Capitolo
14
Note
della traduttrice:
Vi potrà capitare, nel
capitolo seguente, di riconoscere una citazione quasi letterale di una
battuta
tratta dal film “Lo Hobbit: La desolazione di
Smaug”. E’ una specie di
“gioco”
che l’autrice fa, nei capitoli precedenti, infatti, sono
presenti allusioni a
Hercules, Mulan e il Re Leone.
Perdonatemi,
inoltre, se
non ho ancora risposto alle recensioni, ma non ho avuto proprio tempo.
Risponderò quanto prima.
"Devi
imparare a controllarti."
"Pensi
che non ci stia provando?" ruggisce,
ed ecco il dolore familiare che si liquefa lungo le braccia, si
raccoglie alle
punte delle dita. Il fuoco prorompe dalle mani guantate, consumando
tutta la
stoffa bianca, che cade al suolo, bruciata e annerita. Il quinto paio,
quel giorno,
e non era nemmeno mezzogiorno. Strizza gli occhi,
inspira-espira-inspira, ma il
battito cardiaco accelera rapidamente e il dolore intenso, che fonde,
avanza
ancora, e il fuoco colpisce il pavimento di pietra, si sposta sul
ciglio della
cella, e fa diventare le sbarre arancioni, poi rosse.
Di
nuovo in cella. Era troppo pericoloso, e quindi
l’avevano messo di nuovo in cella, dove tutto quello che
poteva bruciare erano
paia di guanti e le suole dei propri stivali—
E
poi la sua testa è scaraventata all’indietro, e
sbatte contro il muro opposto, inciampando poi sui resti abbandonati
della
propria brandina, e cade in un angolo. Il fuoco si ferma. Alza lo
sguardo, strofinandosi
la mascella, sentendo un livido bluastro-viola che inizia a formarsi.
Il re
torreggia su di lui, guardando disgustato i pezzi bruciacchiati dei propri
guanti, anneriti sulle nocche dove la sua mano aveva toccato il viso di
Hans.
Hans
ringhia, "Perché—"
"Se
non impari a controllarlo," King Alfons dice,
le ginocchia che scricchiolano mentre si piega, poggiandovi sopra le
mani, la
testa piegata di lato, "se non ci riesci, dovrò trovare
qualcuno che ci
riesca."
Hans
sputa. Furia, che ribolle sotto la superficie
della pelle, fa puzzare vagamente la cella di carne bruciata. Il re si
alza. Si
volta.
"I
tuoi fratelli saranno presto di ritorno da
Arendelle, col loro trofeo. Sospetto che tu abbia tre giorni, forse
quattro. Cinque,
se gli dei ti sorridono." Pausa. "Ti suggerisco di utilizzare bene
questo lasso di tempo, no?"
Hans
si sente come se una bomba gli fosse scoppiata
dentro le ossa, tutto è fuoco, dolore e agonia. Esclama, a
denti stretti,
"Che trofeo? Se non mi dici niente—"
"Il
trofeo che ci procurerà quello che tu non sei
riuscito a fare, fratellino," il sorriso del re è a malapena
un movimento
delle labbra. Si volta di nuovo, per andarsene.
"E
cioè?" Hans cerca di impedire alla
propria voce di avere un tono disperato, ma fallisce.
"La
completa e totale cooperazione della
regina Elsa."
"Dobbiamo
cauterizzare la ferita, e in fretta!"
Elsa
stringe i pugni così tanto che le unghie le si
conficcano nel palmo facendolo sanguinare, piccole lune rosse
crescenti. Riesce
a trovare la voce. "Mettetelo sul tavolo." Le guardie la guardano,
piuttosto
scioccate, ma la sala da pranzo era un posto come un altro—
Agita
la mano, convulsamente, e quello che era rimasto
dalla mattina—carni fredde e coppe di acqua e calici di vino
e l’onnipresente
pane—volano contro il muro opposto, trasportati da una brezza
gelida che
congela gli spigoli del ripiano del tavolo e fa traballare
pericolosamente il
fuoco nel caminetto. Il cibo si spiaccica come sangue contro il
rosemåling. Il
medico, un uomo smilzo conosciuto col nome Knut, si aggiusta teso il
monocolo e
urla, "Sul tavolo, allora!"
Le
guardie, una che regge la testa di Albert, e
l’altra le gambe, lo sistemano in fretta, poggiandolo sul
mogano scuro. Un
altro dei suoi uomini tiene già ferma una lama sul fuoco del
caminetto. Elsa osserva
il metallo diventare incandescente con lo stomaco che si contorce.
"Dovete—"
si blocca, un malfermo passo in avanti, cercando ancora di capire dove
fosse—"Dovete
proprio?"
"Se
non lo facciamo," Knut fa, facendo
scivolare un pugnale sotto la tunica di Albert e strappando via il
tessuto
marrone-rossastro, "morirà dissanguato." Si ricorda di
aggiungere,
all’ultimo secondo, "Vostra maestà."
"Veloci,
allora," una delle guardie che
aveva portato via Albert dal mucchio dei rifiuti esclama, cupo,
sfilandosi la
cinghia di cuoio della spada e infilandola tra le labbra inerti di
Albert, e
poi preme le mani sulle spalle del principe per tenerlo fermo. "E tu,
le
gambe."
Non
capisce. Perché dovevano immobilizzarlo?
Perché—fa
un passo avanti, per aiutarli, il cuore che le martella in petto un
ritmo
irregolare, e il medico dice, "Mettete il piatto della lama
direttamente
nella ferita."
Elsa
tende la mano, allunga il braccio, per aiutare,
per fare qualsiasi cosa—
"Vostra
maestà?" Knut fa una smorfia. "Vi
consiglio di distogliere lo sguardo."
Scuote
la testa, premendo le labbra, ed ecco che
l’uomo preme il piatto della lama incandescente conto lo
stomaco scoperto di
Albert—
E
Albert urla.
Svegliandosi,
all’improvviso, si dibatte, quasi
scaraventando via la guardia che gli immobilizza le spalle, la voce che
gli
graffia la gola come chiodi. Il cuore di Elsa si ferma. Si copre la
bocca con
le mani, le preme; ci mette un po’per capire perché—perché
anche lei sta
urlando, e deve soffocare le grida, subito, subito.
Il ghiaccio insinua
i propri artigli sul pavimento della sala da pranzo. La temperatura
nella
stanza cala vertiginosamente. Albert urla, in preda ai conati, e il
medico dice,
cupo, "Rigirate la lama!"
La
guardia fa come gli è ordinato.
Elsa
riesce a malapena a sopportarlo.
E
poi Knut è in piedi di fronte a lei, proprio lì,
e
per farlo ha dovuto farsi strada in un metro e mezzo di neve. Dice,
piano, con
cautela, "Regina Elsa, questo problema richiede capacità di
guarigione che
io non posseggo."
"Ma
avete cauterizzato," sussurra, da dietro
le dita.
"Per
guadagnare tempo. Non sappiamo dire che
danno ci sia, all’interno."
"Ma
ha smesso di sanguinare."
"Potremmo
aver bisogno di riaprire la ferita."
I
respiri di Albert sono più lenti, ma è bianco
come
il nevischio che Elsa ha attorno ai piedi. Guarigione. Guarigione,
guaritori, aveva
bisogno di—
Si
toglie la mano dalla bocca, echi delle urla che
ancora riecheggiano nella sala da pranzo, e chiede, "Riuscite a tenerlo
vivo fino al mio ritorno?"
Il
medico deglutisce. "Vostra maestà, non posso
promettere niente."
Guarda
l’uomo disteso e considera l’idea, per un
momento, di prendergli la mano, ma a cosa sarebbe servito? A niente.
Niente, nessuna
promessa, la realtà che si disgrega ai margini. Nessuna
promessa. "Allora
fate del vostro meglio."
"Sì,
Vostra maestà."
"Preparate
il mio cavallo," ordina.
Anna
se ne sta lì in piedi, le braccia incrociate
sotto il mantello, gli stivali che affondano nella neve fresca e
soffice, e
capisce perché Kristoff la adora.
Davanti
a lei, che si stende fino all’orizzonte, non
c’è nient’altro che aria fredda di
montagna e sole che si riflette brillando
sui picchi innevati, tanto luminoso da costringerla a strizzare gli
occhi. C’è
silenzio, ma non il tipo di silenzio inquietante—non
col vento che
soffia fischiando tra le rocce nude, cantando piano, mentre scuote gli
alberi
dietro di loro. E’ crudo, vivo. Gli abeti dietro di loro
proiettano le ombre
simili a denti storti, spezzati. Sa dove si trova; quella rupe, sotto
il
castello di Elsa, tranne per il fatto che questa volta non
c’era un mostro di
neve gigante a spaventarli e a farli precipitare.
Ed
era una bella caduta. Neve fresca o no.
Si
guarda alle spalle, chiedendosi se sia ancora lì, come
una cosa morta, sospeso, e in attesa, o se si sia sciolto con la
partenza di
Elsa, lasciando al suo posto un ghiacciaio che si scioglie. Anna si
guarda le
mani, mordendosi il labbro, e poi agita tentativamente le dita coperte
dai
guanti, immaginandosi del ghiaccio spuntare da esse, tipo whoom.
Ha.
Volge
di nuovo lo sguardo al paesaggio innevato. E’
abbastanza da far spalancare la bocca per la meraviglia a chiunque,
tranne
forse i due stupidi principi delle stupide
Isole del Sud, che si limitavano
a fissare, più o meno, come se stessero assistendo a una
qualche mostra d’arte
a tema neve, e che tutto quello non fosse più impressionante
di Giuditta che
regge la testa di quel generale, quindi, cioè, quello che
è.
I
cavalli nitriscono tra gli alberi dietro di loro. Non
riesce a vederli, e nemmeno le guardie, e riesce a immaginare, per un
momento,
di essere, a parte Kristoff, totalmente sola. Pensa, mentre lo guarda,
accanto
a lei, mentre lo osserva pulirsi il naso con una manica, una smorfia
che gli
prende tutta la faccia, pensa, bel lavoro, ragazza,
perché se questo
non urlava impenetrabile allora niente
poteva farlo. Lui la becca a fissarlo e la il cipiglio si fa
più marcato e Anna
schizza con lo sguardo di nuovo fisso al panorama innevato e prova a
fischiettare. Fa troppo freddo per fischiare, scopre, e quindi
ricomincia a
cercare di far riprendere sensibilità alle dite, sbattendole
assieme.
"E’
davvero impressionante," Tomas fa notare,
strusciando uno stivale nella neve fitta, osservandola separarsi
davanti a sé.
"Eri al corrente del fatto che Arendelle fosse così ben
protetta, fratello?"
"No
davvero," Viktor risponde, un po’ goffo.
Tomas
fa un passo, poi due, verso l’orlo del
precipizio. E’ un’altezza che fa venire le
vertigini; Anna ricorda, perché
essere tenuta appesa su un precipizio di sessanta metri (cento?
duecento? Più
un milione) da un mostro di neve arrabbiato di
certo tendeva a, cioè, imprimerti
a fuoco le cose nel cervello—e dice,
d’impulso, "State attenti," anche
se non c’è poi tanta intenzione
dietro. Solo due parole. State
attenti. Suonava meglio di vi prego scivolate e
cadete, sarebbe carino
da parte vostra, in realtà—
Ok,
era molte cose, ma un’assassina? Proprio
no.
"Bella
caduta, non è così?" Tomas borbotta,
come parlando a sé stesso. "Trenta metri?"
"Sessanta,"
Kristoff corregge
automaticamente, e poi ha tutta l’aria di essere infastidito,
persino
arrabbiato. Incrocia le braccia, guardando male la parte di cielo alla
propria
sinistra. Viktor fa un cenno col mento. "Fatti indietro, fratello. Non
voglio venire a raccogliere le tue budella."
"Ci
sono dieci metri di neve fresca, laggiù,"
Kristoff borbotta, ma lo sentono tutti.
"Atterraggio
morbido dunque, eh?" Tomas ridacchia,
lanciando loro un’occhiata. Anna si morde il labbro. Kristoff
si limita a
restare lì, a fissarli. Tomas continua, "Perché
non ci fermiamo a mangiare
qui? E’ un posto come un altro, e il paesaggio è
semplicemente mozzafiato."
Kristoff
scrolla le spalle. Deve comportarsi da
principessa, non è così, maledizione—fa
un sorriso tirato. "Magnifica
idea. Vado a prendere il—"
"Non
ce n’è bisogno," Tomas sorride. "Mio
fratello e io siamo vostri ospiti. Il minimo che possiamo fare
è prendere il
cesto, no?"
E
prima che possa controbattere di nuovo, si dirigono
verso il margine della radura. Anna li guarda farsi sempre
più piccoli, e alla
fine scompaiono dietro i tronchi. Senza pensarci troppo, afferra la
mano di
Kristoff, riuscendo ad afferrargli, attraverso i guanti, il mignolo e
l’anulare.
Dopo un momento, due, lui le prende la mano come si deve, coprendo
completamente il guanto blu col suo, e le chiede, "Cos’hai?"
"Ho?
Non ho niente, sto bene. Così bene. Più che
bene. Ho fame. Hai fame? Oh, pensa se Elsa ci ha
fatto preparare il cioccolato—"
"Calmati."
"Ehi,
Kristoff. Riguardo—riguardo a prima, quello
che volevo dire—"
"Non
dire niente," brontola, guardando a
disagio di lato, ma non le lascia la mano e Anna lo interpreta come un
buon
segno. "Possiamo—possiamo parlarne un volta che non dobbiamo
più occuparci
di questi perdenti."
Sbuffa
dal naso, Piegando la testa di lato, in modo da
appoggiarla sul suo braccio. La lascia lì, le piace la
sensazione. "Perdenti.
Bella parola. Che ne dici di miserabili?"
"Ma
se sono dei reali."
"Kristopher,
ti prego. Non saranno mai reali.
Non come, reali da re, comunque—"
"Cosa
te lo fa dire?"
"Giocano,"
esclama, stringendo gli occhi
contro il riverbero della neve avanti a lei, "ma non molto bene."
"Stiamo
giocando?"
"Metaforicamente.
Ma nemmeno io sono molto brava.
Elsa è la migliore." Anna sospira, facendo svolazzare la
frangetta. "Vorrei
tanto essere come te."
"Un…maschio?"
"No,
stupido. Un venditore di ghiaccio. E
poi potremmo avere il nostro club privato dei venditori di ghiaccio, e
faremmo
entrare solo persone fighe, il che non includerebbe nessuno che ha il
cognome delle
Isole del Sud."
"…tu
sei matta."
Gli
stringe di più la mano.
"Kristoff?"
"Huh?"
"Non
voglio tagliarti fuori," sussurra, e
può solo sperare che riesca a trasmettere tutto quello che
vorrebbe dire, ma
che non può, non ancora. Kristoff si irrigidisce; e Anna lo
riesce a sentire
sotto la testa, la tensione dei muscoli del braccio, il respiro tirato
in
dentro di botto. Alla fine si abbassa, un po’ goffo, e le
bacia brevemente la
fronte.
"Ti
credo," sussurra lui di rimando.
Aumenta
la stretta sulla mano di lui e non vuole
lasciarla più andare.
Esalazioni
di vapore si innalzano in aria con uno ssss,
e la scia di ghiaccio che la segue—fin dal cortile del
palazzo—si scioglie poco
dopo essersi formata, circondata dalle rocce spruzzate di muschio e dai
piccoli
geyser. Elsa tira le redini di scatto, il cavallo nitrisce impaziente.
Ha l’affanno;
l’aveva spinto al massimo, per tutta la strada fin da
Arendelle, su un sentiero
che aveva fatto solo due volte prima, tutte e due delle quali in preda
al
terrore, e anche questa volta—
La
terza volta è quella buona,
pensa. Era stato un
miracolo che si fosse ricordata la strada fino a quel punto. Lo
attribuisce
all’adrenalina, che riesce praticamente a sentire mentre
le pulsa nelle
vene come fuoco liquido, rendendo i colori più vividi, i
pensieri più veloci. Tempeste,
ghiaccio e gelo—a che serve questa maledizione se non posso
aiutarci le persone?
Smonta
da cavallo, sollevandosi gli orli delle gonne
con una mano, e usando l’altra per accarezzare il fianco del
cavallo, grata.
"Grazie," sussurra. "Aspetta qui."
Va
via di fretta.
La
vallata è invitante, e si chiede, mentre avanza
nell’erba lussureggiante, che diventa prima marrone chiaro,
poi scuro, e poi
morta, si chiede se ci sarebbe mai andata per qualche altra ragione che
non
fosse stata necessità, solo per dire ciao. Pensa ad Albert,
che sta morendo
sulla tavola da pranzo, e sa che, in qualche modo, anche questo era
colpa sua. Riesce
a sentirlo.
Come?
Perché?
Non
importa.
Si
ferma, esaminando le formazioni rocciose, disposte come
le spire di uno strano serpente marino dato alla luce sulla terra. Le
cose
sembravano diverse sotto il sole; le rocce meno invitanti, un grigio
sbiadito,
sotto quei raggi. Apre la bocca, ma non emette suono, e deve stringere
le mani
a pugno contro i fianchi. "Salve?" riesce a dire alla fine. "Papi?"
Non
c’è alcun movimento.
"Papi,
per favore, è—è il mio—il mio
amico, è—mortalmente
ferito. Non possiamo guarirlo senza magia."
Pausa.
Aspetta. Ancora, nulla, a parte l’eco della
propria voce in tutta la valle, come le urla di Albert nella sala da
pranzo. Torce
le mani, si tira la treccia. Apre la bocca per dire
qualcosa—qualsiasi cosa –in
più, solo che sente un rumore, pietra su terra, che rotola
nella sua direzione.
Si guarda attorno, nella radura vuota, e poi gli occhi mettono a fuoco
l’unico
masso che va verso di lei; alla fine spunta un troll, che sbatte
assonnato le
palpebre, una fila di cristalli rosa appesi al collo e ciuffi di erba
ingiallita che le fanno da capelli, spuntando dalla testa. Elsa
comincia, in
fretta, "Scusatemi, tanto, ma ho davvero bisogno—"
"Tesoro,"
il troll esclama, sopprimendo uno
sbadiglio, "devi chiudere il becco, altrimenti svegli i bambini."
"Mi
scusi?"
"Dormono
tutti," il troll sbadiglia, strofinandosi
i grandi occhi grigi. "E vedere persone che arrivano qui a tutte le
ore—"
Il troll si interrompe. La
guarda,
sbattendo le palpebre. Scuote la testa di acquistare
lucidità, si aggiusta il
vestito fatto di muschio. Poi, a bocca aperta, chiede incredula,
"Regina Elsa?"
"Sì,
sì, mi dispiace, è che—per favore," la
voce di Elsa è diventata un sussurro bassissimo, "per
favore, devo parlare
con Papi. E’ urgente."
"Senza
dubbio, visto che sei venuta qui a un’ora
del genere—aspetta un secondo, vado a prenderlo. Non ti
muovere," il troll
la avverte con la sua voce profonda, vellutata, prima di rotolare via,
fuori
campo visivo. Elsa sente strati di ghiaccio formarsi sulla
sommità delle
scarpette nere, lottare per attecchire al suolo della valle mite e
fertile.
Sente
rumore di ciottoli, ed ecco due rocce venire
verso di lei. Sbatte le palpebre. Il troll con i cristalli rosa appare
di nuovo,
assieme a Papi, sul viso un’espressione grave e triste al di
sotto della
criniera leonina di erba. "Regina Elsa?"
"Mi
spiace tantissimo," Elsa bisbiglia,
torcendosi le mani, "ma il mio amico, è stato ferito, e non
riusciamo a
curarlo. Sta morendo. Ti prego, Papi, abbiamo bisogno della
magia—"
"Ma
maestà," il vecchio troll brontola, avvicinandosi
a lei con espressione esausta, "anche tu hai dei poteri magici."
"No,"
sussurra lei, agitando avanti e
indietro le dita, osservando schegge di ghiaccio piantarsi al suolo.
"Ho
una maledizione. Non posso guarirlo."
Papi
apre la bocca, come se stesse per aggiungere
qualcosa, e poi la chiude piano, scuotendo leggermente la testa.
"Dov’è?"
"Al
castello."
"Verrò
con te. Bulda, ti lascio in carica, mentre
sono via."
"In
carica? Col cavolo—il mio bambino sta dalle
tue parti, non è così?" il troll chiamato Bulda
chiede, eccitata. Elsa si
risparmia l’obbligo di dover raccontare tutta la storia
grazie a Papi che dice "Bulda,
non è questo il momento."
"Beh,
se vedi Kristoff, digli di venirmi a fare
visita, okay? Digli che mi preoccupo per lui—"
"Bulda,"
Papi avverte.
L’altro
troll alza gli occhi.
Papi
posa lo sguardo arguto su di lei, ed Elsa rabbrividisce.
Dice, lentamente, "Ti seguo."
Elsa
si volta.
Corre.
Anna
osserva il panorama davanti a sé e indica vaga un
punto alla propria sinistra, un gruppetto di alberi scuri e collinette
misteriose appena visibili in lontananza, solo che forse indica con un po’ troppo entusiasmo,
perché il braccio
di Kristoff si alza di scatto e le impedisce di avanzare. Un mucchietto
di neve
scivola giù dall’orlo del precipizio. "Sei mai
stato laggiù?" chiede,
appoggiando le mani sul suo braccio e spingendo giù con
forza. Non lo muove di
un millimetro.
"Puoi
farti indietro di tipo, tre metri, per
favore?"
"Sei
maiiiiii—"
"Sì,
okay, ci sono stato. Una volta."
"E
invece la—"
"Tre
metri, furia scatenata."
"—ggiù?"
Passi,
che scricchiolano sulla neve, e si volta verso
gli abeti in tempo per vedere Viktor e Tomas venirne fuori,
trasportando un
grosso cesto di vimini intrecciato fitto fitto, profilato di stoffa
rossa.
Kristoff borbotta qualcosa a proposito dei muli e fa un passo avanti, e
si
trascina dietro Anna. E lei, cioè, ha capito,
significa: allontanati dal bordo—un
paio di passi e Kristoff si ferma, e inizia a scavare col lato dello
stivale,
sollevando un mucchietto di neve, che ammassa cercando di dargli la
forma
approssimativa di una specie di tavolino basso. Anna si accovaccia,
picchiando
i lati del mucchietto per aiutarlo.
"Non
si poteva desiderare un posto migliore per
pranzare," uno dei gemelli dice. Anna si soffia via i capelli dalla
faccia, e si alza cercando di non mostrarsi troppo infastidita, cosa
che
probabilmente fallisce miseramente, ma tanto. L’altro gemello
dice, "Le
guardie ci hanno già messo a bollire dell’acqua da
bere," e picchietta una
borraccia che tiene appesa al fianco.
"Acqua
bollita," Kristoff borbotta, "la
mia preferita."
Il
volto del gemello si irrigidisce. Anna ci mette un
momento a rendersi conto che si tratta di Tomas, il più
smilzo. "A dire il
vero, la Regina Elsa ci ha fatto preparare delle foglie da
tè. Preferiresti
qualcos’altro?"
"Acqua
bollita," Kristoff scatta.
Tomas
scrolla le spalle lentamente, con cautela, osservando
suo fratello sistemare il cesto sul tavolo provvisorio. "E’
un po’ che lo
volevo chiedere—ma esattamente, qual è la tua
relazione con la famiglia reale? Sua
maestà ci ha informato che saresti stato la nostra guida, il
che implica una
qualche forma di fiducia, ma le tue maniere da selvaggio e rozzo
—"
"E’
il Reale Venditore e Fattorino di ghiaccio,"
Anna li interrompe, stizzita, il gomito già piantato nel
fianco di Kristoff, per
dirgli calmo calmo calmo—"Che, ad
Arendelle, sarebbe, cioè, l’equivalente
di un duca. O un marchese."
"Hm,"
è tutto quello che Tomas risponde. È
uno hm che non le piace, che insinua qualcos’altro
e a questo
punto tanto vale sguainare le spade, perché tutto quel
girare in tondo attorno
alle cose era ridicolo, totalmenteorribilmenteridicolo—e non odiava
girare
in tondo, lo amava, davvero—solo che adesso lo odiava,
davvero lo odiava, perché
l’ultima volta che aveva girato in tondo era tra le braccia
di quel cretino del
loro fratello—troppi fratelli.
Disgustoso.
Anna
si stringe le mani, poi si morde il labbro per
evitare di dire qualcosa di stupido, ed esclama, "Beh, mangiamo, in
modo
da poter, sapete, no, continuare col tour di queste montagne molto
alte,
molto grandi."
Il
che, forse, era un poco esagerato, ma ormai.
Oops, e tutto il resto.
Apre
il cesto e tira fuori uno dei tramezzini incartati
per bene. Kristoff borbotta vagamente di non aver fame, e si volta, e
si
allontana di un paio di passi, le braccia incrociate e la bocca
contorta da una
smorfia decisa, cosa che lei ritiene positiva, tutto sommato,
perché, cioè, non
aveva davvero voglia che iniziassero a prendersi a pugni, e comunque,
lei li
avrebbe messi tutti a tappeto, quindi sul serio,
non sarebbe servito a
niente. Tomas si sfila la borraccia a tracolla, e poi alcune tazze
pesanti dal
cesto. "Tè, principessa?" chiede, sollevando una tazza in
sua
direzione.
Annuisce.
Tomas versa il liquido profumato di
caprifoglio, ancora fumante, dalla borraccia, e le passa la tazza. Se
non
avesse avuto tutto quel caldo, pensa, mentre lo beve, sarebbe stato
perfetto. Ne
versa nella sua, in quella del fratello, e chiede, "Ed è
sicura che il—Venditore
di Ghiaccio Reale non desideri unirsi a noi?"
Si
volta e guarda Kristoff, seduto di spalle. "Abbastanza
sicura, sì."
Tomas
scrolla le spalle. "Alle buone relazioni,"
dice, sollevando la tazza.
"Cin
cin," Anna risponde.
Bevono.
Elsa
entra come una furia in sala da pranzo, e dal
rumore sembra un uragano. Le finestre si aprono, le porte sbattono
contro il
muro, e il fuoco nel caminetto traballa una volta e poi si spegne. La
luce del
sole all’improvviso diventa troppo poca. La tensione
è forte, palpabile, e fa
un respiro profondo e brusco, pensando mantieni il controllo,
mantieni—il
vento si smorza del tutto, il ghiaccio si ritira. Esamina la
scena—Albert, estremamente
pallido, prono e senza vita sul tavolo; un grosso secchio
d’acqua calda che è
diventata nera di sangue e terra; e Knut che tenta di misurare il
battito
cardiaco, all’altezza del gomito.
"Il
paziente?" Papi domanda, srotolandosi al
suo fianco. Sobbalza, e guarda giù, perché aveva
quasi dimenticato—dimenticato
cosa? Scuote la testa. Il vecchio troll sembra fuori posto sotto il
soffitto
perfetto e vivace del castello, la natura che gli aderisce addosso come
una—beh,
pensa, prima—pelle. Le guardie sussultano. Una di loro
scivola, e il suo piede
sbatte nel secchio d’acqua, facendola traboccare sul
pavimento lucido. Il
medico inizia a tossire con violenza, guardando prima la creatura di
roccia
grigia e poi la regina, con un occhio comicamente enorme dietro la
lente del
monocolo.
"Sul
tavolo," Elsa dice, e si costringe a
tenere la schiena dritta, il tono calmo. Mantieni il controllo.
"Vostra
maestà, io—io—" Knut inizia, e lei
scuote leggermente, pianissimo, il capo in sua direzione, seguendo i
passi
calmi e tranquilli di Papi e lottando contro l’impulso di
gridare vai troppo
lento—il troll si ferma davanti a una delle sedie.
"Sono
un vecchio troll," comincia, salutando
a questo modo le guardie, e tutte e due hanno gli occhi più
grossi del sole,
"e non sarò tanto presuntuoso da non chiedere aiuto. Vi
spiace?" inclina
la testa verso il tavolo. Elsa non ha tempo per la loro
incredulità, e agita la
mano quasi spazientita. Una forte brezza glaciale crea un vortice sotto
il
troll e lo deposita, anche se non proprio con delicatezza, almeno sul
tavolo,
in modo che riesca a raggiungere Albert. Papi la osserva pensieroso, ma
non dice
niente. Dopo un momento, due, in cui si perde nei suoi pozzi di
saggezza, si
volta di nuovo verso il principe che giace sul tavolo ed esamina la
ferita
irregolare che ha lungo lo stomaco. Elsa si avvicina, solenne, e
appoggia le
mani sullo schienale alto di una delle sedie, afferrandolo stretto; il
gelo si
espande su di esso, lentamente, formando un reticolo cristallino.
Le
si secca la bocca.
La
ferita è un macello di pelle gonfia e arrossata, bruciata
e nera ai bordi e rossa e piena di pus al centro. Emana cattivo odore,
di carne
in putrefazione, ed Elsa ha paura di guardargli il petto. Ha paura di
controllare se stia respirando. Trova il suo volto, invece, e ha del
sangue che
gli cola dalla bocca, come se si fosse morso la lingua. Il medico,
dietro di
lei, tossisce di nuovo, ritrovando la voce. "Il b-battito cardiaco
è
debole, e si sta indebolendo ancora," dice.
"Già,"
Papi risponde, esaminandolo con calma
con il mento appoggiato a un pugno. Fa un piccolo passo in avanti, gli
occhi
che si chiudono, l’altra mano con le dita grigie e tozze
tese, sospese in aria
all’altezza della ferita. Una delle guardie bisbiglia, "Ma
che sta facendo?"
Sente
un oof quando qualcuno dà di gomito a
quest’ultima.
"C’è
un’infezione, qui," Papi afferma dopo
un attimo. Si acciglia, le sopracciglia cespugliose che si abbassano.
"E
un’emorragia interna. Qualunque sia la lama che
gliel’ha fatto, era uncinata."
Le
unghie di Elsa graffiano il legno.
Il
cipiglio di Papi si fa più marcato, e poi, tanto
repentinamente quanto era venuto, scompare. Piega la testa di lato, ed
Elsa
osserva l’ondeggiare della sua criniera erbosa. Nel suo tono
profondo, roco, continua:
“Siamo fortunati. C’è della terra dentro
di lui—normalmente avrebbe aggravato
l’infezione, ma," e qui apre gli occhi, volgendo la testa
verso di lei con
un sorrisetto, "siamo fortunati."
"La
tua magia," Elsa esala, ricordandosi di
quella conversazione, tanto tempo fa. "Viene dalla—"
"Dalla
terra, sì. Mi serve altra terra dalla
fonte," Papi si interrompe, ritirando la mano. "Dove l’avete
trovato?"
"La
terra del mucchio dei rifiuti—portatene un
po’ qui," Elsa ordina, alla guardia più vicina.
Annuisce, andando via dalla
sala di corsa. Elsa stacca le dita dal ghiaccio formatosi sullo
schienale della
sedia e si rivolge a Knut. "La ringrazio, grazie di tutto," dice. Stanca,
così stanca. "Perché non va a riposare,
ora?"
"Se
per voi va bene, Vostra maestà," deglutisce,
fissando ancora il troll con qualcosa che assomiglia alla meraviglia,
"Preferisco
restare."
Annuisce.
Papi si volta dalla sua parte, guardandola
fissa, e alla fine tende una mano. "Regina Elsa, mi permetti di
prendere
in prestito il tuo potere? Sono, dopo tutto, un vecchio troll."
Si
guarda la mano nuda, che trema. La porge. "Prendi
tutto quello di cui hai bisogno."
La
sua pelle è pietra sotto quella di lei.
"Sei
sicuro che non ne vuoi?"
"Sono
sicuro."
Anna
regge la tazza tra tutti e due i guanti e ci
soffia su di nascosto; lui osserva il vapore sollevarsi in piccoli
ciuffi e
scomparire, all’improvviso, spiacevolmente consapevole di
quanto fosse vicina
all’orlo della rupe. Conoscendo Anna, sarebbe scivolata.
"Molto meglio dei
tramezzini," borbotta, schioccando le labbra e bevendo
un’altra lunga
sorsata. "Il pane si è congelato quasi tutto. Ma bere due
tazze di tè è fondamentalmente
pranzare, quindi, capirai."
In
risposta, gli brontola lo stomaco, sonoramente. Anna
lo guarda in tralice con un ghigno malvagio.
"Non
ho fame," esclama testardo, in gran
parte perché si diverte più a contare picchi e
fiocchi di neve di quanto
farebbe a parlare del più e del meno con quei due pomposi coglioni
dietro
di lui. Ha. Si strofina di nuovo il naso e pianta una mano in piena
faccia ad
Anna, spingendola di lato con la forza sufficiente a farla
indietreggiare di un
passo. Lei ride, scacciando via il braccio, e le cose tra loro filano
così
lisce che riesce quasi per un momento a dimenticare lo sguardo di
orrore che
gli aveva rivolto dopo che l’aveva detto, quella mattina.
L’aveva
detto, per l’amor del cielo, perché—
Lo
sapeva. Sapeva
che sarebbe successo, se l’avesse fatto. Osserva il bosco,
piccolo e scuro, da
quella distanza, e quasi desidera essere lì.
Quasi.
"—vuoi
solo dimostrare che sei più uomo di loro,
non è vero?" Anna sta dicendo sottovoce, quando ritorna alla
realtà.
"Tipo, guardatemi, sono un montanaro, so passare attraverso i muri e
trattenere il respiro per dieci ore consecutive—"
"Questo
non c’entra niente con l’essere
un
montanaro," fa in tono piatto.
"—non
rovinare la storia, Kristopher—e so pescare
a mani nude e cavalcare orsi senza sella e —woah,"
Anna sbatte le
palpebre, all’improvviso, portando una mano alla testa.
Aggrotta le
sopracciglia. Sbatte le palpebre, due volte, tre. Kristoff le riconosce
in
volto la stessa espressione dei ragazzi, a casa, prima che vomitassero
il
muschio. Fa un passo avanti, la mano tesa per afferrarla – o
– qualcosa, non lo
sa di preciso, ma forse – le dà delle pacche
leggere sulla spalla. Poi fa una
smorfia. “Stai bene”?
"Bene,
sto bene." Anna scuote rapidamente la
testa, poi, velocemente, si piega e incastra la tazza nella neve. Porta
entrambe le mani alle tempie. "Mi sono solo venute forti vertigini
all’improvviso."
C’è
qualcosa che non va. Afferma, "Beh, ormai
avranno finito di pranzare. Torniamo alla slitta."
"Già.
Già, buona idea," annuisce lei. Spalanca
gli occhi e lo guarda e Kristoff non può fare a meno di fare
un mezzo sorriso. Aveva
il naso piccolo e troppe lentiggini e occhi che vagavano continuamente,
forse
senza prestare sempre attenzione, ma incrocia il suo sguardo e pensa sei
bellissima. E vuole baciarla. Si accontenta di tenderle una
mano. Lei alza
gli occhi, lanciando indietro una treccia, impertinente, gli stivali
che
scivolano sulla neve. "Sto bene, Kristopher. Pher-favore."
"Tre
metri, furia scatenata," le ricorda.
"Ti
seguo a ruota."
Si
volta. Ecco i principi, ancora riuniti attorno al
piccolo tavolino di neve. Hanno la stessa corporatura che aveva Hans,
solo coi
tratti più maturi, forse, ma ancora tanto affidabili
quanto—quanto—quanto
qualcosa di molto inaffidabile. Kristoff li guarda e si chiede
perché il
destino abbia concesso a loro di essere principi, e
a lui di guardare i
propri genitori morire congelati poco lontano dalla porta di casa.
Sente
la mancanza della sua “Ma’”,
all’improvviso, poi
scuote la testa con una risata. Non aveva sentito la mancanza di sua
mamma da
tanto tempo, non così tanto,
comunque—si volta per dire ad Anna che avrebbero
potuto far prendere ai principi il miglior colpo della loro vita,
ritornando ad
Arendelle per la strada che attraversava la Valle delle Rocce Viventi,
ma lei è
ancora lì in piedi, che si stringe la testa. Kristoff fa un
passo avanti pronto
a caricarsela in spalla come un sacco di patate, se non fosse per il
fatto che
lei fa un accidentale passo, cosa molto alla Anna,
all’indietro, mente tenta di
capire perché la testa le pulsi tanto, e si sente un sonoro crack,
e
conosce quella roba, ci è cresciuto sopra, l’aveva
vista portargli via tutto,
quindi si muove anche prima di rendersi conto di quello che stia
accadendo.
Lento,
tutto, tutto rallenta—
Anna
ha gli occhi spalancati dallo shock e questa
volta non ci sono né corda né niente,
solo lei, che cade, cade, e lui
urla, "ANNA!" Salta, col braccio teso, ci arriva, ci
arriva
quasi—
Qualcosa
di pesante gli blocca le gambe, e la metà
superiore del suo corpo penzola nel vuoto. Ha una vista terrificante,
del
burrone e del corpo di lei che precipita a tutta velocità
nella bassa foschia, prima
che la testa gli venga spinta di lato, e quasi colpisce le rocce.
Lotta,
aggressivo, si sente un lupo—calcia e centra, ed eccolo
arrancare, alzarsi e
voltarsi, la mano già stretta a pugno. Colpisce, dritto in
faccia al secondo
gemello, quello che non aveva ancora steso. Rimangono così,
accovacciati sulla
neve, gocce di sangue scarlatto che gocciolano da naso e bocca, e
ruggisce,
"AVREI POTUTO PRENDERLA!"
"E
rischiare di ferire anche te stesso?" il
più magro dei gemelli abbaia, con la bocca che sanguina. "Pensa,
uomo
del ghiaccio!" scatta. "A che saresti servito, da morto?"
Non
posso saltare ora, e se le cado
addosso, se le cado—
"SVEN!"
Kristoff ruggisce. E’ un incubo. Il
cuore gli martella ed è un incubo, e tutto quello che riesce
a pensare è tre
metri, tre metri, e si poteva prevenire così
facilmente, un braccio attorno
alle spalle, e l’avrebbe presa—
Sven
si precipita attraverso gli alberi, la slitta che
sbanda dietro di lui come una nave in tempesta, ma Kristoff sa che il
suo amico
ha riconosciuto il panico che gli attanaglia la voce—tira
fuori un coltello
dalla tasca e taglia la bardatura, chi se ne frega della slitta, e, con
un solo
movimento fluido e disinvolto—anni di pratica, anni di
isolamento—gli monta in
groppa.
Dieci
metri di neve fresca
è l’unico pensiero che
lo mantiene lucido, mentre urla, "Cerca di arrivare giù!"
Dieci
metri di neve fresca.
"Ho
fatto quello che potevo," Papi afferma,
alla fine. Il sole era alto nel cielo, non più visibile
dalle finestre, e Knut aveva
ormai da tempo riavviato il fuoco. Quest’ultimo, seduto
vicino a esso, sobbalza.
Elsa riesce a sentirlo, ma ha gli occhi chiusi. Sente le dita tozze e
spesse di
Papi lasciare le proprie, e poggiarle con gentilezza la mano sulla
tavola. Le
sembra di avere gli arti ridotti a poltiglia, tremanti e scorticati,
come un
cerbiatto appena nato. Papi sta dicendo qualcosa. Si concentra sulla
cadenza
lenta della sua voce. "—e tu stessa avrai bisogno di riposo,
Regina Elsa. Non
è una cosa da poco, prestare a un altro la propria magia.
Scorre e rifluisce
dentro di te; portala via, e ci metterà del tempo a
rinascere di nuovo."
Sbatte
le ciglia e apre gli occhi, quasi timorosa di
quello che avrebbe trovato—ma no, le sue mani, le sue braccia
e le sue gambe
sono ancora le stesse. Sbatte di nuovo le ciglia, e ha paura di
guardare l’uomo
steso accanto a lei. Papi ha le mani allacciate davanti a
sé. "Ho paura
che rimarrà una cicatrice."
I
suoi occhi scattano di lato.
Albert
è pallido quanto lei, le mani posate accanto ai
fianchi, non più strette a pugno. E le labbra non sono
più contorte da una
smorfia. L’orribile spettacolo rosso-nerastro e pieno di pus
che era stato
prima il suo stomaco, adesso era diventata una linea del colore
rosa-rossastro
che ha la pelle nuova, strane vene appena visibili che partivano da
essa come
rampicanti. "Ha dentro più terra, adesso," Papi ridacchia
tra sé e sé,
ma Elsa riesce a vedere, dal modo in cui le sue spalle e la criniera
d’erba
erano ricurve, che è stanco quanto lei.
Chiede,
un sussurro fioco, guardando l’azzurro
sbiadito del cielo oltre le finestre, "Quanto tempo—"
"Tre
ore," Papi sospira. "In gioventù,
avrei potuto farlo in due. Sto iniziando, pare, a perdere colpi."
"No,"
Elsa scuote la testa, guardando la
pelle nuova. "No, la tua magia è sorprendente."
"Anche
la tua, Regina Elsa," il troll
risponde, guardandola con aria scaltra. "Eppure il tuo cuore
è ancora
indeciso—hai scoperto il segreto delle origini della tua
magia?"
Elsa
sbatte le palpebre. Avrebbe sussultato, se ne
avesse avuto la forza, ma non ce l’ha—ne ha a
malapena da scuotere la testa. Aveva
del tutto dimenticato il suo consiglio. Sembrava una vita fa. Lo era
stato. Lo
era. "La mia maledizione è mia soltanto."
"La
tua magia," Papi la corregge, con
gentilezza, "è un dono, Regina Elsa. Come tutta la magia."
Rimane
in silenzio.
Papi
si guarda i piedi. "Ritorno dalla mia
famiglia, ora, per recuperare le forze dormendo." Si ferma accanto a
una
delle sedie, gli occhi puntati al pavimento. "Regina Elsa?"
"Sì?"
chiede, piano. Poi si ricorda le buone
maniere, "Oh, perdonami, Papi. Posso offrirti una camera? Del cibo?"
Osserva
il petto di Albert sollevarsi lentamente con la coda
dell’occhio; lo guarda
abbassarsi. Quasi sorride. "Non potrò mai ringraziarti
abbastanza."
"Una
sciocchezza," Papi risponde, poi
aggrotta le sopracciglia e continua, "Mi piace aiutare, in tutti i modi
possibili, ma Regina Elsa—non possiamo essere chiamati
semplicemente per
convenienza."
"Sì,"
Elsa dice, a voce bassa, stanca, e la
sua mente va a rallentatore, prosciugata di ogni forza, "sì,
lo so. Ti ho
usato, e mi dispiace."
"Non
scusarti; hai sfruttato le risorse che avevi
a disposizione. Hai pensato in fretta, sotto pressione." Passo,
passo, passo,
ed eccolo lì, in piedi davanti a lei, bloccandole la vista
di quel petto.
"Ma Regina Elsa, arriverà un giorno in cui dovrai imparare a
camminare con
le tue gambe. E so, da vecchio troll che sono," Papi fa,
l’ombra di un
sorriso sulle labbra, "che hai gambe potenti”.
Gli
occhi di Elsa vengono attratti da quelli del
troll, in cui rimangono fissi. Minacciano di inghiottirla intera.
Annuisce.
"Capisco."
Papi
la guarda dritto per un altro momento, e poi
annuisce. "Riposo, per tutti e due, ma lui—confinatelo a
letto per una
settimana, e non fatelo uscire fuori almeno per due—tranne
che, ovviamente, per
farlo andare a giocare nel mucchio della spazzatura. Gli
potrà fare solo bene."
Elsa
scuote la testa, quasi con un sorriso. "Hai
bisogno di essere accompagnato a casa?"
"Ero
qui prima che le prime persone scendessero
dal nord; prima di Arendelle, quando la terra era ombra, alberi e
oscurità; credo,
Vostra maestà," e gli occhi scintillano maliziosamente, "di
essere
capace di ritrovare la strada."
Salta
agilmente giù dal tavolo prima che lei se ne
renda anche conto, una scia di pietra che attraversa il pavimento
rotolando, e
lo guarda andare di volata dritto alla porta, e dice,
all’ultimo momento,
"Papi?"
Il
vecchio troll si riapre a metà. "Sì?"
"Grazie."
Inclina
la testa, e, col suono di una cascata di
ciottoli, oltrepassa le porte socchiuse della sala da pranzo. Sente gli
strilli
dei servi che, curiosi, si erano riuniti lì avanti, quando
passa in mezzo a
loro, e poi lo scalpiccio di questi quando si riposizionano davanti
alle porte.
Knut si avvicina a lei, espirando, imbambolato, "Non ho mai visto una
guarigione simile."
"Magia,"
sbadiglia, sentendo gli occhi
chiudersi. Quanta della propria, si chiede, ne aveva preso Papi?
"Dovremmo
portarvi tutti e due nelle camere da
letto…"
Non
riesce a sentire altro—a quel punto, è andata.
"Ma
che stai facendo? Ti stai sporcando tutto il
cappotto di sangue."
"Realismo,
fratello. Vale metà del gioco."
"Beh,
faresti meglio a muoverti. L’abbiamo
seminato scendendo dal fianco della montagna, ma non per molto, e
sospetto che
ci stia alle calcagna."
"Sì,
sì—ma ecco uno dei fatti della vita, fratello."
"Cioè?"
"Non
puoi affrettare un’opera d’arte."
"Alzati."
"Okay,
okay—dovrà bastare. Non c’è
bisogno che mi
trascini, Viktor."
"Monta
a cavallo."
"Proprio.
Beh, non puoi farti vedere da lui con
quella faccia—piega di più gli
angoli della bocca all’ingiù—di
più—come
se qualcuno di importante fosse appena morto. Ecco."
"Sta
zitto."
"Sei
sempre
stato senza speranze, in questa cosa della recitazione, non
è vero? Beh, io—aspetta.
Lo sento. Tieni la bocca chiusa, e lascia fare a me—Ohèè!
Quaggiù!
"L’abbiamo
trovata, quaggiù!"
Elsa
apre gli occhi.
Ha
il collo storto, la testa appoggiata al tavolo, e
sotto di essa un cuscino del colore dei narcisi in primavera. Gli occhi
incontrano il fuoco tremolante; è ancora in sala da pranzo.
Si tira su a sedere,
aggrotta le ciglia, e si pulisce un sottile rivolo di—di saliva?
Volta
la testa così in fretta che vede le stelle, ma no,
c’è solo Albert, sistemato
accanto a lei con due cuscini e una coperta. La porta è
socchiusa, le guardie
sono fuori, ma a parte loro, sono da soli.
La
propria coperta le scivola giù dal petto, e si
stropiccia gli occhi, e si sente in imbarazzo, e strana. Stringe le
mani a
pugno in grembo, giocando con i fili scuciti della stoffa blu scuro. La
sua
attenzione, concentrata sul fuoco, viene catturata da un movimento
accanto a
lei, e volta lentamente la testa, con cautela, con le ossa che ancora
le danno
la sensazione di essere fatte di vetro bianco, fragili quando fredde, e
liquide
col calore.
Albert
ha gli occhi mezzo aperti, il viso pallido, unto
di sudore. Muove la mano, pochissimo, sotto la coperta verde, e deve
essere
così scomodo, pensa, stare lì sul tavolo;
perché non l’avevano spostato? Improvvisamente,
e decisamente non secondo propria iniziativa, scopre una delle proprie
mani, da
che era stretta a pugno in grembo, tendersi e incontrare le punte delle
dita di
lui, che la cercavano. Sono così calde. Bruciano,
piacevolmente. Non si muove, non
gli stringe le mani, non gli afferra il braccio—lascia solo
che le loro dita
stiano lì, le une accanto alle altre. Lo guarda negli occhi,
e i suoi occhi le
ricordano solo Albert. Vuole chiedere, cosa è
successo, ma è stanca. Non
ci riesce. Non in quel momento.
Albert
inspira improvvisamente, guardandola con la
confusione chiaramente dipinta sul volto. "Tu non puoi essere lei,"
dice,
espirando, la voce debole, tremula. "No. Lei è molto, molto
lontana da me.
Lei danza tra la luce delle stelle. Credi," le chiede, gli occhi fuori
fuoco, "che avrebbe potuto amarmi?"
La
bocca di Elsa si spalanca, lentamente, ma non c’è
niente che possa rispondergli—niente che possa dire—
C’era
solo una persona a quel mondo che la amava. Non
riusciva immaginare altri—avvicinarsi, non considerata
la—non con la sua—
E’
salvata dai suoi occhi che si spalancano, la
confusione, per il momento, sparita. Lo sguardo di Albert incrocia il
suo con
lucidità allarmante, tempestivo, e cerca di tirarsi su a
sedere. "Stanno
architettando qualcosa, non so—cosa, o quando—"
smette di parlare e fa un
brusco respiro, afferrandosi lo stomaco, ed Elsa lo fa stendere di
nuovo, con
cautela.
"Andrà
tutto bene, Albert—"
"No,"
insiste, gli occhi fissi ed
enormi e incredibili, azzurro-verdi-nocciola-qualcosa, che la fissano
dalla
pelle scura per i lividi. La sua voce, quando parla di nuovo,
è più debole, ma
non meno urgente—"Sono venuti qui per te."
Elsa
sente le labbra tendersi, la schiena irrigidirsi.
Apre la bocca per rispondere, ma si ferma, perché si sente
una specie di
commozione provenire dalla sala d’ingresso. Sente le porte; e
poi delle grida; e
poi un urlo agghiacciante, ed è in quel momento che si alza
in piedi, così
veloce che il mondo vacilla pericolosamente,
l’oscurità che la minaccia, ai
margini del campo visivo. Cuscino e coperta scivolano sul pavimento.
E
tutto quello che riesce a pensare è ora
cosa
è successo, infastidita, e stanca, e
furiosa. Ora cosa è successo.
La
porta socchiusa viene spalancata di botto, e si
volta verso di essa, usando la sedia come sostegno, pronta ad
esclamare, severa,
lasciate che sia Kai a occuparsene, se non fosse per
il fatto che è
Kai, pallido come un fantasma, la bocca che si apre, si chiude, si
apre, si
chiude—
Quindi
naturalmente il battito cardiaco accelera—
Le
sue dita lasciano il calore di Albert.
"Vostra
maestà—fate in fretta, si tratta—si
tratta della Principessa Anna."
Fa
tre passi nell’ingresso e non riesce più a
proseguire. Le sue gambe stanno bene. Il suo corpo lavora come
dovrebbe—il
sangue gli pulsa nelle vene, vorticando come una specie di mulinello
attorno al
cuore. Ma tutto gli urla contro. Tre passi nell’ingresso, e
tutto urla di lei.
Quindi
cade in ginocchio e guarda la persona che tiene
stretta tra le braccia. C’è del sangue che scorre
dall’attaccatura dei capelli
al mento. Ferita alla testa, di nuovo, pensa, piuttosto istericamente.
Ferita
alla testa. C’erano incidenti e incidenti.
Due secondi, scivolata, e
andata. Tutto, andato. Tutto gli urla contro. Aggiusta il proprio
berretto
sulla testa di Anna, le era scivolato giù su un occhio. Rimani
al caldo,
pensa, ridacchiando quasi, si congela sempre da queste parti.
Ecco
perché sono migliori le renne. Questo,
proprio per questo.
Persone
urlano. Vuole dir loro di star zitte, ma si
accontenta di risistemarle il cappello, infilandole delle ciocche di
capelli
dietro le orecchie, contandole le lentiggini sul naso.
No.
No, Anna è meglio delle renne. Ti
prego svegliati, ti prego. Ti prego, Non posso più vivere da
solo. Non voglio
più vivere da solo.
Sente,
lontano, il suono di una porta che si apre. Passi
leggeri. A malapena se ne rende conto, perché è
troppo occupato a rivivere la
scena in mente—ti seguo a ruota, scivola,
cade,
salta—raggiungila—raggiungila—no—corri,
Sven—
E
i principi l’avevano trovata, cullata dalla neve
fresca, come se stesse dormendo. Dormendo. L’avevano
chiamato, e lui aveva
voluto provare a rianimarla, nel modo in cui sapeva che, a volte, si
poteva far
ripartire un cuore, perché non respirava,
ma era anche egoista, incredibilmente
egoista, e non voleva che l’ultima volta in cui avesse
toccato le sue labbra,
esse fossero state—quello—pelle
fredda, morta, non più Anna ma un corpo.
Un corpo che assomigliava ad Anna.
Ti
amo.
Passi
leggeri. Non si accorge della temperatura che
cala in picchiata nella stanza, ma lo fa, e di parecchio. Sulla soglia
del
castello riesce a sentire il calore, dietro di sé,
dell’aria estiva, e il gelo
dell’aria avanti a sé, ma registra la differenza
solo a malapena. Sta ancora
contando le lentiggini su un volto pallido.
"Cosa
è successo?"
Alza
lo sguardo. Ci mette un po’, ma ecco la regina
Elsa. Ha l’aria smunta, sotto gli occhi le ombre sbiadite
della mancanza di
sonno. Ha la schiena rigida come una tavola, pronta a spezzarsi in due.
La
guarda. Sa che deve dirlo, ma sa anche che nel momento in cui
l’avesse detto, sarebbe
diventato reale, quindi non vuole.
Ma
deve.
"Anna."
E’ tutto quello che riesce a dire. Gli
si spezza la voce, solo un po’, a dire il suo nome.
Elsa
lo guarda sbattendo le palpebre. Conta. Uno, due,
tre. Poi alza il mento definito, affilato come una lama di ghiaccio, e
guarda
dietro di lui.
Accade
così in fretta da meravigliarlo, da farlo
tremare—
Tutta
l’umidità nell’aria svanisce, lasciando
al suo
posto la sensazione della pelle scorticata, delle sue labbra; attorno a
lui,
essa si solidifica in un centinaio—no un migliaio
di piccoli cristalli
seghettati, le punte abbastanza affilate da trafiggere, e sono tutte
puntate
nella stessa direzione. Pensa, per un mezzo secondo, che siano dirette
verso di
lui, che questo attacco violento sia diretto a lui, e si lecca le
labbra e si
piega sul corpo tra le proprie braccia, come per proteggerlo, ma poi si
accorge
che sono puntate al di sopra della sua spalla. Dirette ai principi
delle Isole
del Sud.
"Datemi
un solo motivo," Elsa dice. Non l’ha
mai sentita parlare a quel modo. Gelida, rara furia. "Datemi un
solo
motivo—"
"Anna,"
Kristoff gracchia, sentendo il suo
corpo premuto contro il proprio. Immagina di sentire un lieve respiro,
lieve—ma
quando le preme l’orecchio sul petto e conta uno, due, tre,
quattro, cinque—sei,
sette—otto—
Niente.
Immagina.
Le
frecce di ghiaccio vacillano, poi si sciolgono a
mezz’aria, una pioggia d’acqua gelata che li bagna.
"E’ scivolata," riesce
a dire, asciugando una goccia sul viso di Anna, una che sembra una
lacrima.
"Colpa mia. Non sono stato attento. Mia. Colpa mia."
"Fuori,"
Elsa ordina. "Fuori tutti, immediatamente!"
Non
sa se obbediscono. Presume di sì, perché le porte
dietro di lui si richiudono. Elsa fa un passo, due, e poi eccola
inginocchiarsi
di fronte a lui, le braccia tese. Non vuole mollare la presa su Anna,
ma non è
più Anna. Non lo è. Non è
così?
Elsa
sta piangendo, ma in silenzio. Si sente appena. Tranne
per le parole—"Non colpa tua. Mia."
Guarda
sua sorella prenderla tra le braccia e cullarla
e stringere il corpo senza vita, premendo la propria fronte contro la
sua, facendo
scivolare un po’ via il cappello. E non lo sopporta. Non ci
riesce. Si alza di
scatto, automaticamente, e scappa attraversando le porte che danno sul
cortile.
Il sole è troppo luminoso, troppo accecante, anche se ormai
basso nel cielo. La
gente è silenziosa, e incerta, e ha lo sguardo fisso. Troppe
persone. Ringhia,
"Ma non ce l’avete un lavoro?" E cammina.
E continua a
camminare. Verso le stalle. Sente Sven trotterellare piano accanto a
lui. Apre
la porta. Entra.
Grida.
La
testa tra le mani.
Silenzio.
Si
sente lo scalpiccio di Olaf che scende le scale.
"C’è qualche problema?" chiede ad alta voce. "Ho
sentito un
sacco di gente—oh, ehi, Anna è tornata!" E scivola
davanti alle armature.
"Ehi, Anna, com’era—Anna?"
Elsa
stringe a sé la sorella, una mano corre frenetica
sul suo petto, e non riesce a fermare il singhiozzo continuo che esce
dal
proprio. Fronte contro fronte. Svegliati, Anna. E
sussurra, come una
preghiera, mentre Olaf si ferma accanto a lei con
un’espressione sconcertata, sussurra—
"…vogliamo
fare un pupazzo di neve?"
È
tutto quello che riesce a dire. E non è abbastanza.