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Autore: Esperanza97    11/07/2014    5 recensioni
Elena e Caroline, sono due ragazze normali, di giorno... Ma di notte, tutto cambia. Vengono costrette a fare cose che non vogliono e non possono ribellarsi, né fare nulla... Solo obbedire...
Ma può una notte cambiare il corso degli avvenimenti? Può cominciare una nuova vita, grazie a un semplice ragazzo? Ma sarà davvero così "semplice"?
N.B.Tutti Umani
Dal primo capitolo:
-Ve ne do tremila se la tua amichetta castana passa la notte con me e se tu la passi con il mio amico-
Caroline mi guardò sorridendo e strinse la mano al conducente dell'auto.

(Storia revisionata)
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Caroline Forbes, Damon Salvatore, Elena Gilbert, Klaus | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Mi scuso terribilmente per il ritardo, ma credetemi è stato un parto questo capitolo. Ho cancellato e riscritto quest'epilogo per un numero di volte che mi sembra infinito. La prima parte sono arrivata a scriverla alle due di notte sull'Ipod, pensate un po'! Spero comunque che vi piaccia. Ci ho messo tutta me stessa in questo capitolo, (più lungo degli altri) e nell'intera storia. I ringraziamenti alla fine. 
Baci,
Esperanza97

 
A winner_ , grazie mille per il tuo aiuto, tesoro! 


-Today My Life Begins.-
-Epilogue-
Two years later…
«Su Jane, dì “mamma”, è facile: “mam-ma”.»
I grandi occhi color ghiaccio di Jane mi fissavano, ma non osava proferire una sola parola. Ero spaventata. Mia madre mi aveva sempre detto che di solito, intorno al primo anno, i bambini iniziavano a chiamare i loro genitori “mamma e papà”. La mia prima parola era stata mamma e volevo insegnarla anche a mia figlia, ma era qualcosa di impossibile.
Jane non parlava, i suoi erano lamenti. Quando non si sentiva bene si toccava le parti che le facevano male per farsi capire da me. Nonostante tutto, l’amavo incondizionatamente. Lei e Celine erano l’unico ricordo che avevo di lui… di Damon Salvatore.
 
Vuoto. Rifiuto. Dolore.
Erano le uniche sensazioni che in quel momento provavo. Erano passati circa tre giorni dalla morte di Damon e io ancora non riuscivo ad accettarlo. Mangiavo poco e dormivo solo qualche ora, troppo spaventata di rivivere quella scena nei miei incubi.
Solo una cosa non tornava, né alla polizia né ai membri che facevano parte della squadra di mio zio John: il corpo di Damon era scomparso dalla scena del “delitto” assieme a mio zio.
 Chiesi delle spiegazioni a mio fratello Jeremy, che aveva deciso di restare con me vedendomi così scossa, ma anche lui non riusciva a capacitarsi di ciò.
 Quella fu l’ultima volta che parlai con qualcuno. Per circa un mese rimasi chiusa in me stessa. Tornai a mangiare ma solo quel poco che serviva per alimentare il figlio che non volevo perdere, sapendo che era frutto mio e di Damon, ma anche perché, dopotutto, me ne ero innamorata.
 Jeremy continuò a rimanermi vicino così come Klaus, ancora scioccato per la morte del migliore amico, Caroline, Alaric, Stefan e Celine… Quella povera bambina che aveva perso entrambi i genitori e non aveva più nessuno. Ci somigliavamo infondo.
Entrambe orfane, entrambe sole.
Decisi che quello non sarebbe stato il suo futuro e l’adottai come mia figlia.
Lei ne fu felicissima dato che eravamo già amiche. Sarebbe stato tutto  perfetto, però, se anche lui ci fosse stato.
 
Sospirai affranta mentre udii dei passi avvicinarsi alla mia camera.
Una chioma scura spuntò da dietro alla porta, sorridendo timidamente.
«Mamma…»
Sorrisi voltandomi verso quel piccolo angelo.
«Dimmi amore…» Celine aveva solo quattro anni ma era molto più sveglia di quanto avessi mai immaginato.
«Posso mettermi nel lettone con te e Jane?» Chiese con gli occhi lucidi.
«Certo.» Scesi dal letto e mi avvicinai alla porta. Mi abbassai all’altezza della piccola e sorridendole, la presi tra le mie braccia. «Non chiederlo, vieni e basta. Non pensare che solo perché sto con Jane, tu non debba esserci. Siete entrambe mie figlie, vi amo allo stesso modo. Siete la mia famiglia.» La portai sul mio letto e la misi accanto a Jane che continuava a fissarmi. Appena poggiai Celine sul letto, Jane gli si buttò addosso in cerca di coccole che non tardarono ad arrivare. Anche se nell’animo di tutte e tre mancava qualcosa, non potevamo lamentarci. Eravamo una bella famiglia, tutto sommato.
 
| Verso il crepuscolo|
 
Avevo lasciato le mie due bambine nella stanza dei giochi ed ero ritornata in camera mia. Appena chiusi la porta alle mie spalle mi lasciai cadere silenziosamente lungo di essa, sedendomi per terra sulla moquette dai toni chiari.
 
Jane sapeva di non avere un padre, gliene avevo parlato, forse sbagliando. Gli avevo detto che il papà era andato a fare una missione in cielo, ma che presto sarebbe tornato. Gli mostravo foto su foto, tutte datemi da Klaus e, oramai, sia per lei che per Celine era diventato uno zio acquisito.
La mia bambina guardava le foto attentamente, toccava la faccia del papà ma non diceva nulla. Il suo sguardo era assorto in quelle immagini.
 
Sapevo di aver fatto un guaio parlandogli del padre; ne ero ben consapevole, anche quando mi presentai nello studio del medico per capire come mai Jane ancora non dicesse una parola. Il dottore mi disse che poteva essere stato un trauma oppure la mia bambina non voleva ancora parlare ed era una cosa normale, rara ma normale. Mi consigliò di non insistere, che le cose sarebbero arrivate con il tempo. Era quello che continuavo a sperare.
 
Era ormai tarda sera, avevo messo Jane e Celine a letto, lavato i piatti e sistemato la casa. Mi piaceva, era un appartamento all’ultimo piano, affacciava sull’immenso e meraviglioso, anche in pieno inverno, mare di Atlantic City. Era un “regalo” di Stefan e Klaus. Non avevo mai voluto che spendessero soldi o comprassero una casa per me. Ma loro insistettero, convinti che dovevo avere il meglio. La casa era stupenda, ma vuota. Mancava sempre qualcosa, anzi, qualcuno.
 
Sospirai mentre mi avvolgevo nel caldo piumone e ripensavo a come la mia vita e quella dei miei amici era cambiata dopo la morte di Damon, ma soprattutto dopo la morte di Tyler. Caroline era libera, ma qualcosa aveva lasciato una piccola ferita aperta nel suo cuore. Tyler era stato il suo ragazzo, poi colui che l’aveva violentata e infine l’uomo, sempre se così si può definire una persona di questo genere, che l’aveva costretta a prostituirsi. La mia amica non aveva avuto il tempo di metabolizzare il tutto. Il dolore che provava non era mai stato espresso a parole, si era tenuta tutto dentro per tantissimo tempo. Riuscì a liberarsi di tutto solo poche ore dopo la morte di quel delinquente.
 
 
Erano le due di notte e nessuno riusciva a dormire.
Klaus aveva deciso di portare me e Caroline nella casa sua e di Damon. Aveva sbagliato, ma preferii non dirglielo. Appena entrata in quel salone ripensai a lui, al suo sorriso e ai suoi occhi. Ricordavo perfettamente dov’era la sua camera, salii le scale lentamente e vi entrai: era spaventosamente buia e ordinata.
Mi gettai sul suo letto con gli occhi ancora gonfi dalle lacrime, presi il suo cuscino e lo strinsi forte al petto. Per ore fu il silenzio a tenermi compagnia.

Guardai di nuovo l’orologio: 3.15
Anche il tempo era arrivato ad odiarmi. Non passava mai. Volevo che arrivassero subito le sette per tornare ad Atlantic City e assistere al suo funerale, anche se ero ben consapevole di non averne la forza.
All’improvviso sentii chiamare il mio nome a gran voce, un urlo spezzò il silenzio e i miei occhi si spalancarono di scatto, ma nessun muscolo del mio corpo volle muoversi da quella posizione.
«Elena! Elena!» Era la voce di Klaus.
Le braccia erano serrate attorno al cuscino, le gambe immobili sul letto: non riuscivo ad alzarmi, il dolore era troppo forte.
La porta della camera di Damon venne aperta di scatto, la luce penetrò in maniera troppo forte nella stanza.
Una figura corse verso il letto e si abbassò alla mia altezza.
«Elena, diamine! Mi serve il tuo aiuto!» Klaus era terrorizzato, gli urli continuavano in modo sempre più disperato, sentii anche dei singhiozzi. «C-Car-Caroline…» Klaus balbettava, il volto era imperlato di sudore, gli occhi pieni di lacrime e tremava. Si rese conto di ciò che gli stava succedendo e cercò di calmarsi, chiudendo gli occhi e deglutendo. «Elena, Caroline sta male. Ha cominciato a piangere, a urlare, si dimena per terra. Io ho provato a calmarla ma non so cosa fare perché continua. Ha bisogno di te, ti prego.» Il tuo tono era supplicante.
Apatia totale. Avevo percepito ciò che mi aveva detto Klaus. I miei occhi lo stavano osservando ma in realtà non lo vedevo. Sulle sue parole, il battito sempre più frenetico del mio cuore e quelle urla di dolore avevano avuto la meglio.
Klaus provò a scuotermi ancora, ma con scarso risultato.
Lo vidi alzarsi, mettersi una mano nei capelli, prendere il cellulare e chiamare qualcuno. Riuscii a sentire solo il nome: Stefan.
In pochi minuti quella casa sembrò diventare troppo piccola per tutte le persone che erano arrivate. Sentivo voci provenire dal corridoio, ma non mi alzavo, restavo lì, perfettamente immobile.
 
“«Signori, la ragazza avrà bisogno di tanto supporto. Sarebbe meglio se cominciaste a chiamare uno psicologo che la possa seguire in modo costante, almeno finché non si sarà ripresa. Vi lascio queste medicine, nel caso abbia un’altra crisi.»
«Grazie.» Riconobbi la voce di Klaus.
«Dottore, senta… ehm, c’è un’altra ragazza che non sta molto bene. Ha subito da poco un lutto e sembra voler rifiutare ogni cosa.» Stefan!
«Quando nella propria vita viene a mancare qualcuno che si è amato profondamente, è normale che si abbia una simile reazione. Per questa ragazza vi posso dare solo un consiglio, lasciatela stare un po’ da sola, non insistete nel farle fare determinate cose, ma tenetela comunque d’occhio, non si può mai sapere. Le persone hanno modi diversi di affrontare il dolore e voi ne avete due esempi in questa casa.»
«Grazie ancora dottore, ci è stato molto d’aiuto. Vi accompagno alla porta.» Di nuovo Klaus.”
 
Sentii i loro passi mentre scendevano e mi rilassai nuovamente.
La porta si aprii e un timido fascio di luce entrò nella stanza.
Chiusi gli occhi, fingendomi addormentata.
Una mano mi accarezzò i capelli, era fredda.
«Elena, non sai quanto mi dispiaccia…» Era la voce di Stefan. Era dispiaciuto e potevo sentire dal suo modo di parlare che aveva pianto.
 
In quel momento mi resi conto di due cose:
Numero uno: ero stata egoista a pensare che solo io potessi provare un dolore così forte. Non potevo immaginare cosa stava passando Stefan, che era suo fratello, e Klaus, suo migliore amico da sempre.
Numero due: ero una pessima amica per Caroline. Perché, a differenza di tutti, io avevo subito capito dai suoi urli, il motivo della sua disperazione. Perché? Semplicemente perché già sapevo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato.
 
| Il mattino dopo |
 
Spalancai gli occhi in modo brusco e mi portai a sedere sul letto velocemente.
Il sole filtrava dalle leggere tende color panna e il piumone che la sera prima mi aveva tenuta al caldo, ora si trovava ai piedi del letto in unico groviglio con le lenzuola.
Respiravo in modo affrettato, la fronte era imperlata di sudore e le mie mani tremavano.
 
Mi alzai dal letto e presi il bicchiere d’acqua che tenevo sopra al comodino, in caso di emergenza, bevendo tutto il contenuto in un solo sorso.
 
Non era possibile. Lo stesso incubo nel giro di una settimana. Ma più che un incubo, era un ricordo: la morte di Damon.
La cosa più strana era che il sogno terminava sempre allo stesso punto: Damon a terra che diceva che non stava morendo e mi suggeriva di stare tranquilla. L’incubo terminava con il suo “Ci sarò” e con tanto sangue che imbrattava le mie mani e il mio corpo.
 
Come le altre volte che avevo fatto questo incubo, mi guardai le mani.
Mi sembrava di vedere ancora il suo sangue su di esse. Era una cosa impossibile, lo sapevo. Ma era diventata una fissa. Andai in bagno, misi abbondante sapone su entrambi i palmi e mi sciacquai energicamente le mani. Legai nuovamente i miei capelli con l’elastico e mi lavai la faccia per togliere ogni traccia di sudore.
 
Sentii dei lamenti provenire dalla cameretta delle bambine. Lasciai la mia stanza in disordine e corsi da loro.
 
Aprii la porta e un fascio di luce mi accecò gli occhi.
Seduto sulla sedia a dondolo c’era Stefan. Ancora non mi capacitavo del fatto che quell’uomo avesse le chiavi di casa nostra.
Jane era tra le sue braccia tra veglia e sonno.
Celine, invece, giocava con una bambola sul letto.
 
«Stefan…? Che ci fai qui, a quest’ora?» Smise di cullare Jane che si era, nuovamente, addormentata.
«-Scusami. Non era mia intenzione disturbarti. Volevo venire più tardi ma, poi, beh…» Sembrava leggermente a disagio.
«Ehi, Stef, tranquillo. Ho capito. Devo ancora abituarmici…» Entrai nella stanza, presi il peluche a forma di orsacchiotto che era caduto a terra e lo rimisi nella culla di Jane.
«A cosa?» Si era alzato e, in modo molto dolce e delicato, aveva messo la piccola nella culla.
Scrollai le spalle. «A queste attenzioni, al fatto che tu venga a farmi compagnia quasi tutti i giorni, a questa casa. Nonostante siano passati due anni, mi sembra ancora tutto… beh, nuovo.»
Si passò una mano tra i capelli leggermente imbarazzato.
«So che forse il mio atteggiamento ti sembrerà strano, all’inizio neanche ti volevo! Ricordo ancora quando trovai te e Caroline a casa di Damon e Klaus. Ricordo che volevo uccidere mio fratello. Si era di nuovo cacciato nei guai. Volevo solo proteggerlo…»
Si interruppe improvvisamente e guardò un punto dietro alle mie spalle.
Mi voltai anche io e vidi Celine con il capo lievemente inclinato, guardarci attentamente.
Stefan si avvicinò ancora di più e mi sussurrò nell’orecchio: «Sarà meglio continuare il nostro discorso fuori.»
Scossi la testa e sorrisi.
«Ehi, Cely, ora ti vado a preparare la colazione e dopo andiamo a fare una passeggiata. Ti piace come programma?»
La piccola annuì e tornò dalla sua bambola, mentre io e Stefan ci dirigemmo in cucina.
 
Presi il cartone di latte dal frigo e ne versai un po’ in un pentolino per farlo riscaldare.
«Stef, non devi darmi nessuna spiegazione. Forse prima non capivo, ma ora, beh, dopo tutto quello che è successo, ti capisco perfettamente.» Ci fu un attimo di silenzio in cui nessuno dei due sapeva cosa dire.
«Sai perché vengo qui?» Fu lui a parlare per primo. «Le due bambine, Jane e Celine, sono entrambe mie nipoti e… mi ricordano tanto… lui.» L’ultima parola la disse quasi sussurrando.
Il mio cuore accelerò i battiti e i miei occhi si riempirono di lacrime.
Tremavo mentre versavo il latte nella tazza e aggiungevo un cucchiaino di Nesquik.
 
Il dolore per la perdita di Damon ancora devastava i nostri cuori. Il suo ricordo riempiva tutte le mie giornate. Il solo guardare Jane o Celine negli occhi mi faceva piangere. Spesso mi chiedevo perché una delle due non avesse preso qualcosa dalla madre e solo da lui. Si somigliavano in un modo impressionante. L’unica cosa che Jane aveva preso da me erano i lineamenti e i capelli castani. Di Rose conoscevo poco e niente e non potevo immaginare cosa provasse Celine, senza né madre, né padre. Fortunatamente era ancora piccola, ma mi chiedevo cosa sarebbe successo una volta cresciuta.
 
Celine mi voleva bene, me lo dimostrava ogni giorno. Ricordavo la volta in cui mi portò un disegno a casa. Mi disse che la maestra le aveva detto di disegnare la sua famiglia e lei aveva disegnato me con Jane e lei tra le mie braccia. A destra del foglio un prato verde e due pietre grigie con sopra scritto “mamma” e “papà” in una calligrafia un po’ distorta. A sinistra, invece, aveva disegnato Caroline e Klaus mano nella mano, entrambi sorridenti. A concludere il disegno c’era Stefan, disegnato quasi accanto al prato, anche a lui aveva fatto un grande sorriso. Aveva detto alla maestra che lei era fortunata perché la sua era una grande famiglia. La maestra conosceva bene la nostra situazione e quando l’andai a prendere all’asilo quel giorno mi disse che stavo svolgendo un ottimo lavoro con Celine: la bambina era felice. Mi consigliò, però, di smetterla di ricordargli che i genitori erano morti e di portarla sulle loro tombe.
 
Se da una parte fui felice per il complimento; d’altra parte, quelle ultime parole mi destabilizzarono. ‘Non ero una buona madre’, e fu questo il pensiero che mi accompagnò per il mese successivo, finché non decisi di accantonare la faccenda, nonostante continuassi a sentirmi in colpa ogni volta che portavo le mie piccole su quella tomba tristemente vuota.
 
|One month later|
 
Era ormai pieno inverno, il sole splendeva alto nel cielo ma le temperature erano piuttosto basse.
Infilai un cappellino a Jane che mi sorrise in segno di gratitudine, presi il giubbino, le chiavi e uscii di casa con Celine tutta allegra che chiamava l’ascensore.
Salutai la mia vicina di casa che stava annaffiando le piante nell’atrio. Era un’anziana molto amichevole, anche se aveva passato un periodo orribile a causa della morte di uno dei suoi tre figli. Ci rimasi male anche io. Ogni tanto la invitavo a casa mia e lei si divertiva a giocare con Celine e Jane.
 
Appena uscite mi resi conto di quanto fosse presto: non c’era quasi nessuno in strada.
Presi in braccio Jane che poggiò la sua testa nell’incavo del mio collo e presi la mano di Celine che la strinse subito.
 
Quello era un giorno importantissimo: era il compleanno di Jane. La mia piccola avrebbe compiuto due anni. Le avrei organizzato una piccola festa, preparato una torta e comprato qualche regalo. Era tutto organizzato: Caroline avrebbe addobbato la casa mentre eravamo via, Klaus si sarebbe occupato del cibo e Stefan avrebbe pensato agli invitati.
Io dovevo soltanto comprare la torta e tenere fuori di casa le mie due bambine per qualche ora, se non di più.
 
Percorsi quella strada che oramai avevo imparato a memoria. Jane, mentre era in braccio, si mise a giocare con una ciocca dei miei capelli. Sorrideva, e vederla in quello stato mi rendeva una madre felice.
 
Appena attraversammo il cancello del cimitero, Celine si staccò da me e corse verso un giovane uomo seduto sotto un albero con accanto diversi tipi di fiori.
 
«Signore! Può darmi una rosa bianca? Devo portarla a mio padre, è il suo compleanno oggi!» La mia bambina parlò con un tono molto dolce che fece sorridere l’uomo.
 
Sbiancai quando mi resi conto che lei sapeva.
Io e Caroline avevamo parlato spesso di come il destino si prendeva gioco di noi, facendo nascere Jane lo stesso giorno di Damon.
Non lo avevo detto alle piccole, ma probabilmente Celine aveva ascoltato qualche nostra conversazione e ne era venuta a conoscenza. Per quel poco che ne sapevo, Celine non aveva mai vissuto col padre quindi non sapeva molto della sua vita.
 
L’uomo porse la rosa alla mia piccola che ritornò subito da me.
«Mamma, paghi tu?» Mi domandò teneramente.
Sorrisi.
«Certo» Mi avvicinai anche io al signore. «Quanto le devo?» Chiesi, trovando un po’ di fatica nel prendere il portafoglio dalla borsa, dato che Jane stava ancora tra le mie braccia.
«Non si preoccupi, è un regalo.» Mi sorrise e nonostante insistetti più volte, non mi volle far pagare quel fiore.
 
Celine corse subito avanti, avvicinandosi alla tomba di Damon. Poggiò la rosa e accarezzò quella pietra che portava inciso il suo nome.
 
Feci scendere Jane dalle mie braccia e la piccola, con non poca difficoltà, posò una mano sulla pietra sorridendo.
La consapevolezza che quello che stavo facendo era un errore, si fece spazio dentro di me. Stavo sbagliando e avevo sbagliato.
Come potevo portare delle bambine su una tomba, per giunta vuota?
Davanti a quella lapide, promisi a me stessa che non le avrei più portate. Era giunto il momento di chiudere il capitolo “Damon”, almeno per loro. Per me sarebbe stato troppo difficile, sapevo di non potercela fare.
Una lacrima salata solcò la mia guancia.
Il mio cuore, già crepato, si frantumò ancora di più. Era un vuoto che non riuscivo a colmare, che mi stava uccidendo giorno e notte.
Sentii qualcuno tirarmi la maglietta. Aprii gli occhi e vidi Celine che cercava di chiamarmi tirandomi la maglia.
«Ehi, amore, dimmi.» Mi inginocchiai per raggiungere la sua altezza.
«Mamma… non trovo più Jane.»
Rimasi di sasso. Le mani iniziarono a tremare e i battiti del cuore aumentarono. Dov’era la mia bambina? Non poteva essere andata tanto lontano. Camminava, ma non velocemente. Avevo chiuso gli occhi solo un attimo e… e…
 
Mi alzai, presi Celine tra le mie braccia e cominciai a urlare il suo nome con l’ansia che mi attanagliava le viscere.
Dovevo trovarla, assolutamente. Corsi in diverse direzioni, entrai sempre di più nel cimitero e nella mia testa ringraziai che fosse giorno perché in mezzo a quegli alberi riuscivo a vedere poco e niente.
E poi la trovai; era ferma davanti a un albero con il suo completino azzurro e il cappello tra le mani.
Fissava l’albero e la sua espressione era seria.
 
Corsi, avvicinandomi a lei.
Mi inginocchiai e scoppiai in un pianto liberatorio. L’abbracciai, stringendola forte al mio petto. Sentii i passi di qualcuno ma non me ne importai.
Tremavo ancora e non riuscivo a calmarmi.
 
«Mamma…» Celine mi stava chiamando. Il suo tono era preoccupante. Mi staccai leggermente da Jane che ora sorrideva.
«Papà!» Il mondo mi crollò nuovamente addosso. Il sorriso che avevo fatto in risposta a quello di Jane scomparve e il vuoto nel mio petto si allargò a dismisura.
La prima parola della mia bambina, il giorno del suo secondo compleanno, era stata “papà”. Una parola alla quale non avrebbe avuto mai una risposta. Avrebbe chiamato un fantasma, una persona che non esisteva, suo padre.
 
Tentai di alzarmi ma una mano mi premette con forza sulla spalla e una scossa si propagò in tutto il mio corpo.
La mano era ferma, sicura.
Il mio cuore riprese a battere freneticamente. Deglutii.
La stessa mano scese lentamente sul mio petto, fermandosi all’altezza del cuore che ormai stava andando in tilt.
Riconobbi il suo profumo, su quelle dita vi era il suo anello, quello che gli aveva regalato sua madre quando era ancora un bambino.
Non era possibile.
«Elena…»
La sua voce.
Non poteva essere reale.
Mi voltai molto lentamente e lo vidi.
Altre lacrime percorsero il mio viso.
Non è reale, non è reale. Questo non è assolutamente reale. Continuavo a ripetermi nella speranza che questo fosse solo un sogno, che da un momento all’altro mi sarei svegliata; forse da un pianto di Jane o dall’odore del caffè preparato da Stefan.
Incontrai i suoi occhi color ghiaccio che mi guardavano con compassione.
Respiravo in modo affannato, ero sotto shock.
Lui era morto, tra le mie braccia. Avevo visto il sangue, i suoi occhi chiudersi, il suo corpo gelato.
Mi si appannò leggermente la vista.
«Elena, stai con me. Sono qui, sono reale.» Mi strinse la mano per cercare di riprendermi.
La sua voce. Era qui, era davanti a me. Ma non volevo accettarlo, mi sembrava fin troppo impossibile.
«Sei un fantasma?» Chiesi, con un tono di voce abbastanza basso.
Lui sorrise.
«No. Sono qui, in carne ed ossa.» Asciugai i miei occhi con la manica della maglietta e finalmente riuscii a mettere a fuoco la scena.
Damon era proprio lì. Davanti a me.
I suoi soliti capelli spettinati, i suoi occhi che mi rapivano, la sua bocca sulla quale mi ci sarei voluta fiondare in un attimo. Il suo abbigliamento, lo stesso di sempre: jeans scuro, maglia nera e giacca di pelle.
 
Jane, che fino a quel momento era rimasta in disparte con la sorella, si avvicinò a Damon.
«Papà!» Lui le sorrise e le accarezzò teneramente la guancia. Mi si strinse il cuore.
Damon posò il suo sguardo su di me.
«Lei è mia figlia, vero?» Io annuii, incapace di dire altro.
La strinse tra le sue braccia mentre Jane continuava a chiamarlo “papà”.
Mi voltai verso Celine che, rimasta in disparte, guardava la scena piangendo.
Damon seguì il mio sguardo e alzandosi a malapena dall’erba si avvicinò a Celine. Con le sue dita cercò di asciugare le lacrime di sua figlia.
«Papà…» Damon la prese tra le sue braccia e la strinse forte a se.
Jane intanto si era accucciata sul mio petto e sorrideva felice.
Era tutto un sogno, destinato a finire presto, me lo sentivo.
 
«Come hai fatto?» Chiesi improvvisamente, diventando seria.
Damon si voltò verso di me con uno sguardo interrogativo.
«Come hai fatto a sopravvivere? Tu sei morto tra le mie braccia. Non posso dimenticarlo. È una scena che rivivo ogni notte» Domandai cominciando a ragionare. «E perché, se eri sopravvissuto, ti presenti solo ora… dopo due anni?!» Il mio tono si stava alzando sempre di più; nonostante non volessi arrabbiarmi. Ma avevo bisogno di risposte, avevo vissuto per troppi anni nelle bugie.
Anche lui si fece serio e posò Celine sull’erba.
«Ehi, amore. Ho visto che prima parlavi con quel signore che vendeva i fiori. Perché tu e Jane non andate a parlare un po’ con lui? Mi sembrava piuttosto solo.»
Celine, che a differenza del padre era un po’ più sveglia, capì che la situazione non era delle migliori, prese la sorella e se ne andò.
«Senza offesa, ma la scusa che hai inventato faceva schifo. Spero che tu abbia una spiegazione migliore per me…» Dissi con tono serio.
Camminò verso di me e fu quando mosse le sue gambe che mi accorsi di una cosa: faceva fatica a camminare a causa della gamba sinistra, quella a cui Tyler aveva sparato, che era rigida come un tronco. Si appoggiò all’albero e lentamente si sedette, lo raggiunsi.
Faceva tremendamente male vederlo in quello stato, era sempre stato molto sciolto nei movimenti ed ora faceva perfino fatica a camminare.
Mi addolcii, ma non troppo.
 
«Come puoi vedere, non sono rimasto illeso dalla nostra avventura “passata”» Notai che il suo sguardo era rivolto ad un punto invisibile davanti ai suoi occhi. «Se non sono venuto prima, è per colpa di questa.» Si alzò lentamente la maglietta e subito notai che lì sul petto, all’altezza del cuore, c’era una fascia bianca.
«Tyler mi ha sparato, ma la pallottola non ha colpito nessun arteria importante. Certo, ci sono volute la bellezza di dodici ore per farmi vivere, però… »
Il suo tono calò di qualche ottava mentre si abbassava di nuovo la maglia. «Sono stato dodici ore in sala operatoria, in bilico tra la vita e la morte. Un passo falso e quel team di medici, che non smetterò mai di ringraziare, mi avrebbero ucciso. E, invece, sono qui; a distanza di due anni, a chiedermi qual è allora il mio destino, perché credimi io ero convinto di morire in quella “battaglia”.»
I suoi occhi incontrarono i miei e la sua mano percorse tutto il profilo della mia guancia. Poi la lasciò cadere sull’erba e si perse di nuovo nel suo racconto.
«Ma se c’era qualcuno che non mi avrebbe voluto veder morto, quello era tuo zio. Sapeva che la mia impulsività unita alla mia, come lui stesso l’ha definita “stupidaggine”, avrebbe avuto la meglio e perciò aveva un piano di riserva, armi di riserva e un chirurgo di riserva.
Sapeva che Tyler avrebbe sparato me o te, e già si era organizzato in campo medico, chiamando coloro che riteneva i migliori, e beh, è stato così.»
Abbozzò un lieve sorriso, i suoi occhi erano ancora più chiari e il vento leggero gli scompigliava i capelli.
«Quando mi sono risvegliato in ospedale, John era con me. Rimasi scioccato quando mi disse che ero rimasto in coma per due mesi. Disse che non si era arreso, perché era convinto che mi sarei risvegliato. La notizia scioccante fu sapere che non mi trovavo più ad Atlantic City, ma a Seattle. Mi disse che qualche giorno dopo avermi operato, mi avevano portato con un aereo fino a Seattle ed era un miracolo se ero sopravvissuto a tutto quel trambusto. Ero a otto ore di distanza da te, dall’altro capo dell’America ed ero fottutamente in ansia. John mi disse che nessuno sapeva che ero vivo, solo lui. Tu sapevi che io ero morto, e anche Stefan, Klaus, Alaric, tutti sapevano che non c’ero più, che Tyler mi aveva ucciso. Fu un sollievo scoprire che almeno quel grandissimo farabutto non era più sulla Terra, ma continuavo ad essere preoccupato.» Notai come il suo sguardo era desolato e poggiai la mia mano sulla sua, stringendola.
«Continua…» Lo incitai.
Sospirò, si passò la mano libera tra i capelli e proseguì con il suo racconto. «Restai in ospedale per altri due mesi. Anche se mi ero svegliato, non significava che ero fuori pericolo. Dovetti subire altri interventi, sia al cuore che alla gamba. Dopodiché John mi portò in una clinica di riabilitazione per la gamba che aveva perso ogni sensibilità e per altri problemi. Non mi diede mai il telefono, diceva che non avrei potuto chiamarti, che sarei tornato solo quando sarei stato meglio, che non voleva farmi rivivere un viaggio di otto ore nel mio stato. La cosa che mi permetteva di andare avanti era la speranza. La speranza che ti avrei rivisto e la speranza di vedere di nuovo Celine e di conoscere mia figlia. Speravo con tutto il cuore che Stefan e Alaric si prendessero cura di te e penso proprio che lo abbiano fatto. Non avrei voluto metterci tutto questo tempo, ma John voleva accertarsi che stessi veramente bene, infatti, prima di tornare qui, sono stato altri giorni in ospedale per diversi controlli.» Il suo sguardo si posò sulle nostre mani unite. Non mi resi conto che le lacrime avevano già bagnato il mio viso.
Posò i suoi occhi sui miei. «Elena, credimi, mi dispiace. Mi dispiace di non esserci stato per tutto questo tempo, mi dispiace di non averti chiamato, di non averti rassicurato, di non aver asciugato le tue lacrime… mi dispiace per tutto.» Una sola lacrima percorse il suo viso e non persi altro tempo, mi avvicinai ancora di più a lui e l’asciugai con le mie labbra. Notai il suo lieve stupore.
«Spero con tutto il cuore che tu non sia già andata avanti con la tua vita…» Sussurrò. Mi scansai leggermente.
«Come avrei potuto? Non ce l’avrei mai fatta ad andare avanti, Damon, perché ti amo e ti avrei sempre amato. Nessuno avrebbe potuto colmare il vuoto rimasto dentro di me. Avrei cercato all’infinito senza trovare nulla, ritrovandomi a settant’anni a piangere ancora su una tomba vuota.» Altre lacrime rigarono le mie guancia.
«Elena…» Il suo tono era così dispiaciuto. «Credimi, non so cosa fare per scusarmi, per rimediare a tutte le tue sofferenze…» Lo zittii, posando l’indice sulle sue labbra.
«Rimani qui. Resta con me. Per sempre…» Posai le mie labbra sulle sue e subito una sensazione di pace mi travolse. Le sue braccia si posarono sulla mia schiena mentre approfondiva il bacio. Con le dita strinsi i suoi capelli e lo spinsi sempre di più verso di me. Con delicatezza mi posò sull’erba, mettendosi sopra di me. Accarezzandomi la guancia, il collo, mentre io arpionavo il colletto della sua maglia.
 
«Mamma!»
Sobbalzammo entrambi e ci staccammo velocemente.
Celine teneva per mano una Jane sorridente. «Mamma, io e Jane vogliamo tornare a casa, tutti insieme.» Sapevo bene a cosa si riferiva dicendo “tutti”.
Io e Damon sorridemmo e ci alzammo, lui sempre lentamente. Mi si strinse il cuore e lui vedendo il mio dispiacere sorrise teneramente, accarezzandomi la guancia.
«Ora sto bene.»
Prese in braccio Jane che continuava a urlare “papà”. Era una gioia sentire la voce della mia bambina. Celine prese subito la mano di Damon e la strinse. Anche lei era felice.
Lo guardai e non potei fare a mano di piangere di nuovo, vedendo la mia famiglia tutta unita.
Ti amo, gli mimai con le labbra. Lui sorridendo mi rispose ad alta voce: «anche io.»
 
E insieme, come una famiglia, ci avviammo verso casa.
 
Mi ritrovai a ridere pensando che, forse, il destino non ce l’aveva con me, che, forse, non stava giocando. Tutto il dolore, tutte le sofferenze, tutte le lacrime servivano a prepararmi per questo, per la felicità. Serviva tutto a rendermi più forte, a darmi più coraggio e una spinta in più… Per cominciare a vivere






Angolino autrice: 
Okay, ora scoppio in lacrime. 
Dopo ben due anni, questa storia è finita. E se ripenso al fatto che ci ho messo due anni... beh, mi ammazzerei da sola. 
Come già spiegato all'inizio, è stato un po' difficile scrivere quest'epilogo, almeno i primi giorni; poi è andata meglio e sono riuscita a concludere questa storia. Mi sembra ancora impossibile. 
Ci sono stati alti e bassi, lo ammetto; e quando due settimane fa l'ho riletta, mi sono accorta di alcuni errori che avrei potuto evitare, motivo per cui revisionerò la storia. Voglio vederla finita e corretta, voglio esserne pienamente soddisfatta. E un po' già lo sono.
Per la mia felicità e la mia gioia, devo ringraziare voi che dopo due anni non mi avete abbandonata, che mi avete seguito passo dopo passo. 
Voglio ringraziare in modo speciale il mio tesoro: winner_ che mi ha aiutata in questo capitolo, betandolo, e che c'è sempre stata. 
Vorrei ringraziare: meiousetsuna, la mia migliore amica Claudieren_, Love Bites, warriorprincess, Sarah_Bartowsky, lucy stoker, nuccetta, OoO_Giulietta_OoO, Franceskiwi, Pipia, Delena forever, Morgana_94 e tutte le altre persone che hanno recensito (non metto tutti i nomi altrimenti non la finirei più :') ) 
Ringrazio le 69 persone che hanno messo la storia tra le preferite, le 25 tra le ricordate e le 153 tra le seguite. Vi ringrazio infinitamente. 
Penso che senza tutto questo supporto non ce l'avrei mai fatta! Grazie mille! 
Ora non abbandonerò il sito, ma, sotto consiglio della mia amica Giusy (A Sekai), prima scriverò una storia, completandola, e poi inizierò a pubblicarla, onde evitare di portare avanti una fanfiction per due anni :O 
In questo momento sto lavorando ad un'originale soprannaturale con la mia Claudieren_: Angst vor der Angst.
Vi aspetto anche qui ^^ 
Beh, vi saluto. 
Vi prometto che ci rivedremo in questo fandom. Spero molto presto. 
Grazie mille per tutto, siete state delle lettrici fantastiche! 
Un bacio enormissimo,
Esperanza97

 
  
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