendi tutto quello di cui hai bisogno."

La sua pelle è pietra sotto quella di lei.


"Sei sicuro che non ne vuoi?"

"Sono sicuro."

Anna regge la tazza tra tutti e due i guanti e ci soffia su di nascosto; lui osserva il vapore sollevarsi in piccoli ciuffi e scomparire, all’improvviso, spiacevolmente consapevole di quanto fosse vicina all’orlo della rupe. Conoscendo Anna, sarebbe scivolata. "Molto meglio dei tramezzini," borbotta, schioccando le labbra e bevendo un’altra lunga sorsata. "Il pane si è congelato quasi tutto. Ma bere due tazze di tè è fondamentalmente pranzare, quindi, capirai."

In risposta, gli brontola lo stomaco, sonoramente. Anna lo guarda in tralice con un ghigno malvagio.

"Non ho fame," esclama testardo, in gran parte perché si diverte più a contare picchi e fiocchi di neve di quanto farebbe a parlare del più e del meno con quei due pomposi coglioni dietro di lui. Ha. Si strofina di nuovo il naso e pianta una mano in piena faccia ad Anna, spingendola di lato con la forza sufficiente a farla indietreggiare di un passo. Lei ride, scacciando via il braccio, e le cose tra loro filano così lisce che riesce quasi per un momento a dimenticare lo sguardo di orrore che gli aveva rivolto dopo che l’aveva detto, quella mattina.

L’aveva detto, per l’amor del cielo, perché

Lo sapeva. Sapeva che sarebbe successo, se l’avesse fatto. Osserva il bosco, piccolo e scuro, da quella distanza, e quasi desidera essere lì.

Quasi.

"—vuoi solo dimostrare che sei più uomo di loro, non è vero?" Anna sta dicendo sottovoce, quando ritorna alla realtà. "Tipo, guardatemi, sono un montanaro, so passare attraverso i muri e trattenere il respiro per dieci ore consecutive—"

"Questo non c’entra niente con l’essere un montanaro," fa in tono piatto.

"—non rovinare la storia, Kristopher—e so pescare a mani nude e cavalcare orsi senza sella e —woah," Anna sbatte le palpebre, all’improvviso, portando una mano alla testa. Aggrotta le sopracciglia. Sbatte le palpebre, due volte, tre. Kristoff le riconosce in volto la stessa espressione dei ragazzi, a casa, prima che vomitassero il muschio. Fa un passo avanti, la mano tesa per afferrarla – o – qualcosa, non lo sa di preciso, ma forse – le dà delle pacche leggere sulla spalla. Poi fa una smorfia. “Stai bene”?

"Bene, sto bene." Anna scuote rapidamente la testa, poi, velocemente, si piega e incastra la tazza nella neve. Porta entrambe le mani alle tempie. "Mi sono solo venute forti vertigini all’improvviso."

C’è qualcosa che non va. Afferma, "Beh, ormai avranno finito di pranzare. Torniamo alla slitta."

"Già. Già, buona idea," annuisce lei. Spalanca gli occhi e lo guarda e Kristoff non può fare a meno di fare un mezzo sorriso. Aveva il naso piccolo e troppe lentiggini e occhi che vagavano continuamente, forse senza prestare sempre attenzione, ma incrocia il suo sguardo e pensa sei bellissima. E vuole baciarla. Si accontenta di tenderle una mano. Lei alza gli occhi, lanciando indietro una treccia, impertinente, gli stivali che scivolano sulla neve. "Sto bene, Kristopher. Pher-favore."

"Tre metri, furia scatenata," le ricorda.

"Ti seguo a ruota."

Si volta. Ecco i principi, ancora riuniti attorno al piccolo tavolino di neve. Hanno la stessa corporatura che aveva Hans, solo coi tratti più maturi, forse, ma ancora tanto affidabili quanto—quanto—quanto qualcosa di molto inaffidabile. Kristoff li guarda e si chiede perché il destino abbia concesso a loro di essere principi, e a lui di guardare i propri genitori morire congelati poco lontano dalla porta di casa.

Sente la mancanza della sua “Ma’”, all’improvviso, poi scuote la testa con una risata. Non aveva sentito la mancanza di sua mamma da tanto tempo, non così tanto, comunque—si volta per dire ad Anna che avrebbero potuto far prendere ai principi il miglior colpo della loro vita, ritornando ad Arendelle per la strada che attraversava la Valle delle Rocce Viventi, ma lei è ancora lì in piedi, che si stringe la testa. Kristoff fa un passo avanti pronto a caricarsela in spalla come un sacco di patate, se non fosse per il fatto che lei fa un accidentale passo, cosa molto alla Anna, all’indietro, mente tenta di capire perché la testa le pulsi tanto, e si sente un sonoro crack, e conosce quella roba, ci è cresciuto sopra, l’aveva vista portargli via tutto, quindi si muove anche prima di rendersi conto di quello che stia accadendo.

Lento, tutto, tutto rallenta—

Anna ha gli occhi spalancati dallo shock e questa volta non ci sono né corda né niente, solo lei, che cade, cade, e lui urla, "ANNA!" Salta, col braccio teso, ci arriva, ci arriva quasi—

Qualcosa di pesante gli blocca le gambe, e la metà superiore del suo corpo penzola nel vuoto. Ha una vista terrificante, del burrone e del corpo di lei che precipita a tutta velocità nella bassa foschia, prima che la testa gli venga spinta di lato, e quasi colpisce le rocce. Lotta, aggressivo, si sente un lupo—calcia e centra, ed eccolo arrancare, alzarsi e voltarsi, la mano già stretta a pugno. Colpisce, dritto in faccia al secondo gemello, quello che non aveva ancora steso. Rimangono così, accovacciati sulla neve, gocce di sangue scarlatto che gocciolano da naso e bocca, e ruggisce, "AVREI POTUTO PRENDERLA!"

"E rischiare di ferire anche te stesso?" il più magro dei gemelli abbaia, con la bocca che sanguina. "Pensa, uomo del ghiaccio!" scatta. "A che saresti servito, da morto?"

Non posso saltare ora, e se le cado addosso, se le cado—

"SVEN!" Kristoff ruggisce. E’ un incubo. Il cuore gli martella ed è un incubo, e tutto quello che riesce a pensare è tre metri, tre metri, e si poteva prevenire così facilmente, un braccio attorno alle spalle, e l’avrebbe presa

Sven si precipita attraverso gli alberi, la slitta che sbanda dietro di lui come una nave in tempesta, ma Kristoff sa che il suo amico ha riconosciuto il panico che gli attanaglia la voce—tira fuori un coltello dalla tasca e taglia la bardatura, chi se ne frega della slitta, e, con un solo movimento fluido e disinvolto—anni di pratica, anni di isolamento—gli monta in groppa.

Dieci metri di neve fresca è l’unico pensiero che lo mantiene lucido, mentre urla, "Cerca di arrivare giù!"

Dieci metri di neve fresca.


"Ho fatto quello che potevo," Papi afferma, alla fine. Il sole era alto nel cielo, non più visibile dalle finestre, e Knut aveva ormai da tempo riavviato il fuoco. Quest’ultimo, seduto vicino a esso, sobbalza. Elsa riesce a sentirlo, ma ha gli occhi chiusi. Sente le dita tozze e spesse di Papi lasciare le proprie, e poggiarle con gentilezza la mano sulla tavola. Le sembra di avere gli arti ridotti a poltiglia, tremanti e scorticati, come un cerbiatto appena nato. Papi sta dicendo qualcosa. Si concentra sulla cadenza lenta della sua voce. "—e tu stessa avrai bisogno di riposo, Regina Elsa. Non è una cosa da poco, prestare a un altro la propria magia. Scorre e rifluisce dentro di te; portala via, e ci metterà del tempo a rinascere di nuovo."

Sbatte le ciglia e apre gli occhi, quasi timorosa di quello che avrebbe trovato—ma no, le sue mani, le sue braccia e le sue gambe sono ancora le stesse. Sbatte di nuovo le ciglia, e ha paura di guardare l’uomo steso accanto a lei. Papi ha le mani allacciate davanti a sé. "Ho paura che rimarrà una cicatrice."

I suoi occhi scattano di lato.

Albert è pallido quanto lei, le mani posate accanto ai fianchi, non più strette a pugno. E le labbra non sono più contorte da una smorfia. L’orribile spettacolo rosso-nerastro e pieno di pus che era stato prima il suo stomaco, adesso era diventata una linea del colore rosa-rossastro che ha la pelle nuova, strane vene appena visibili che partivano da essa come rampicanti. "Ha dentro più terra, adesso," Papi ridacchia tra sé e sé, ma Elsa riesce a vedere, dal modo in cui le sue spalle e la criniera d’erba erano ricurve, che è stanco quanto lei.

Chiede, un sussurro fioco, guardando l’azzurro sbiadito del cielo oltre le finestre, "Quanto tempo—"

"Tre ore," Papi sospira. "In gioventù, avrei potuto farlo in due. Sto iniziando, pare, a perdere colpi."

"No," Elsa scuote la testa, guardando la pelle nuova. "No, la tua magia è sorprendente."

"Anche la tua, Regina Elsa," il troll risponde, guardandola con aria scaltra. "Eppure il tuo cuore è ancora indeciso—hai scoperto il segreto delle origini della tua magia?"

Elsa sbatte le palpebre. Avrebbe sussultato, se ne avesse avuto la forza, ma non ce l’ha—ne ha a malapena da scuotere la testa. Aveva del tutto dimenticato il suo consiglio. Sembrava una vita fa. Lo era stato. Lo era. "La mia maledizione è mia soltanto."

"La tua magia," Papi la corregge, con gentilezza, "è un dono, Regina Elsa. Come tutta la magia."

Rimane in silenzio.

Papi si guarda i piedi. "Ritorno dalla mia famiglia, ora, per recuperare le forze dormendo." Si ferma accanto a una delle sedie, gli occhi puntati al pavimento. "Regina Elsa?"

"Sì?" chiede, piano. Poi si ricorda le buone maniere, "Oh, perdonami, Papi. Posso offrirti una camera? Del cibo?" Osserva il petto di Albert sollevarsi lentamente con la coda dell’occhio; lo guarda abbassarsi. Quasi sorride. "Non potrò mai ringraziarti abbastanza."

"Una sciocchezza," Papi risponde, poi aggrotta le sopracciglia e continua, "Mi piace aiutare, in tutti i modi possibili, ma Regina Elsa—non possiamo essere chiamati semplicemente per convenienza."

"Sì," Elsa dice, a voce bassa, stanca, e la sua mente va a rallentatore, prosciugata di ogni forza, "sì, lo so. Ti ho usato, e mi dispiace."

"Non scusarti; hai sfruttato le risorse che avevi a disposizione. Hai pensato in fretta, sotto pressione." Passo, passo, passo, ed eccolo lì, in piedi davanti a lei, bloccandole la vista di quel petto. "Ma Regina Elsa, arriverà un giorno in cui dovrai imparare a camminare con le tue gambe. E so, da vecchio troll che sono," Papi fa, l’ombra di un sorriso sulle labbra, "che hai gambe potenti”.

Gli occhi di Elsa vengono attratti da quelli del troll, in cui rimangono fissi. Minacciano di inghiottirla intera. Annuisce. "Capisco."

Papi la guarda dritto per un altro momento, e poi annuisce. "Riposo, per tutti e due, ma lui—confinatelo a letto per una settimana, e non fatelo uscire fuori almeno per due—tranne che, ovviamente, per farlo andare a giocare nel mucchio della spazzatura. Gli potrà fare solo bene."

Elsa scuote la testa, quasi con un sorriso. "Hai bisogno di essere accompagnato a casa?"

"Ero qui prima che le prime persone scendessero dal nord; prima di Arendelle, quando la terra era ombra, alberi e oscurità; credo, Vostra maestà," e gli occhi scintillano maliziosamente, "di essere capace di ritrovare la strada."

Salta agilmente giù dal tavolo prima che lei se ne renda anche conto, una scia di pietra che attraversa il pavimento rotolando, e lo guarda andare di volata dritto alla porta, e dice, all’ultimo momento, "Papi?"

Il vecchio troll si riapre a metà. "Sì?"

"Grazie."

Inclina la testa, e, col suono di una cascata di ciottoli, oltrepassa le porte socchiuse della sala da pranzo. Sente gli strilli dei servi che, curiosi, si erano riuniti lì avanti, quando passa in mezzo a loro, e poi lo scalpiccio di questi quando si riposizionano davanti alle porte. Knut si avvicina a lei, espirando, imbambolato, "Non ho mai visto una guarigione simile."

"Magia," sbadiglia, sentendo gli occhi chiudersi. Quanta della propria, si chiede, ne aveva preso Papi?

"Dovremmo portarvi tutti e due nelle camere da letto…"

Non riesce a sentire altro—a quel punto, è andata.


"Ma che stai facendo? Ti stai sporcando tutto il cappotto di sangue."

"Realismo, fratello. Vale metà del gioco."

"Beh, faresti meglio a muoverti. L’abbiamo seminato scendendo dal fianco della montagna, ma non per molto, e sospetto che ci stia alle calcagna."

"Sì, sì—ma ecco uno dei fatti della vita, fratello."

"Cioè?"

"Non puoi affrettare un’opera d’arte."

"Alzati."

"Okay, okay—dovrà bastare. Non c’è bisogno che mi trascini, Viktor."

"Monta a cavallo."

"Proprio. Beh, non puoi farti vedere da lui con quella faccia—piega di più gli angoli della bocca all’ingiù—di più—come se qualcuno di importante fosse appena morto. Ecco."

"Sta zitto."

"Sei sempre stato senza speranze, in questa cosa della recitazione, non è vero? Beh, io—aspetta. Lo sento. Tieni la bocca chiusa, e lascia fare a me—Ohèè! Quaggiù!

"L’abbiamo trovata, quaggiù!"


Elsa apre gli occhi.

Ha il collo storto, la testa appoggiata al tavolo, e sotto di essa un cuscino del colore dei narcisi in primavera. Gli occhi incontrano il fuoco tremolante; è ancora in sala da pranzo. Si tira su a sedere, aggrotta le ciglia, e si pulisce un sottile rivolo di—di saliva? Volta la testa così in fretta che vede le stelle, ma no, c’è solo Albert, sistemato accanto a lei con due cuscini e una coperta. La porta è socchiusa, le guardie sono fuori, ma a parte loro, sono da soli.

La propria coperta le scivola giù dal petto, e si stropiccia gli occhi, e si sente in imbarazzo, e strana. Stringe le mani a pugno in grembo, giocando con i fili scuciti della stoffa blu scuro. La sua attenzione, concentrata sul fuoco, viene catturata da un movimento accanto a lei, e volta lentamente la testa, con cautela, con le ossa che ancora le danno la sensazione di essere fatte di vetro bianco, fragili quando fredde, e liquide col calore.

Albert ha gli occhi mezzo aperti, il viso pallido, unto di sudore. Muove la mano, pochissimo, sotto la coperta verde, e deve essere così scomodo, pensa, stare lì sul tavolo; perché non l’avevano spostato? Improvvisamente, e decisamente non secondo propria iniziativa, scopre una delle proprie mani, da che era stretta a pugno in grembo, tendersi e incontrare le punte delle dita di lui, che la cercavano. Sono così calde. Bruciano, piacevolmente. Non si muove, non gli stringe le mani, non gli afferra il braccio—lascia solo che le loro dita stiano lì, le une accanto alle altre. Lo guarda negli occhi, e i suoi occhi le ricordano solo Albert. Vuole chiedere, cosa è successo, ma è stanca. Non ci riesce. Non in quel momento.

Albert inspira improvvisamente, guardandola con la confusione chiaramente dipinta sul volto. "Tu non puoi essere lei," dice, espirando, la voce debole, tremula. "No. Lei è molto, molto lontana da me. Lei danza tra la luce delle stelle. Credi," le chiede, gli occhi fuori fuoco, "che avrebbe potuto amarmi?"

La bocca di Elsa si spalanca, lentamente, ma non c’è niente che possa rispondergli—niente che possa dire—

C’era solo una persona a quel mondo che la amava. Non riusciva immaginare altri—avvicinarsi, non considerata la—non con la sua—

E’ salvata dai suoi occhi che si spalancano, la confusione, per il momento, sparita. Lo sguardo di Albert incrocia il suo con lucidità allarmante, tempestivo, e cerca di tirarsi su a sedere. "Stanno architettando qualcosa, non so—cosa, o quando—" smette di parlare e fa un brusco respiro, afferrandosi lo stomaco, ed Elsa lo fa stendere di nuovo, con cautela.

"Andrà tutto bene, Albert—"

"No," insiste, gli occhi fissi ed enormi e incredibili, azzurro-verdi-nocciola-qualcosa, che la fissano dalla pelle scura per i lividi. La sua voce, quando parla di nuovo, è più debole, ma non meno urgente—"Sono venuti qui per te."

Elsa sente le labbra tendersi, la schiena irrigidirsi. Apre la bocca per rispondere, ma si ferma, perché si sente una specie di commozione provenire dalla sala d’ingresso. Sente le porte; e poi delle grida; e poi un urlo agghiacciante, ed è in quel momento che si alza in piedi, così veloce che il mondo vacilla pericolosamente, l’oscurità che la minaccia, ai margini del campo visivo. Cuscino e coperta scivolano sul pavimento.

E tutto quello che riesce a pensare è ora cosa è successo, infastidita, e stanca, e furiosa. Ora cosa è successo.

La porta socchiusa viene spalancata di botto, e si volta verso di essa, usando la sedia come sostegno, pronta ad esclamare, severa, lasciate che sia Kai a occuparsene, se non fosse per il fatto che è Kai, pallido come un fantasma, la bocca che si apre, si chiude, si apre, si chiude—

Quindi naturalmente il battito cardiaco accelera—

Le sue dita lasciano il calore di Albert.

"Vostra maestà—fate in fretta, si tratta—si tratta della Principessa Anna."


Fa tre passi nell’ingresso e non riesce più a proseguire. Le sue gambe stanno bene. Il suo corpo lavora come dovrebbe—il sangue gli pulsa nelle vene, vorticando come una specie di mulinello attorno al cuore. Ma tutto gli urla contro. Tre passi nell’ingresso, e tutto urla di lei.

Quindi cade in ginocchio e guarda la persona che tiene stretta tra le braccia. C’è del sangue che scorre dall’attaccatura dei capelli al mento. Ferita alla testa, di nuovo, pensa, piuttosto istericamente. Ferita alla testa. C’erano incidenti e incidenti. Due secondi, scivolata, e andata. Tutto, andato. Tutto gli urla contro. Aggiusta il proprio berretto sulla testa di Anna, le era scivolato giù su un occhio. Rimani al caldo, pensa, ridacchiando quasi, si congela sempre da queste parti.

Ecco perché sono migliori le renne. Questo, proprio per questo.

Persone urlano. Vuole dir loro di star zitte, ma si accontenta di risistemarle il cappello, infilandole delle ciocche di capelli dietro le orecchie, contandole le lentiggini sul naso.

No. No, Anna è meglio delle renne. Ti prego svegliati, ti prego. Ti prego, Non posso più vivere da solo. Non voglio più vivere da solo.

Sente, lontano, il suono di una porta che si apre. Passi leggeri. A malapena se ne rende conto, perché è troppo occupato a rivivere la scena in mente—ti seguo a ruota, scivola, cade, salta—raggiungila—raggiungila—no—corri, Sven—

E i principi l’avevano trovata, cullata dalla neve fresca, come se stesse dormendo. Dormendo. L’avevano chiamato, e lui aveva voluto provare a rianimarla, nel modo in cui sapeva che, a volte, si poteva far ripartire un cuore, perché non respirava, ma era anche egoista, incredibilmente egoista, e non voleva che l’ultima volta in cui avesse toccato le sue labbra, esse fossero state—quello—pelle fredda, morta, non più Anna ma un corpo. Un corpo che assomigliava ad Anna.

Ti amo.

Passi leggeri. Non si accorge della temperatura che cala in picchiata nella stanza, ma lo fa, e di parecchio. Sulla soglia del castello riesce a sentire il calore, dietro di sé, dell’aria estiva, e il gelo dell’aria avanti a sé, ma registra la differenza solo a malapena. Sta ancora contando le lentiggini su un volto pallido.

"Cosa è successo?"

Alza lo sguardo. Ci mette un po’, ma ecco la regina Elsa. Ha l’aria smunta, sotto gli occhi le ombre sbiadite della mancanza di sonno. Ha la schiena rigida come una tavola, pronta a spezzarsi in due. La guarda. Sa che deve dirlo, ma sa anche che nel momento in cui l’avesse detto, sarebbe diventato reale, quindi non vuole.

Ma deve.

"Anna." E’ tutto quello che riesce a dire. Gli si spezza la voce, solo un po’, a dire il suo nome.

Elsa lo guarda sbattendo le palpebre. Conta. Uno, due, tre. Poi alza il mento definito, affilato come una lama di ghiaccio, e guarda dietro di lui.

Accade così in fretta da meravigliarlo, da farlo tremare—

Tutta l’umidità nell’aria svanisce, lasciando al suo posto la sensazione della pelle scorticata, delle sue labbra; attorno a lui, essa si solidifica in un centinaio—no un migliaio di piccoli cristalli seghettati, le punte abbastanza affilate da trafiggere, e sono tutte puntate nella stessa direzione. Pensa, per un mezzo secondo, che siano dirette verso di lui, che questo attacco violento sia diretto a lui, e si lecca le labbra e si piega sul corpo tra le proprie braccia, come per proteggerlo, ma poi si accorge che sono puntate al di sopra della sua spalla. Dirette ai principi delle Isole del Sud.

"Datemi un solo motivo," Elsa dice. Non l’ha mai sentita parlare a quel modo. Gelida, rara furia. "Datemi un solo motivo—"

"Anna," Kristoff gracchia, sentendo il suo corpo premuto contro il proprio. Immagina di sentire un lieve respiro, lieve—ma quando le preme l’orecchio sul petto e conta uno, due, tre, quattro, cinque—sei, sette—otto—

Niente.

Immagina.

Le frecce di ghiaccio vacillano, poi si sciolgono a mezz’aria, una pioggia d’acqua gelata che li bagna. "E’ scivolata," riesce a dire, asciugando una goccia sul viso di Anna, una che sembra una lacrima. "Colpa mia. Non sono stato attento. Mia. Colpa mia."

"Fuori," Elsa ordina. "Fuori tutti, immediatamente!"

Non sa se obbediscono. Presume di sì, perché le porte dietro di lui si richiudono. Elsa fa un passo, due, e poi eccola inginocchiarsi di fronte a lui, le braccia tese. Non vuole mollare la presa su Anna, ma non è più Anna. Non lo è. Non è così?

Elsa sta piangendo, ma in silenzio. Si sente appena. Tranne per le parole—"Non colpa tua. Mia."

Guarda sua sorella prenderla tra le braccia e cullarla e stringere il corpo senza vita, premendo la propria fronte contro la sua, facendo scivolare un po’ via il cappello. E non lo sopporta. Non ci riesce. Si alza di scatto, automaticamente, e scappa attraversando le porte che danno sul cortile. Il sole è troppo luminoso, troppo accecante, anche se ormai basso nel cielo. La gente è silenziosa, e incerta, e ha lo sguardo fisso. Troppe persone. Ringhia, "Ma non ce l’avete un lavoro?" E cammina. E continua a camminare. Verso le stalle. Sente Sven trotterellare piano accanto a lui. Apre la porta. Entra.

Grida.

La testa tra le mani.

Silenzio.


Si sente lo scalpiccio di Olaf che scende le scale. "C’è qualche problema?" chiede ad alta voce. "Ho sentito un sacco di gente—oh, ehi, Anna è tornata!" E scivola davanti alle armature. "Ehi, Anna, com’era—Anna?"

Elsa stringe a sé la sorella, una mano corre frenetica sul suo petto, e non riesce a fermare il singhiozzo continuo che esce dal proprio. Fronte contro fronte. Svegliati, Anna. E sussurra, come una preghiera, mentre Olaf si ferma accanto a lei con un’espressione sconcertata, sussurra—

"…vogliamo fare un pupazzo di neve?"

È tutto quello che riesce a dire. E non è abbastanza.

  
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