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Autore: NotFadeAway    13/07/2014    4 recensioni
Antiche leggende narrano che le persone quando muoiono ritornano sulla terra, l'anima è la stessa, il corpo non più. Ma su sette miliardi di persone, che speranza c'è di ritrovarle?
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sherlock salì a grandi passi le scale di Baker Street.
Era passato un giorno, era uscito dall’ospedale per andare al funerale di John e non aveva più voluto tornarci. Lestrade si era rassegnato a scortarlo fino a casa.
Lo scrutò preoccupato dal pian terreno, scambiandosi un’occhiata con la signora Hudson, poi lo raggiunse al piano di sopra.
Sherlock si era tolto il cappotto e la sciarpa, e si stava infilando una vestaglia.
-Okay, tempo di mettere su un piano, John – disse, scrutando la parete con lo smile: era tutta coperta di carte e foto che riguardavano il loro matrimonio.
Lestrade mosse esitante un passo, con le mani nelle tasche dei pantaloni.
-Sherlock? Tutto bene? -
Ma il detective stava fissando il muro e non lo stava ascoltando.
-Meglio liberare il campo, prima – fece, tenendo un braccio e iniziando a strappare i fogli appesi alla parete.
L’ispettore di polizia sospirò, -Se hai bisogno di qualcosa chiamami. Non fare stupidaggini, sei ancora convalescente. – aggiunse, non ottenendo risposta si tirò su la cerniera del giubbotto, - Ciao, amico -
In meno di un minuto la carta da parati era di nuovo sgombra e brandelli di pagine ora ornavano il pavimento ed il divano, dove Sherlock era salito in piedi.
-Esattamente! Non posso iniziare a cercare te già da adesso. Se Angus ha le informazioni corrette, ora dovresti essere ancora nel primo stadio di gravidanza. Ma posso fare pratica nel frattempo... -
Si strofinò il mento con due dita.
-Intendo dire che devo scegliere un’altra persona da trovare, per valutare la difficoltà del compito… Certo, è logico con te sarà più facile, sei straordinario, ti troverò subito… Ma mi serve fare una prova… - scese dal divano, con uno svolazzo della vestaglia, si andò a sedere sulla poltrona. Rimase in silenzio per un po’, un silenzio carico di pensieri, - Trovato! John, ho trovato! Mio fratello, potrei iniziare a cercare mio fratello! – scattò in piedi e corse verso la porta.
-Non c’è tempo per spiegare ora! Devo fare una visita al caro vecchio Mycroft! – e agitando un mazzo di chiavi, si tolse la vestaglia e afferrò il cappotto.

Tornò a casa due ore più tardi, la sera iniziava a diventare notte. Ignorò il vassoio con la cena lasciato lì dalla Signora Hudson e sbatté sul tavolo un plico di fogli e cartelline.
Si sedette ed iniziò a sfogliare freneticamente il primo raccoglitore fino a quando non trovò un certificato che aveva l’aspetto di essere stato all’anagrafe per molti anni.
C’era spillata la foto di un ragazzo di circa vent’anni, capelli rossicci e ondulati, occhi azzurri, tratti armoniosi e contratti in un’espressione di serio rigore.
“Thomas Percival Holmes, n. Londra 10 maggio 1969 – m. Belgrado 21 febbraio 1992”
-Era nostro fratello più grande, è morto quando io ero ancora un bambino. Mycroft stravedeva per lui, poi si è ritrovato coinvolto in un incidente diplomatico in Jugoslavia ed è stato ucciso dalla polizia militare, non è stato possibile salvarlo. – spiegò Sherlock, - Ora, come puoi immaginare, anche lui era un genio, aveva una mente superiore alla mia e a quella di Mycroft, per cui, se è là fuori, non dovrebbe essere difficile da trovare -
Prese un’altra cartellina ed iniziò a sfogliarla.
-Non l’ho mai conosciuto bene, ma Mycroft ha tutto su di lui, ogni singola cosa, dal tema per la maestra delle elementari, alla sua tesi di laurea. Abbiamo disegni e brani scritti da lui. Tutte cose importanti, perché se non possiamo più affidarci all’aspetto, basterà capire come funzionava la sua anima, per rintracciarlo. – disse, appendendo alcuni fogli alla parete. – Sono d’accordo, hai ragione, John. Anche le foto sono importanti, un’espressione può essere la stessa di padre in figlio, quindi perché un’anima non potrebbe conservarla? Ho preso da Mycroft anche alcuni vecchi album di fotografie, li aveva catalogati in ordine di data in uno dei suoi archivi ossessivamente ordinati! – cogliere la possibilità di offendere Mycroft era sempre gradevole.

Per l’alba tutte i raccoglitori erano stati sondati, le informazioni contenute sfrondate e gli indizi preziosi appesi al muro.
Sherlock aveva uno sguardo un po’ allucinato, i capelli spettinati e oscillava leggermente in piedi sul divano.
-Okay, John. Queste era l’ultimo album di fotografie. Vedi, c’è un pattern: il sopracciglio destro alzato mi sembra una costante; ma anche il sorriso: non sorride mai nelle foto, guarda, neanche in queste in cui era più piccolo. La posizione che assumono le braccia è chiaro segno di sicurezza, anche se lo stato dei suoi capelli sembrerebbe tradire una certa insofferenza alle regole… Già, in questo io e lui siamo fratelli e Mycroft è un estraneo! Qui però ha arricciato le labbra, in quel modo che fai tu quando… -
In quel momento si voltò, forse aspettandosi di vedere la smorfia che aveva fatto Thomas in quella foto sulla faccia di John, e si ricordò di essere solo.
In un attimo si suo volto si oscurò, attraversato da un’espressione come di tradimento e si ritrovò a guardare per terra. I propri piedi stavano calpestando stralci di fogli con foto di fiori e orari di ricevimento del sarto. Per questo scese dal divano e andò a sedersi sul pavimento, tra i brandelli di carta.

La signora Hudson entrò in silenzio nell’appartamento di Sherlock, posò il vassoio con il pranzo sul tavolo e raccolse quello della sera prima: intonso.
-Ho fatto un elenco dei paesi da ricercare questa mattina, John – lo sentì dire ad alta voce, si sporse con cautela verso il soggiorno: il detective era seduto davanti al computer, - Oggi scansioneremo l’America Latina, per fortuna conosco sia lo spagnolo che il portoghese. Se si è distinto, lo ritroveremo nella lista degli individui monitorati dal governo, a meno che non faccia parte del governo stesso. Solita routine, sai cosa fare -
Rassegnata al fatto che non l’avrebbe ascoltata, Mrs Hudson rinunciò a parlargli e ritornò di sotto.

-Come sta? – chiese la signora Turner, che la aspettava in cucina.
-Come al solito: lavora e sono giorni che non tocca cibo. Marie, non so cosa fare – disse con la vocina tremolante, soffocando un singhiozzo.
-Martha, è passata solo una settimana. Lui ha bisogno di tempo -
La signora Hudson si soffiò il naso. – Il fatto è che non l’ho mai neanche sentito piangere, non è normale. Dovrebbe concedersi di sfogarsi. E invece… -
-Ognuno reagisce a modo suo, cara. Quando mia madre è morta, io ero molto giovane, e ho lavorato all’uncinetto per un mese, per giorni interi! Era luglio, io scappavo nel campo dei vicini la mattina e ritornavo la sera, con una nuova sciarpa o un nuovo cappello. Neanche io mangiavo e neanche io passavo le giornate a piangere. Siamo fatti così! -
-Vorrei solo abbracciarlo, capisci… Per fagli capire che gli sono vicina, ma lui non credo voglia… - sospirò, - Non so mai che fare per Sherlock -
-Tempo, Martha, dagli tempo -


“Sto venendo a trovarti. Ho bisogno di parlare” -MH
Sherlock sbuffò davanti allo schermo del cellualare.
-SIGNORA HUDSON, MIO FRATELLO STA VENENDO QUI, BARRICHI LA PORTA E NON LO FACCIA ENTRARE! – gridò al vento, senza neanche affacciarsi sul pianerottolo.
-Meglio che non sappia di questa nostra piccola ricerca, John. Allora! – batté le mani, fregandosele, - Dov’eravamo? Sud-Est asiatico, giusto. Ci rimangono le Filippine e Hong-Kong! -

Dieci minuti dopo un’auto nera si fermò davanti al 221B, Sherlock roteò gli occhi, spazientito, e si affrettò a coprire la parete con un telo come meglio poté.
Mycroft entrò in salotto una manciata di secondi più tardi.
-Ti avevo detto di non venire -
-Eppure eccomi qui -
Sherlock gli stava davanti, per impedirgli di addentrarsi ulteriormente nella stanza.
-Bene, sei venuto, mi hai visto, mi hai parlato, puoi andare -
Mycroft fece un sorriso sgradevole.
-Non è di questo che dovevamo parlare, Sherlock, ma della cosa che evidentemente mi stai nascondendo – disse, indirizzando con lo sguardo la parete coperta.
-In tal caso non ti riguarda -
-Mi riguarda se spariscono i dossier su Thomas – ribatté.
Sherlock sostenne lo sguardo inquisitore del fratello.
-La mia risposta non cambia: non è affar tuo -
-Ma per favore! Mi sono arrivate almeno una decina di e-mail: qualcuno sta usando il mio nome per accedere ai database governativi di stati in tutto il mondo! Cosa-stai-combinando? -
-E’ una questione privata – scandì Sherlock.
-Non più ormai. Non se utilizzi il mio nominativo -
-E’ una questione tra me e John – concluse, il nome del defunto partner riecheggiò nella stanza.
Mycroft sembrò decidere di allentare la presa, fece un passo indietro.
-Ti do un mese, poi questa storia deve finire -




Sherlock si svegliò di soprassalto, si era addormentato sulla scrivania con la testa china sulla tastiera del portatile di John. La faccia era investita dalla luce bianca che proveniva dallo schermo.
C’era una sola pagina web aperta sul desktop.

“Una visita in ospedale”

Eh già, avete letto bene, ma non è quello che pensate! Non siamo andati in ospedale per risolvere uno dei nostri casi (anche se Sherlock ci ha provato), ma ci siamo finiti come pazienti. Sherlock è stato così furbo da farsi accoltellare al petto, ma non vi preoccupate, il detective è più in forma del solito, riesce sempre a farsi saltare i punti e non sta mai un momento fermo. Il sottoscritto, invece, è stato investito da una macchina, mentre andava a trovare il proprio fidanzato in ospedale. Il personale medico mi ha accolto con gioia, perché, indovinate un po’… Sherlock stava rivoluzionando tutto il reparto, ma che dico? Tutto l’ospedale! Ha persino… No, forse non dovrei dirlo… Lo terrò come minaccia la prossima volta che non vorrà fare qualcosa, eh eh! Comunque, dovremmo ritornare a casa abbastanza presto e riprenderemo la nostra attività! Meglio che ritorni a fare da guardia carceraria, Sherlock si sta svegliando.
A presto.



Sherlock alzò lo sguardo e si ritrovò di nuovo a leggere l’ultimo post sul blog di John Watson. Di nuovo sentì il petto fargli male e le lacrime bruciargli gli occhi. Chiuse il computer di John e lo prese con sé. Mosse pochi passi nel buio delle tre del mattino e si andò ad infilare nella poltrona rossa. Rannicchiandosi come un bambino attorno a quel portatile, pianse fino ad addormentarsi.

-Oggi con l’Oceania abbiamo finito, John – esclamò Sherlock, guardando soddisfatto il muro coperto di scartoffie, - Centoventicinque possibili candidati al posto di nuovo fratello Holmes, non male! E tutto con sole due settimane di lavoro -
Andò a sedersi vicino al pc, - Ora dobbiamo approfondire le ricerche e concentrarci su di loro, vorrei andare a colpo sicuro… Sì, è logico che ci andrò a parlare, devo essere certo che il caso sia risolto. No, forse non mi crederà, John, ma mai escludere un’ipotesi senza averla sondata -


Una settimana dopo era tutto pronto: James Kalahari, origine indiana, trasferitosi negli Stati Uniti per assolvere incarichi governativi all’ambasciata. Studente modello, mente geniale, stesso sopracciglio alzato anche nelle foto ufficiali. Non c’era nessun dubbio che fosse lui.
- Stasera usciamo per festeggiare, John. Ho già chiamato Angelo, ha il nostro solito tavolo! È una grande, grande giornata! Caro fratellino, stiamo venendo a prenderti. -

Mezz’ora dopo uscì di casa tutto entusiasta, chiacchierando con John del perché non poteva che essere lui. Era preso così preso dal discorso che non notò le persone che lo guardavano preoccupate per strada. Non era importante, d’altra parte, perché lui aveva trovato l’anima di suo fratello tra altri 7 miliardi. Aveva scovato il più piccolo ago nel più grande pagliaio della terra! Stava dicendo questo, quando gli venne in mente quanto John fosse bello, la sua immagine gli balenò nella testa, lo faceva a volte, ma quando si voltò per dirglielo, si ricordò che lui non c’era.
Girò sui tacchi e tornò a casa.

Un biglietto per Washington DC fu prenotato per la settimana successiva in total segreto. Un secondo biglietto si aggiunse nel momento in cui Mycroft notò la faccenda e affidò a Lestrade di seguirlo.
-Non ho bisogno di una babysitter, Mycroft – si lamentò Sherlock, - Non sono un bambino -
Sherlock “Non sono un bambino” Holmes, infatti, non cercò di dissuadere il fratello dal pedinarlo fino negli Stati Uniti facendogli esplodere il microonde, né facendogli trovare un’appetitosa torta con delle unghie umane estirpate da cadavere in ogni strato, né tanto meno gli cosparse il cuscino di bile, accertandosi di lasciare la cistifellea ben in vista. Non fece per nulla queste e alcune altre cose che avrebbero decisamente fatto ricredere il fratello sulla sua età mentale.
Lestrade partì con lui.

-Devi controllarlo in ogni momento, Greg. Non devi mai perderlo d’occhio. I filmati e le mie fonti non hanno riportato nessun episodio di utilizzo di droghe, ma sappiamo bene quanto la situazione sia delicata – spiegò Mycroft, mentre accendeva il computer, un video venne riportato sullo schermo.
-Quella è Baker Street! -
-Sì, e questi sono il salotto, la camera da letto, la cucina e il bagno… Dovrei avere anche la tromba delle scale… Eccola! -
Lestrade si voltò a guardare Mycroft.
-Hai messo delle telecamere nella casa di tuo fratello?! -
-Misure straordinarie tristemente necessarie. Ma non è questo il punto. Dalle registrazioni si può dedurre che in qualche modo sta cercando nostro fratello maggiore, deceduto molti anni fa. Sembrerebbe alla ricerca della sua anima reincarnata – aggiunse, scettico.
L’ispettore di polizia si raddrizzò, stupito. – Sherlock? Non è possibile! -
Mycroft annuì – No, infatti. Ora capisci perché sono preoccupato? O ci ha lasciato una falsa pista e ci sta nascondendo qualcosa, oppure ci crede veramente e la cosa mi inquieta ancora di più. Non devi perderlo di  vista – concluse, scandendo le ultime parole.


Per quando salirono a bordo dell’aereo, Sherlock sembrava essersi rassegnato alla compagnia di Lestrade e aveva smesso di elencare scomode verità riguardo al detective in pubblico.
-Si allacci la cintura di sicurezza, per favore – fece la hostess.
-Lo sa che una volta lui ha scambiato un ragazzo addormentato per un morto e lo ha fatto imbustare, è stato quasi incriminato per tentato omicidio, dopo! Ah, è un poliziotto -
Beh, si era quasi rassegnato.
Molti aneddoti dopo, finalmente si addormentò.
Lestrade si chiese da quanto tempo non dormisse: poteva vedere delle occhiaie profonde segnare come cicatrici la pelle chiara dell’amico.
Mentre dormiva si accorse che sotto la giacca non indossava solo una camicia, ma un maglione, blu e rosso.


L’aria frizzante della primavera di Washington DC riempì i loro polmoni. Con due piccoli trolley i due uomini si districarono tra la folla in cerca di un taxi.
Sherlock ne intercettò uno e gli indicò l’indirizzo.
-Cosa? Non passiamo in albergo prima? – domandò Lestrade.
-Tu passi in albergo, Gabe, io non ho tempo da perdere – rispose Sherlock, passandogli la valigia. Lestrade la spinse via.
-Non se ne parla, devo venire con te. Non posso lasciarti andare da solo, Mycroft… -
-Non è quello che risolve tutti i tuoi casi senza prendersi il merito – concluse l’altro, interrompendolo.
-Sherlock, andiamo! Non fare il bambino, ho fatto una promessa a tuo fratello! -
-Le vostre questioni di coppia non mi riguardano – si infilò nel taxi,  - Come le mie non dovrebbero riguardare voi. Questa è una cosa tra me e John. Parta pure -
L’ispettore di polizia non poté che restare sulla pensilina, con due valige e un bel problema tra le mani, a guardare l’auto gialla sfilare via.
Si avvicinò ad un altro taxi e considerò tutte le opzioni: tra “Segua quella macchina!” e  “Vada alla tavola calda più vicina” la seconda sembrava molto più allettante.

Ambasciata indiana non era altri che un nome altisonante per “grande palazzo bianco con troppe finestre”. Sherlock lo scrutò disinteressato e proseguì su per la scalinata, scortato da una guardia.
Entrarono in una hall sfarzosa, con statue di marmo e colonne che fingevano di provenire dall’Antica Grecia, cosa che non aveva alcun senso data la natura di quel consolato. A quanto pare tutto quel bianco e quelle linee precise conferivano un rigore rassicurante.
Dietro ad un bancone di legno, diversi assistenti in tailleur grigio si davano da fare dietro a strati di carte.
-Salve, ha un appuntamento? – chiese una donna. Venticinque anni, sposata, un figlio, indesiderato, insoddisfatta, amante del baseball, frequentatrice di musical.
-Sì, ho richiesto un colloquio per le undici con il signor James Kalahari – rispose, guardandosi discretamente intorno.
-Un momento che controllo… -
L’uomo che lavorava al suo fianco era il suo amante. Single, cantante, laureato in ingegneria informatica, ottimo tiratore.
-Sì, il suo appuntamento risulta in agenda. Si accomodi in sala d’attesa, la verranno a chiamare tra qualche minuto… - disse, indicandogli una stanza alla sua destra.
La guardia che lo aveva scortato sin lì (repubblicano, anti-LGBTQA, ecologista) se ne andò e lui rimase solo ad attendere.
La sala d’aspetto, come la hall, si distaccava completamente da tutti i luoghi comuni sulla cultura indiana, amalgamandosi perfettamente con la cultura occidentale. Quell’edificio fingeva di avere un’età e una storia che in realtà non erano vere, come d’altronde faceva l’assistente che lo venne a prelevare.
Sherlock dedusse un’altra decina di persone sulla via dell’ufficio del suo ex fratello e solo quando arrivò davanti alla porta si rese conto di non sapere cosa dire.
Per un attimo, prima di entrare, pensò alla possibilità di essersi sbagliato, ma non ebbe il tempo di lasciarsi prendere dall’insicurezza, perché la vista dell’interno dell’ufficio di Kalahari deponeva già a suo favore. Finalmente qualcosa che usciva dall’estremo rigore e ordine di quell’edificio: la stanza era piccola e affollata, c’erano carte posate su qualsiasi superficie orizzontale (pavimento compreso), libri aperti e più e più segnalibri in ciascuno ad imbottirne le pagine; sulla scrivania c’era una lampada fioca rivolta verso il soffitto, ma accesa, e una colonia di elefanti d’argento che trattenevano diversi fogli dal volare via. Nessuna cornice o fotografie, solo un piccolo attestato di stima che pendeva dalla scrivania, come fosse stato impiccato, appeso ad un cordoncino per tende. Sherlock sentì una certa affinità con quell’ambiente.
James Kalahari non si alzò, ma restò seduto a finire di compilare un modulo, facendo segno al nuovo arrivato di accomodarsi.
Sherlock guardò stupido quello che senza alcun dubbio una volta era stato suo fratello.
-Mi scusi, salve, documento urgente. Dio, odio questa giornata! – fece quello, dopo un paio di minuti, - Allora, lei ha chiesto di vedermi. Di norma non accetto incontri senza conoscerne l’oggetto, ma ho avuto una calda rassicurazione da Mycroft Holmes e come andare contro la sua parola! -
Sherlock notò una nota di amaro sarcasmo in quelle ultime parole e non poté fare a meno di sentire una certa sintonia con l’uomo dall’altra parte della scrivania.
-Allora? Veniamo al punto? -
Sherlock per un attimo esitò. Avrebbe potuto uscire tranquillamente da quella stanza senza dire niente a Kalahari di quello che aveva scoperto. Sentiva nella sua testa le parole che si preparavano ad uscire come stupide e irragionevoli, ma, d’altra parte, aveva ben poco da perdere e a lui non interessava minimamente ciò che la gente pensava. Tenne quest’ultimo pensiero bene in mente.
-Sono venuto qui a titolo personale per informarla di una cosa che le sembrerà assurda, ma che è senz’altro vera -
-Non esistono cose assurde, solo cose possibili e cose impossibili. Staremo a vedere la sua in quale categoria rientra – rispose, versandosi una tazza di caffè da una pentola, - Gradisce? -
Sherlock declinò l’offerta e riprese.
-Io sono un consulente investigativo e recentemente mi è saltato all’occhio che alcune costanti ritornano nelle persone che camminano su questa terra nel corso della storia. Ho pensato che si trattasse di coincidenza, ma, vede, quando uno fa il mio mestiere da tanti anni le coincidenze iniziano a diventare un evento poco credibile. Non credo alle coincidenze, signor Kalahari. -
-Nemmeno io – convenne, - Vada avanti -
-E qui viene la parte a cui lei, statisticamente, non crederà: quelle che sono universalmente conosciute come anime ritornano sulla terra in altri corpi dopo la morte -
L’indiano quasi si affogò con il caffè, in uno sbuffo di risa.
-Ma che razza di scherzo è questo? Vado via dall’India per fuggire a queste superstizioni di cui mi hanno imbottito la testa sin da bambino e poi un inglese mi viene a fare la predica induista? – esclamò, improvvisamente spazientito, - Non mi faccia perdere tempo, se ne vada! -
Sherlock decise di osare ulteriormente.
-E se io le dicessi che so chi era nella sua vita passata? -
-Io chiamerei la sicurezza e la farei sbattere fuori. -
-Thomas Percival Holmes. Questo era il suo nome. Era il fratello maggiore mio e di Mycroft Holmes – aggiunse comunque Sherlock.
-Wow! E lei è stato così dolce da venirmi a cercare persino in un'altra vita! Questo sì che è amore fraterno! Ma a me bastano già le mie sei sorelle! Sicurezza! – aveva già il dito premuto sull’interfono.
Prima di essere portato via da un energumeno di origini ghanesi, appassionato di calcio, collezionista di fumetti d’epoca, Sherlock si appurò di lasciare un piccolo dossier su Thomas sulla scrivania di Kalahari, poi fu strattonato sin nella hall.


-Vedo che mi hai fatto la grazia di ritornare sano e salvo. Devo andare a chiamare la narcotici o posso stare sicuro? – fece Lestrade, steso sul letto, quando Sherlock entrò nella camera d’albergo.
-Che cosa ci fai qui? – protestò, togliendosi il cappotto.
-Ci dormo. È la mia stanza -
-No. E’ la mia stanza -
Lestrade si alzò a sedere.
-Esatto! È la stanza di entrambi. Un idea del tuo caro fratello: devo dormire con te, che Dio mi aiuti! -
Sherlock si inoltrò nella camera notando la presenza di due letti.
-Non se ne parla. Vattene. -
L’ispettore di polizia afferrò un pacchetto di carta dal fondo unto, ne tirò fuori una ciambella.
-Andiamo! Faremo due chiacchiere tra ragazze, ci faremo le treccine, parleremo dell’ultimo film di Johnny Depp, sarà divertente! -
Per tutta risposta Sherlock afferrò un asciugamano e si infilò nel bagno, sbattendosi la porta alle spalle.
-Vedi di uscirne vestito! Non ho nessuna intenzione di vedere i tuoi gioielli! – mugugnò Lestrade, con la bocca impastata di glassa alla fragola.


Sherlock si era rannicchiato nella poltrona e fissava fuori dalla finestra. Avvolto nella sua vestaglia sembrava piccolo piccolo.
Con la coda dell’occhio vide Lestrade posare una bottiglia di Scotch e due bicchieri su un tavolino di legno e poi sedersi sulla panchetta vicino.
-Non è andata bene? La cosa che dovevi fare oggi, intendo -
-Cosa del mio comportamento ti ha fatto pensare che io abbia voglia di parlare, Gareth? -
-Solo perché tu non vuoi parlare non significa che tu non ne abbia bisogno -
Sherlock si raddrizzò spazientito.
-Hai intenzione di continuare a trattarmi come una vecchia vedova? -
Lestrade riempì un bicchiere, poi l’altro.
-Il punto è, Sherlock, che tu sei una vecchia vedova -
Il detective si voltò di scatto, stizzito.
-E questa è la tua soluzione? Farmi ubriacare e consolarmi mentre piango sulla tua spalla? -
Gli porse lo scotch.
-E’ la cosa più semplice per entrambi, il piano è quello -
Sherlock esaminò per un attimo il bicchiere prima di decidersi ad afferrarlo.
-Lo vedi, è per questo che io detesto le emozioni… Alla fine sono sempre costretto a dare ragione a mio fratello – disse sprezzante, bevendo tutto d’un sorso.
Lestrade si appoggiò con la schiena al muro, guardando fuori. Era una serata luminosa.
-Alla fine ha sempre ragione – ripeté, lo sguardo si perdeva nel aria buia che lo separava dal mondo oltre la finestra..
L’ispettore gli riempì ancora il bicchiere.
-Vuoi sapere dove sono stato oggi? A parlare con l’anima di mio fratello reincarnata nel corpo di un diplomatico indiano. Io! – esclamò. - Guarda cosa le emozioni hanno fatto a me! Sono completamente uscito di senno! Penso seriamente che questa storia sia vera! – svuotò il secondo bicchiere, - E’ come la storia del paradiso, anche se la gente non crede in Dio pensa lo stesso che ci sia un posto con le nuvolette dove vivranno per sempre! È la stessa cosa: io non credo che questa storia delle anime sia vera, ma al tempo stesso devo crederci, Lestrade! –
-Sherlock, non è una cosa sbagliata. È umano… -
-No. E’ irrazionale! Le persone hanno creato Dio, il Paradiso e l’Inferno per semplificarsi l’unica vita che hanno. Perché hanno paura di morire e perché hanno bisogno di credere in qualcosa! Questo non è ragionevole! Non è logico! Sono tutti degli idioti che si inventano delle storielle per tirare avanti, come dei bambini! -
-E ora tu sei uno di noi – aggiunse Lestrade.
Sherlock bevve un sorso, gli occhi spenti.
-Sì, Lestrade, ora sono uno di voi. – convenne, con il tono sconfitto, - Ma io ho ragione -
L’uomo si lasciò sfuggire uno sbuffo di risata, - Tutti credono di averla! – disse, alzando il bicchiere, come in un brindisi immaginario.
-No, tutti sperano di avere ragione. Nel mio caso è diverso, io so di avere ragione! -
Lestrade posò il bicchiere e fece un gesto di resa.
-Okay, come vuoi tu. Le anime si reincarnano… Chissà chi sono stato in passato… -
Ma Sherlock non gli rispose, si era ammutolito, con le labbra posate sul bordo del bicchiere. Si lasciò dietro un silenzio pesante, che durò troppo a lungo.
-Mi manca John – disse, dal nulla. Finalmente riuscì a formulare ad alta voce quel concetto che lo stava corrodendo dentro da settimane.
Lestrade abbassò lo sguardo di fronte all’improvvisa gracilità dell’amico.
-Lo so – mormorò.
Sherlock si alzò di scatto.
-Dove vai? – chiese Lestrade, confuso.
-A dormire. Basta così -
L’ispettore si versò l’ultimo bicchiere in solitudine, impotente di fronte alla tragedia in cinque atti che si stava svolgendo dentro Sherlock Holmes.



Il 221B di Baker Street era buio e non aveva niente che potesse essere ricollegato al concetto di casa, tutto era così familiare e intimamente legato a John. Quell’appartamento si era ribellato contro il suo inquilino, tradendolo brutalmente. Adesso era solo un posto freddo e deserto da cui fuggire.
Sherlock spinse la valigia dentro e si richiuse subito la porta alle spalle. Davanti al legno nero del 221B, si stagliava una figura confusa con le ombre distese tra le pozze di luce dei lampioni. Si alzò il bavero, sentendo comunque il vento annunciatore di pioggia gelargli le orecchie. Si incamminò.
Se fino ad allora non aveva avuto un crollo era stato per quel caso, il caso di Thomas Percival Holmes. Aveva sentito di essere impegnato in qualcosa di utile. Ma ora qualsiasi cosa che esulasse dalla ricerca di John gli sembrava senza senso, vuota, priva di scopo.
Camminava nella Londra deserta della notte, a quell’ora c’erano solo le ombre del senzatetto. Lasciava che il vento freddo gli spazzasse via le lacrime.
La cosa che più lo atterriva era il futuro adesso. Aveva almeno vent’anni da trascorrere prima che potesse iniziare a cercare John, e non aveva idea di cosa avrebbe fatto. Adesso sentiva soltanto che tutto faceva male e lui aveva una possibilità di farlo smettere.
Svoltò l’angolo ancora e ancora. Entrò nei vicoli.

-Molly Hooper? Sono Mycroft Holmes. Sono terribilmente dispiaciuto di svegliarla nel cuore della notte, ma, vede, Sherlock non è rientrato a casa. È senza dubbio a rischio. Ora lui si trova a Roswell St. secondo le mie telecamere, ma è in avanzamento. Lo segua -

Quell’attesa. Vent’anni. Era la cosa più ambigua difronte alla quale si fosse mai trovato. Era come il colesterolo nelle membrane delle cellule, non si capisce come, ma ne mantiene la fluidità e la rigidità al tempo stesso. O per dirla in maniera più romantica, come avrebbe fatto John, era al tempo stesso un àncora e un galleggiante.
Trovò il posto che stava cercando, fece un cenno al bifolco davanti alla porta ed entrò.

Molly si proiettò di corsa fuori dal letto, infilandosi un cappotto direttamente sopra al pigiama. Non perse altro tempo, scarpe ai piedi, uscì.

Guardò lo schizzò zampillare dalla siringa quando premette lo stantuffo per fare uscire l’aria, una minuscola goccia scivolò sull’ago. Il liquido opaco e biancastro aveva un aspetto invitante alla luce fioca di quello scantinato.
Avvicinò l’ago al braccio, al punto dove la vena cefalica e la vena basilica convergono, e lo infilò.
John non avrebbe voluto. John non voleva neanche che fumasse, ma John non poteva prevedere quello che sarebbe successo.
Da solo, in quella catapecchia, aspettò che la morfina facesse il suo effetto.

Scese diversi piani di scale nel suo palazzo mentale, molto in basso, c’era un posto identico al 221B. Aprì la porta spingendola e salì le scale, sentiva qualcuno digitare al computer.
Si sfilò la sciarpa prima di entrare nel salotto, poi il cappotto, alla scrivania c’era John, seduto davanti al suo computer.
-Stavo scrivendo dell’ultimo caso che abbiamo… -
Ma Sherlock non gli diede ascolto, gli andò in contro, piangeva. John si alzò di istinto e sherlock lo abbracciò. Lo colse di contraccolpo, John si vide togliere l’aria dal petto e smise di parlare. Sherlock strinse John più forte che poté prima di iniziare a baciarlo. Gli aveva preso la faccia tra le mani, sentendo la sua pelle calda, e lo aveva baciato sulla bocca. Sentiva il suo odore, si ricordava com’era il tocco delle sue labbra, la barba sempre ben rasata, le guance sempre lisce. Le sue mani scesero, gli accarezzarono le spalle, poi la schiena, così poteva stringerlo di nuovo e ancora di più. Il tocco della lana intrecciata sotto le sue dita. Le sue dita andarono ancora più giù e trovarono quelle di John. Sentì di nuovo le sue mani, piccole e forti, di un caldo colore della pelle. Strinse anche quelle. E lo baciò ancora. E ancora. E ancora.
Erano da settimane che non andava in quella stanza. Non era mai riuscito ad entrarci. E ora era lì, con John, il suo John, quello che lui ricordava perfettamente in ogni dettaglio, e ogni cosa era così confusa, perché la morfina copriva il dolore e tutto sembrava come prima.
John gli posò le mani sulle guance, vicino alle orecchie e tra i capelli, fermandolo. Sherlock restò aggrappato al maglione di John, lo guardava negli occhi e sentiva le lacrime scendere e bagnare il palmo di lui.
-Non piangere – mormorò.
Sherlock si infilò con la testa nell’incavo del collo di John.
-Ti amo. – gemé.
La voce di John nel suo orecchio, - Anche io ti amo -
Con la mano sulla nuca di Sherlock, gli carezzò dolcemente la testa, affondando il naso tra i suoi ricci.
-E’ come hai detto tu. Ci ritroveremo, tu mi verrai a cercare -
Sherlock annuì senza sollevare la testa, era una grottesca figura appoggiata ad un piccolo uomo.
-Ma devo aspettare tanto tempo. Io ho bisogno di te ora -
John continuava ad accarezzarlo, strisciò la propria guancia contro di lui.
-Lo so, ma tu potrai venire qui quando vorrai, e ci saranno molti bei casi, che poi mi racconterai! – aveva una voce dolce, che accarezzava l’udito di Sherlock.
Sherlock si sollevò piano, lo guardò e lo baciò di nuovo.



-Sherlock! Oh mio dio, Sherlock! -
Molly Hooper si precipitò verso l’uomo nell’angolo della cantina. Era accasciato su una parete, né seduto, né steso. Si chinò su di lui, si tranquillizzò non appena vide che respirava. Aveva gli occhi chiusi e stava piangendo in silenzio, erano solo lacrime silenziose quelle che gli scendevano sulle guance, nulla che non potesse essere confuso con gocce di pioggia.
Gli controllò il polso, accelerato e irregolare; vide la siringa con l’ago pizzicato di sangue posata vicino a lui, e si abbandonò in un gesto di frustrazione.
-Sherlock, - lo scosse, - Sono Molly. Andiamo a casa -


 
   
 
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