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Autore: SofiaAmundsen    14/07/2014    13 recensioni
La verità è che Sherlock non vuole vederlo morire.
Non così, con tutte le parole non dette, i baci non dati, i sospiri non soffocati, le carezze non regalate.
È su quella sedia di plastica, che gli hanno imposto a forza, da ore. C’è voluto Greg per farlo sedere, dopo averlo visto camminare tutto il giorno per la piccola stanza di ospedale e insultare chiunque entrasse a controllare i parametri di John. O anche solo ad assicurarsi che Sherlock non lo riportasse a Baker Street in spalla.

John è gravemente malato e Sherlock non perderà la sua ultima occasione di dirgli cosa prova.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La verità è che Sherlock non vuole vederlo morire.
Non così, con tutte le parole non dette, i baci non dati, i sospiri non soffocati, le carezze non regalate.
 
È su quella sedia di plastica, che gli hanno imposto a forza, da ore. C’è voluto Greg per farlo sedere, dopo averlo visto camminare tutto il giorno per la piccola stanza di ospedale e insultare chiunque entrasse a controllare i parametri di John. O anche solo ad assicurarsi che Sherlock non lo riportasse a Baker Street in spalla.
 
Sherlock guarda John ancora e ancora constata quant’è dimagrito. Sembra l’ombra di sé stesso. L’uomo forte e coraggioso, il soldato che ha conosciuto sembra essere stato divorato e sostituito con quell’essere fragile che ora dorme un sonno inquieto su quel letto così poco familiare, così alienante. La pelle è tirata intorno alle labbra e sotto gli zigomi, le occhiaie profonde sembrano non poter essere più scure di così, le rughe sono ormai solchi che lo fanno apparire dieci, venti anni più vecchio.
 
Sembra passata una vita intera da quando John ha iniziato a sentirsi poco bene, da quando ha fatto quei maledetti controlli e ha confessato a Sherlock di avere un cancro. Maligno. Allo stadio terminale.
 
Invece è passato solo un anno. Un anno che alcuni medici ritengono un miracolo della medicina, considerando che a John non sono stati dati più di sei mesi dal momento della diagnosi.
Sherlock, che l’ha accompagnato a tutte le chemio, che l’ha aiutato ad alzarsi tutte le volte che, dopo aver vomitato per ore, non ne aveva la forza, che lo ha imboccato e costretto a mangiare cibo triste e liquido, che l’ha visto dormire due giorni di seguito dopo le terapie, si chiede con rabbia come sia possibile definire quell’anno un miracolo.
 
John è morto lentamente ogni giorno in quell’anno e Sherlock con lui.
 
Ma le terapie sembrano essere andate nel verso giusto. Il tumore si è ridotto considerevolmente, tanto da mettere i medici nella posizione di considerare l’asportazione.
Un interevento rischioso, con meno del cinquanta per cento di garanzie di un esito positivo e una percentuale di morte che Sherlock preferisce non ricordare a sé stesso.
 
Quello che più l’ha stupito, è stato che i dottori siano venuti da lui per discuterne i rischi, non da John. Loro due non hanno alcun tipo di relazione valida legalmente, quindi i moduli del consenso li dovrà comunque firmare John, ma i medici hanno parlato prima con lui, come se l’unica vera opinione importante sulla sua vita sia quella di Sherlock.
 
Pensano forse che ci sia più di un’amicizia tra loro?
 
Sherlock ci ha pensato a lungo, ma poi è arrivato alla conclusione che volevano solo qualcuno che addolcisse la pillola a John e Sherlock è effettivamente l’unico disponibile. Harry chiama di tanto in tanto da quando John ha deciso di comunicarle che sta morendo, tre mesi dopo averlo scoperto. Quando non è troppo ubriaca, manda anche dei dolci con il corriere, ma è successo solo una o due volte. Greg viene ogni giorno dopo il lavoro. Le prime volte, in ospedale, ha provato a fare conversazione anche con Sherlock, ma lui l’ha zittito e Greg ha capito. John, invece, si dimostra ancora disponibile a scherzare e fare dell’ironia, nonostante il suo aspetto infonda tutto tranne che buon umore. Molly si è dimostrata adorabile, come c’era da aspettarsi. La signora Hudson le aveva fatto avere una copia  delle chiavi dell’appartamento, dopo aver aperto più di una volta la porta per trovarsi davanti una ragazza carica di contenitori pieni e indecisa se suonare o meno.
 
Così a casa c’è sempre cibo, il latte è sempre fresco nel frigo e la cucina ha quasi un aspetto decente. È stata abbastanza sveglia da capire che sia Sherlock che John avrebbero trovato invadente e umiliante se si fosse messa a pulire e rovistare nelle loro stanze e nel bagno, così ha assunto una ragazza giovane e discreta che pulisce la casa mentre Sherlock e John sono in ospedale per le chemio o a fare quelle rare passeggiate in cui fingono che niente di tutto ciò si accaduto, finché John non sembra esausto e Sherlock decide quindi di essere stanco dei borbottii della gente comune.
 
 
 
 
 
Prima dell’intervento si guardano negli occhi come non lo hanno mai fatto prima. Si guardano così a lungo e in un silenzio così profondo che da fuori potrebbe sembrare che non abbiano niente da dirsi.
 
In realtà, si stanno dicendo tutto.
 
Quando arriva il momento e gli infermieri vengono a prendere John per prepararlo, Sherlock ha un nodo in gola così grande che si preoccupa davvero di non riuscire a nasconderlo a John. Di non riuscire a dirgli addio, se ce ne fosse bisogno.
 
Ma non ce n’è.
 
Mentre l’infermiere assicura la flebo all’albero mobile perché non cada, John guarda Sherlock, con gli occhi lucidi per la malattia, un sorriso malinconico e sereno allo stesso tempo, e dice semplicemente:
 
«Tornerò.»
 
Sherlock sente il groppo in gola stringersi ancora di più, ma si sforza di sorridere.
 
«Lo so.» dice quando il letto di John inizia a scivolare verso la porta, appena in tempo perché lo senta.
 
 
 
 
 
Ora potrei anche piangere, pensa Sherlock quando la stanza è vuota da diversi minuti ormai.
Ma non lo fa. Non ci riesce. Si limita a coprirsi gli occhi con le mani e massaggiarsi la faccia. C’è tutto il suo dolore in quel gesto, ma nessuno può vederlo.
 
«Mr. Holmes.»
 
Si sente chiamare e sobbalza.
 
È il chirurgo che opererà John, una dottoressa con gli occhi a mandorla, i capelli scuri e fluenti, l’espressione seria e l’aria gelida di una donna che ha dedicato la vita al lavoro e ne è stata premiata.
 
«Dottoressa Yang.» dice Sherlock, alzandosi e sperando di avere l’aspetto più indifferente possibile. Non vuole essere trattato come i familiari dei pazienti che ha visto tante volte in questo ultimo anno.
 
«So che gliene è già stato parlato, ma voglio essere chiara. Non posso assicurarle niente. Aprirò John e deciderò solo in quel momento, sul tavolo operatorio, se il tumore sarà asportabile o no.
Nel caso valga la pena provare, i rischi di dover rinunciare o di decesso sono molto alti. Se invece il tumore sarà ancora troppo grande, dovrò richiudere e a John resteranno pochi mesi. Il suo fisico non può sopportare altre chemio, non ora. Ci sono stati casi in cui il paziente ha resistito abbastanza tempo da poter cominciare un altro ciclo, ma sono rari. John ha già vissuto più di quanto ci saremmo aspettati, quindi deve essere pronto a ogni evenienza.»
 
«Perché mi sta dicendo questo?»
 
«Perché John è la sua persona. E lei la sua. Non voglio che muoia senza che entrambi ne siate consapevoli, l’ho già visto succedere troppe volte. Quindi mi impegnerò per tenerlo in vita.»
Detto questo, gira sui tacchi e se ne va, con lo sguardo di Sherlock che segue l’ondeggiare del camice.
 

 

L’esito dell’intervento lo si potrebbe analizzare da due diversi punti di vista, uno positivo, l’altro negativo.
 
John non è morto.
Non è stato possibile rimuovere il tumore.
 
Positivo è forse un termine troppo grande e soprattutto un termine da non usare davanti a Sherlock, visto che ha quasi rotto il naso dello specializzando in chirurgia che ha avuto la sfortuna di dirlo.
 
Tale specializzando è ancora fuori a cercare di fermare il flusso di sangue che esce dal suo naso, quando John da i primi segni di coscienza, alcune ore dopo l’operazione.
 
Deve battere le ciglia diverse volte  per mettere a fuoco la situazione, la stanza intorno a sé, quello che è successo e nonostante questo si sente ancora molto confuso. Si sente più al sicuro quando inquadra Sherlock che lo guarda, aspettando pazientemente che si riprenda.
 
John gli regala un sorriso stanco che gli costa uno sforzo enorme, ma non lo da a vedere.
 
«Mr. Holmes.» dice con la voce roca ma tinta d’ironia.
 
«Sherlock, please.» risponde l’altro e, per la prima volta, dopo un anno in cui non ha mai dato accenno alla minima insofferenza davanti a John, la sua voce si incrina e rivela il groppo in gola che è stato lì per tutto quel tempo.
 
È come sentire un vaso di vetro che cade a terra e si frantuma in mille pezzi.
 
«Non ce l’hanno fatta, vero?»  chiede John, ma è una domanda retorica. Gli occhi di Sherlock che si riempiono di lacrime trattenute parlano da soli.
 
La voce di Sherlock è ormai il suono otturato di un pianto che non si concederà.
 
«Te l’ho detto che sono degli idioti» risponde, anche se sanno tutti e due quanto crede nelle capacità della dottoressa Yang.
 
Ridono entrambi, una risata gutturale in cui Sherlock tira su con il naso e ne approfitta per ricomporsi.
 
«Possiamo tornare a Baker Street» dice Sherlock e omette la parte che martella nella sua testa: qui non possono fare più niente per te, per noi.
 
«Non vedo l’ora» risponde John e poi nessuno parla più, ma si guardano ancora qualche minuto, prima di accorgersi che le loro mani sono finite intrecciate senza che nessuno dei due lo notasse.
 

 

  Quando tornano a casa, sembra quasi tutto tornato alla normalità.
Sherlock accetta persino un caso, a patto che possa lavorarci da Baker Street. Quando un’indagine sul campo diventa irrimandabile, John lo incoraggia ad andare con la promessa che sarà lì ad aspettarlo quando tornerà.
 
Sherlock sa quanto vale quella promessa. Soprattutto sa che John potrebbe non mantenerla.
Quando torna, John è ancora lì. Si è addormentato sul divano. Ultimamente è sempre così stanco che Sherlock si sente esasperato da quella spossatezza, come se dovesse sopportarla lui.
 
Effettivamente, stanno sopportando tutto insieme, fianco a fianco, senza mai osare andare oltre, senza mai tirarsi indietro.
 
Sherlock si piega per prendere John di peso e portarlo a letto: ormai è così leggero che può farlo senza sforzarsi troppo. Ma John si sveglia prima, lo guarda e accenna un sorriso, poi si fa enfaticamente serio.
 
«Ho mantenuto la promessa, dove sono i miei waffle di ringraziamento?» chiede e parlare sembra costargli uno sforzo immenso.
 
Sherlock sorride prima di rispondere. «Oh, li ho dimenticati!» fa un’espressione esageratamente rammaricata «Colpa di Anderson, mi ha distratto con le sue chiacchiere inutili» scherza.
John si alza da solo dal divano, lentamente, ma quando si mette in piedi le gambe gli cedono e rischia di cadere a terra. Sherlock è lì pronto ad afferrarlo al volo. Gli mette un braccio intorno alle proprie spalle e insieme si avviano verso la camera che una volta era di Sherlock.
 
È di entrambi da parecchio, ormai. Non l’hanno deciso, semplicemente Sherlock l’ha offerta a John una di quelle sere, come questa, in cui anche solo camminare era stancante. Poi ha trovato naturale stendersi accanto a lui, assicurarsi che respirasse, fino ad addormentarsi per qualche ora.
Nessuno dei due fa domande, nessuno dei due lo trova strano: semplicemente, condividono il letto e si prendono cura l’uno dell’altro.
 
 
 
 
Un giorno in cui John si sente particolarmente energico e di buon umore va da Sherlock, chino sulle foto di un cadavere, e gli parla all’improvviso da dietro le spalle, con l’intento di farlo sussultare.
 
«Credo che uscirò un po’.» dice più ad alta voce di quanto avrebbe fatto normalmente.
 
I sensi di Sherlock sono troppo acuti perché lui cada in un trucchetto del genere.
 
«Vengo con te. Aspetta un’ora.» risponde con calma, senza voltarsi.
 
John, infastidito forse dal non essere riuscito a spaventarlo, assume un tono nervoso.
 
«Sono capace di uscire anche da solo, grazie
 
«Non lo metto in dubbio,» ribatte Sherlock «mi preoccupa più che tu incontri qualche altra ragazza da illudere. Non penso di poter sopportare l’ennesima scenata.»
 
«Si da il caso che tu sia la causa della maggior parte delle scenate!» contesta John puntando il dito contro le spalle curve dell’altro.
 
«Se le tue ragazze non sopportano un po’ di competizione non è certo colpa mia» dice e continua a sfogliare foto.
 
John si ferma e lo guarda accigliato.
 
«Competizione?» chiede incredulo.
 
Anche il tempo si ferma. Sherlock realizza di aver detto quella parola senza pensarci troppo.
Perché l’ha detta?
In ogni caso decide che dissimulare è la scelta migliore.
 
«Già, deve essere terribile per loro sentirsi tanto minacciate dalla mia bellezza.» scherza e si volta giusto in tempo per prendere in faccia il cuscino che John gli sta lanciando.
La sua faccia sorpresa e offesa deve essere la cosa più divertente del mondo perché John deve appoggiarsi al bastone per quanto sta ridendo.
 
«Idiota» lo appella John, ancora ridendo. «Va bene, ti aspetto, ne approfitto per fare una doccia. Ma muoviti e… togli quelle foto dal tavolo.»
 
«Mando degli sms per questo caso e mi vesto» risponde, con un angolo delle labbra piegato verso l’alto.
 
 
 
 
 
Quando Sherlock ferma un taxi con una mano, John lo guarda sorpreso e contrariato.
 
«Credevo che avremmo fatto una passeggiata» protesta.
 
«Ho altri piani» risponde Sherlock, guardando il taxi che accosta.
 
John sbuffa con rabbia. «Oh, certo, l’importante sono i tuoi piani. Chi se ne frega se magari io volevo fare altro! Sai cosa? Vai pure a seguire i tuoi piani, io vado a fare due passi!»
 
Prima che John possa girarsi del tutto, Sherlock gli afferra un braccio e aspetta che si volti. Lo guarda con l’immensità dei suoi occhi azzurri e John per un attimo dimentica tutto, perché si era arrabbiato, chi è, da dove viene, cosa sta facendo.
 
«Fidati di me.» dice semplicemente Sherlock.
 
Si guardano in modo così intenso, con così tante domande negli occhi, che il tassista non osa lamentarsi per l’attesa. Alla fine, John cede e sale nell’auto.
 
«Non fare quella faccia» intima a Sherlock mentre anche lui sale.
 
«Quale faccia?»
 
«Quel sorrisetto soddisfatto che fai quando ottieni quello che vuoi.»
 
«Io non lo faccio.»
 
«Sì invece.»
 
E entrambi ridono senza un motivo apparente.
 
 
 
 
 
 
John non riconosce l’indirizzo quando Sherlock lo dice al tassista e non si premura di chiedere dove stanno andando, visto che probabilmente sarebbe inutile. Ma quando il taxi si ferma è tutto più che evidente.
 
«La pista di pattinaggio?» chiede John, fissando Sherlock allarmato, che però evita il suo sguardo.
 
«È per un caso» si limita a rispondere e paga il tassista.
 
Quando arrivano davanti all’entrata, John si sorprende che non ci sia fila. Rimane ancora più scioccato quando il ragazzo alla porta fa un cenno con la testa, mormora un «Mr. Holmes» e li lascia passare senza pagare.
 
Lo sguardo interrogativo che John rivolge a Sherlock viene del tutto ignorato.
 
Sherlock è abbastanza attento da camminare piano, così che John possa stare al suo passo, ma non troppo, così che non si accorga del fatto che lo sta aspettando. Ma comunque John sarebbe troppo impegnato a cercare di capire cosa sta succedendo in quel momento, per notare quel dettaglio.
 
La pista di pattinaggio è completamente vuota. Ed è davvero strano, perché a quell’ora del pomeriggio e in quel periodo dell’anno di solito è anche difficile trovare posto. Tutta la lastra di ghiaccio è buia, così come gli spalti. Solo i corridoi accanto alla pista, quelli in cui le persone si tolgono le scarpe e si preparano a infilare i pattini, sono illuminati.
 
«Ma cosa…?» comincia a chiedere John, ma non sa neanche lui in realtà cosa vorrebbe chiedere.

«Non sforzare troppo il tuo cervello John, è inutile. Oltre che fastidioso.» commenta Sherlock mentre si siede su una delle panche e inizia a sciogliere i nodi alle scarpe.

John apre bocca per ribattere, ma decide di lasciar perdere e si avvicina a Sherlock.

«Che stai facendo?» chiede.

«So che le tue capacità deduttive non sono delle migliori, ma pensavo che fin qui potessi arrivarci anche tu. Mi tolgo le scarpe per mettere i pattini.»

Solo allora John nota due paia di pattini appoggiati a terra. Qualcosa lo induce a pensare che siano esattamente delle loro misure.

«Siamo venuti qui per pattinare

Più che una domanda, è un’esclamazione di stupore e rimprovero.

«È una pista di pattinaggio sul ghiaccio, nel caso non l’avessi notato.» risponde Sherlock, che ormai ha finito di togliersi le scarpe.

«Avevi detto che era per un caso.» continua John.

«È per un esperimento, per l’esattezza. Ora, se potessi mettere i pattini anche tu, non perderemmo altro tempo.»

«Ma le luci della pista sono spente!» protesta John indicando la penombra con un gesto della mano.

«Fidati di me.»

«È la seconda volta che lo dici oggi.»

«La prima volta ti sei fidato, non vedo perché dovresti cambiare idea. È faticoso, non trovi?» dice Sherlock con una faccia da schiaffi così fastidiosa che se John non tenesse a lui così tanto, probabilmente lo prenderebbe a pugni seduta stante. Di nuovo.
Ma decide che sedersi e iniziare a togliersi le scarpe è forse la cosa migliore.
 
 
Al momento di entrare in pista, John ha i suoi dubbi. Sherlock è già dentro e lo sta aspettando a pochi centimetri dall’entrata, facendo dei piccoli movimenti per tenersi in equilibrio. John ne invidia terribilmente l’eleganza innata.

«Sei sicuro che sia una buona idea?» chiede e in quella domanda ne è sottointesa un’altra: sei sicuro che le mie gambe reggeranno?

Sherlock tende entrambe le mani a John e lo guarda con gli occhi blu più rassicuranti che siano mai stati visti.

«Fidati di me.» dice piano, di nuovo, ma questa volta ha un suono completamente diverso. Come se fosse qualcosa di epico, qualcosa destinato a cambiare la storia, ma anche qualcosa di discreto, di sussurrato, un segreto intimo tra due amanti.
John allunga le braccia e mette le proprie mani in quelle di Sherlock.
In quel momento, sente la musica. Le note iniziano a diffondersi in tutto l’ambiente e per un momento pensa di averlo immaginato, poi riconosce la canzone: I’ll stand by you.
 
Perché sei cosi triste?
Lacrime nei tuoi occhi
Vieni e vieni da me ora

 
Come guidati dalla musica iniziano a pattinare, girando in tondo, con le mani dell’uno in quelle dell’altre, senza smettere mai di guardarsi negli occhi.
 
Non vergognarti di piangere
Lascia che ti guardi dentro
Perché io ho vissuto
Anche la parte oscura

 
Solo allora John si accorge dei due coni di luce sopra di loro, uno per Sherlock, uno per lui. Guarda in alto, ne individua vagamente la fonte e poi torna a guardare Sherlock interrogativo, ma non chiede niente, perché sa che la risposta sarebbe fidati di me.
 
Quando la notte scende su di te
Non sai cosa fare
 
John si volta su un lato, lasciando una mano di Sherlock e tenendo ben salda l’altra. Con una naturale calma e intimità, girano intorno alla pista, senza allontanarsi troppo dal bordo, con la luce che segue le loro figure. Non si dicono nulla, ascoltano ammirati la musica e si fanno guidare reciprocamente, come se ci fosse una linea invisibile da seguire. Tutto, improvvisamente, comincia ad acquistare un senso. Un senso completamente al di fuori di qualsiasi logica, spazio e tempo ma con la sua mano in quella di Sherlock e il suo viso che taglia l’aria gelida, si sente improvvisamente come se la sua vita fosse stata creata per quel momento.
 
Niente che mi confessi
Può fare in modo
Che ti ami di meno

 
Nel momento in cui la musica si alza di’intensità, Sherlock interrompe il loro andare rassicurante e trascina John al centro della pista. I due coni di luce formano un unico cerchio sul ghiaccio.
Gli occhi cristallini di Sherlock in quelli limpidi di John.
C’è qualcosa da dire, lo sentono entrambi, ma nessuno dei due parla mentre il ritornello della canzone risuona intorno a loro.
 
Voglio stare con te
voglio stare con te
non voglio lasciare
che nessuno ti ferisca
voglio stare con te

 
La musica si abbassa di tonalità e volume. Sherlock si morde un labbro, poi emette un sussurro. John potrebbe anche non sentirlo, potrebbe anche lasciare che le note vaghe in sottofondo lo coprano, ma tutto il suo corpo lo sente, ogni cellula del suo corpo percepisce quel sussurro.

«Ti amo.» dice Sherlock in quel sussurro.

E sembra qualcosa di così naturale che John non deve neanche pensarci prima di rispondere.

«Anche io.»

Nessuno dei due bacia l’altro, è qualcosa di condiviso. Come se fosse scritto che in quel momento le loro labbra si sarebbero incontrate.
Si avvicinano e in quel bacio c’è tutto quello che hanno passato insieme, tutte le volte che si sono amati senza saperlo, tutte le volte che lo sapevano e non l’hanno detto, tutte le volte che si sono aiutati a vicenda, che si sono salvati reciprocamente dall’oscurità.
Il sapore di Sherlock nella propria bocca è la cosa più bella che John abbia mai provato. Il suo calore così vicino, quelle labbra così perfette, il respiro affannato. Vorrebbe vivere di quel momento, della propria mano che affonda nei riccioli, di come si tengono in equilibrio a vicenda.
Sherlock non avrebbe neanche mai potuto immaginare qualcosa del genere. Vivere, mangiare, dormire con John è quanto di più intimo possa esistere, per lui. Ma quello va oltre. Sente John tirarlo a sé, mentre lo bacia come se la sua vita dipendesse da quello, e si chiede distrattamente come abbia potuto vivere fin ora senza un contatto così caldo, accogliente, dolce.
Il loro bacio continua fuori dal tempo e dallo spazio e la musica, tornata a un volume udibile, lo accompagna.
 
Voglio stare con te
Voglio stare con te
Non voglio lasciare
Che nessuno ti ferisca
Voglio stare con te.

 
Quando la canzone finisce le loro labbra si separano.
Sherlock e John si guardano negli occhi e per un momento Sherlock ha tutte le paure del mondo: l’imbarazzo, il pentimento di John, il rifiuto. Poi scoppiano entrambi a ridere e tutto non potrebbe essere più perfetto, perché quella risata è il loro linguaggio segreto.
Forse entrambi ridono pensando a quanto è stato stupido aspettare tanto per farlo.

«Andiamo a casa» dice alla fine John.

«Aspetta.» lo interrompe Sherlock «Prima c’è una cosa che devo chiederti.»

Toglie una mano dal viso di John, la porta in alto, sotto il cono di luce, e fa schioccare la dita.
Improvvisamente dei faretti illuminano i seggiolini degli spettatori. Alcuni di questi sono stati strategicamente dipinti di blu, ma non in modo uniforme: certi solo a metà, certi in modo orizzontale o obliquo. John ci mette qualche secondo a capire che la vernice forma delle lettere. Lascia la mano di Sherlock per fare un giro su sé stesso e leggere tutta la scritta.
 
Mi vuoi sposare?
 
John guarda Sherlock – il quale ha il viso dipinto di un sorriso raggiante e occhi brillanti – con così tante emozioni in circolo da non riuscire a dire davvero niente. Ha bisogno di un attimo per ricordare come si respira.

«Co-come… come hai fatto?» chiede, quando ritrova le parole.

Sherlock sembra morire dalla voglia di spiegarglielo.

«L’ho pianificato da un po’, aspettavo un giorno in cui avessi voglia di uscire. Quindi prima quando me l’hai proposto ho mandato un messaggio a Mycroft e gli ho detto di dare il via a tutto.»

«Ed è riuscito a organizzare tutto questo in un’ora?»

«Quasi. Ho dovuto inventare con te la scusa di aver perso la camicia che volevo mettere perché gli operai non avevano finito di dipingere i sedili, incompetenti. A proposito, io non li toccherei: sono ancora freschi. »

«È… incredibile.»

John non sa davvero cos’altro dire. Non riesce neanche a chiudere la bocca per lo stupore.
 
«Allora?» chiede Sherlock, con un mezzo sorriso, per metà timidezza, per metà tensione.

John lo guarda come dire non è assolutamente ovvio?, poi lo bacia di nuovo.

«Allora sì!» urla e la sua voce si perde nella pista «Come potrei mai perdere l’occasione di sposare un uomo che per una richiesta di matrimonio ha fatto chiudere una pista di pattinaggio e costretto il fratello a minacciare quante, dieci? Quindici persone?, per ottenere il momento perfetto?»

«Alla fine però è stato perfetto.»

«Giusto» dice John ridendo e dando un colpetto scherzoso a Sherlock. «Ma cosa avresti fatto se ti avessi detto che io non ti amavo?»

«Oh, è ovvio.» risponde serio «Ti avrei stordito con un colpo e ti avrei trascinato fuori da qui, facendoti credere di aver sognato tutto.»

Ridono entrambi e rischiano di perdere l’equilibrio, così iniziano a muoversi, come in una danza lenta e spontanea.

«Ma ci avrei provato di nuovo.» aggiunge Sherlock.
Si baciano ancora e altra musica inizia in sottofondo, ma nessuno dei due le da molta attenzione.
 
 
 
Nessuno dei due avrebbe voluto un matrimonio in grande comunque, ma in quella situazione Sherlock non ha nessuna intenzione di esporre John agli sguardi di commiserazione di parenti e amici e di esporre sé stesso a qualsiasi commento su quanto è coraggioso da parte sua sposare qualcuno in quelle condizioni. Fare a pugni il giorno del proprio matrimonio non è abbastanza raffinato per i gusti di Sherlock.
Non ha detto niente in proposito a John, ma lui è stato implicitamente d’accordo.

I compromessi sull’organizzazione sono stati piuttosto semplici, anche se Sherlock avrebbe invitato volentieri solo l’officiante, ma alla fine ha ceduto.

L’unica cosa che davvero gli importa è che John stia bene il giorno del matrimonio, fissato a una settimana precisa dalla proposta.


Il giorno prima, John sembra non avere più un minuto da vivere. Non riesce ad alzarsi dal letto, non mangia, beve poco e si strozza con l’acqua. È confuso.Sherlock abbandona tutto quello a cui sta lavorando e gli si siede accanto.
A fine giornata, John sembra stare un po’ meglio.

«Domani ci sposiamo» dice all’improvviso.

Sherlock gli sorride e gli accarezza i capelli.

«Possiamo rimandare, se vuoi. Mi basta una telefonata. Sei stanco e non c’è fret- »

«Hei,» lo interrompe John, prendendogli la mano «non vedo l’ora di essere tuo marito.»
 
 
 
Il giorno del matrimonio si alzano entrambi sorprendentemente tardi e ancora più sorprendentemente in forma.
L’orario programmato per il matrimonio è mezzogiorno e quando John vede che Sherlock, alle undici e mezzo passate, è ancora con l’asciugamano della doccia addosso, inizia ad agitarsi.

«Non mi farai arrivare tardi al nostro matrimonio.» gli ordina in tono severo.

«Non possiamo arrivare tardi, dal momento che il matrimonio è a casa nostra.»

«Hai capito cosa intendo, Sherlock Holmes. Vatti. A. Vestire.»

«O cosa?»

John si avvicina e lo bacia sulle labbra. «O non ti sposo più.»

Sherlock sorride senza staccarsi da lui. «Allora mi sbrigo.»
 


La prima ad arrivare è Molly. La signora Hudson è già lì, per sistemare il rinfresco sul tavolo e coprirlo con dei tovaglioli.
Molly indossa un vestito molto particolare con un trucco che avrebbe bisogno di una sistemata. John riflette per un attimo sul fatto che sarebbe davvero una bella ragazza se si curasse in modo diverso e si trova a immaginare come sarebbero andate le cose se Sherlock avesse scelto di sposare lei. Solo il pensiero lo fa bollire di rabbia.
Il tempo di fare due battute su Sherlock che, a giudicare da quanto ci sta mettendo a prepararsi, si comporta da sposina e lui esce dal bagno.

È raggiante nello smoking nero, con i capelli ancora vaporosi per lo shampoo.
John, Molly e Mrs. Hudson lo guardano come se non ci fosse niente di più bello al mondo. Ma Sherlock ha occhi solo per John.
 
Mentre aspettano che arrivino tutti, Mrs. Hudson inonda Sherlock di profumo a tradimento, lui tossisce perché una spruzzata gli finisce in bocca e tutti ridono.

«Stava cercando di uccidermi?» chiede Sherlock infastidito, mentre si ricompone.

«No, voglio solo che tu sia perfetto per il tuo grande giorno. Questo era di quella povera anima di mio marito, spero vi porti fortuna.»

«A giudicare da com’è finito il vostro matrimonio, più che fortuna porta a un’iniezione letale.»

John da una gomitata a Sherlock e lui alza gli occhi al cielo, ma si zittisce.
 
 
Mycroft, Greg e la donna di colore che ufficerà il matrimonio arrivano e tutti si posizionano.
Sono state sistemate alcune sedie così che le donne possano sedersi, mentre Mycroft e Greg sono rispettivamente a fianco di Sherlock e John, in quanto testimoni.
 
Le formule sono semplici, l’officiante capisce che nessuno dei due tiene molto alla retorica così parla il minimo indispensabile perché l’atto sia ufficiale. Si ferma solo quando John, inaspettatamente per tutti gli altri, le fa un cenno: dall’espressione di lei devono essersi messe d’accordo.
John improvvisamente sembra nervoso, nonostante fin ora sia stato il più tranquillo, paradossalmente, in quella stanza. Abbassa lo sguardo in un punto indefinito accanto alle proprie scarpe e si schiarisce la voce con un piccolo colpo di tosse che nel silenzio generale sembra molto più rumoroso.
Riempie i polmoni d’aria e poi prende la mano di Sherlock. È un gesto discreto, quasi invisibile – non tutti lo notano. Avvicina semplicemente la mano alla sua e la stringe delicatamente tra le dita, come se bastasse un lieve tocco di quella pelle per dargli la forza di parlare.

Lo sguardo interrogativo di Sherlock sarebbe anche divertente, se John non fosse troppo preso dal riordinare i suoi pensieri per notarlo.

«Ok, non ce la faccio.» dice infine e si mette una mano in tasca. Ne tira fuori una serie di foglietti scribacchiati, con molte cancellature.

«Credevo che quando sarei stato qui sarei riuscito a dirti tutto senza leggere, ma… quei dannati occhioni da cerbiatto che hai mi fanno perdere il filo!» dice per sdrammatizzare e tutti scoppiano a ridere in modo spontaneo e leggero. Anche lui ora si sente più rilassato e inizia a leggere.

«Sherlock,» la sua voce si fa solenne «non ti ho proposto di fare dei voti perché sapevo che questa cosa ti avrebbe messo in difficoltà. E mi hai già dimostrato a sufficienza quanto mi ami, non ho bisogno che tu me lo dica ancora. Ma non volevo rinunciare a dirti quanto io ti amo.»

Tutta la sala sembra trattenere il fiato e ascoltare le parole di John. Sherlock sembra in uno stato di semi shock, ma c’era da aspettarselo. 

«Non ho capito quanto sono fortunato finché tu non me l’hai fatto notare. E non me l’hai fatto notare perché volevi un grazie o qualcosa in cambio. Probabilmente, me l’hai fatto notare solo per darmi dell’idiota in modo molto più raffinato del solito.»

Qualcuno fa una risatina e a Sherlock sfugge un sorriso.

«E hai ragione: devo essere davvero idiota per non essermi accorto prima di quanto tu ami me e io ami te. L’unica spiegazione che mi do è che tra noi è sempre stato tutto così semplice e naturale che non c’era bisogno di dire niente.»

John pensa per un attimo che è un vantaggio il dover leggere, così può evitare lo sguardo di Sherlock: una parte di lui teme che troverà queste cose ridicole.

«Prima di essere il mio amante, mio marito, sei stato il mio migliore amico per così tanto tempo che riesco appena a ricordare com’era la vita senza di te. Sei diventato la parte migliore di me, l’unico di cui mi fido, l’unico a cui tengo abbastanza da arrabbiarmi, la persona che mi interessa più proteggere al mondo, molto più di me stesso.»

Deglutisce, pensando che ora arriva la parte più difficile.

«Questo ultimo anno è stato impegnativo e solo ora che l’abbiamo superato insieme, posso dire che da solo non ce l’avrei fatta. Mi sei stato accanto ogni giorno, anche in quelli peggiori in cui non ti volevo. Hai finto di stare bene, ma so quanto deve essere stata dura, perché anche solo l’idea che una cosa del genere possa succedere a te, mi devasta.»
Ormai tutti pendono dalle labbra di John, che si schiarisce ancora la voce e poi riprende a leggere.

«Per questo, per tutto quello che sei per me e per quanto ti amo  ti faccio i miei voti.
Ti prometto che amerò ogni tua più piccola stranezza e sociopatia fino alla fine dei miei giorni.
Ti prometto che non smetterò mai di ridacchiare sulle scene del crimine con te.
Ti prometto che non lancerò dalla finestra qualsiasi parte anatomica troverò nel frigo o nel microonde, ma solo a patto che avrò un po’ delle tue labbra tutte le volte che avrò voglia di farlo.
Ti prometto che prenderò l’ultimo pasticcino, ma solo per vedere il tuo viso imbronciato e poi lo dividerò con te.
Ti prometto che continuerò a nascondere le tue sigarette, nonostante i tuoi modi persuasivi.
Ti prometto che ti proteggerò da tutti quelli che non sapranno capirti.
Ti prometto che ti amerò abbastanza per entrambi, se smetterai di amarmi.»

John si sente un po’ stupido mentre legge quest’ultima frase, che suona tanto da romanzetto romantico, ma quando nota con la coda dell’occhio Molly e Mrs. Hudson che si asciugano le lacrime di commozione, si sente un po’ rincuorato.

«Voglio che anche tu mi faccia delle promesse, però. Non ho mai avuto paura della morte. Non ce l’avevo in guerra e non ce l’avevo con la malattia. Ma ora sì, ora ho paura di morire.»

Ha bisogno di fare un respiro profondo prima di andare avanti, ma comunque la sua voce è poco più di una serie di sussurri strozzati.

«Ho paura di lasciarti. Ho una fottuta paura di lasciarti.»

L’ultima frase è molto simile a un singhiozzo, ma dopo aver preso fiato abbastanza a lungo John riesce a tornare a parlare.

«Tu hai riempito la mia solitudine in un modo che non mi sarei mai aspettato e so di aver fatto lo stesso, anche se non me lo hai mai detto. Io e te siamo così complementari che è ingiusto, è schifosamente ingiusto, pensare a uno di noi senza l’altro. Non voglio vivere un solo giorno senza di  te e vorrei che neanche tu dovessi, ma sappiamo tutti che sarà così. Quindi promettimelo, ti prego, promettimi che cercherai di stare bene, che mangerai, continuerai a prendere casi, insulterai Anderson e maltratterai cadaveri all’obitorio. Promettimi che…»

Fa una piccola pausa, come se facesse troppo male anche solo leggere quello che c’è dopo.

«Promettimi che non ricomincerai.» dice infine e tutti in quella stanza sanno a cosa si riferisce.

«Promettimi che continuerai ad essere l’uomo meraviglioso che sei e che continuerà a non importarti se gli altri non lo capiscono. Io ti amerò sempre, a qualunque condizione. Anche se non conosci il sistema solare.»

Sherlock emette un suono gutturale che è a metà tra una risata e un singhiozzo di commozione.
Ora John ha il coraggio di guardarlo e riesce a vedere i suoi occhi lucidi, la pelle che si è arrossata leggermente, l’espressione dolcemente confusa. Tira la sua mano in modo che lui si avvicini di più e quando lo fa Sherlock gli accarezza il viso in un modo così naturalmente tenero che sembra quasi si siano dimenticati di tutte le altre persone nella stanza.

«Lo prometto.» sussurra piano Sherlock, sulle labbra di John. E rimangono così, per un tempo che nei loro corpi fusi insieme scorre diversamente.

«Mr. Holmes, può baciare suo marito ora.» dice infine l’officiante.

Sherlock e John avvicinano le loro labbra ancora sorridenti e si scambiano il primo bacio da sposati. Una lacrima lo rende umido, ma nessuno dei due sa a chi appartiene.
 
 
Poche ore dopo la casa è tornata al suo naturale silenzio e John si è potuto togliere di dosso quello scomodissimo smoking. Si chiede come faccia Sherlock ad essere sempre vestito elegante, deve essere fastidioso.

È sdraiato sul loro letto e guarda la porta trepidante, quando Sherlock entra con il sorriso più accattivante che possa esistere. Ha slacciato i primi bottoni della camicia che mostrano la pelle candida sotto la stoffa. La cravatta gli pende dal collo sformata e acciaccata.  Le scarpe devono essere in qualche luogo indefinito della sala, perché sta avanzando a piedi nudi.
John non riesce a non sciogliersi in un sorriso ammaliato quando lo vede così. Sembra il modello più richiesto sulla faccia della terra ed è appena diventato suo marito.

Senza smettere di guardare John negli occhi e sorridere, Sherlock si butta di peso sulla parte libera del letto. Si sistema su un fianco, puntellando il gomito per sorreggere la testa. John si volta verso di lui, così che ora si guardano a pochi centimetri l’uno dall’altro.

«Mr. Holmes.» sussurra Sherlock. Perché sussurrare, sono soli? Ma  quell'intimità, finalmente, sembra così perfetta che forse ha solo paura di romperla.

«Non ho mai detto che avrei preso il tuo cognome.» ribatte John, a bassa voce.

«Sei comunque mio marito ora»

«E tu il mio.»

Sorridono ancora, senza dire nulla, come se sottolineare l’ovvio avesse un sapore dolcissimo in quel momento. Poi John riprende la parola.

«Sai qual è la parte più bella ora?» chiede ironicamente.

«Quale?»

«La prima notte di nozze.»

Ridacchiano entrambi come due adolescenti. È evidente da ogni dettaglio delle loro espressioni che non vedono l’ora, che hanno aspettato tanto, troppo per sentire il corpo dell’altro dentro il proprio, per fondersi in modo completo e uniforme, per regalarsi tanti di quegli orgasmi da compensare gli anni di solitudine.

Sherlock si piega sul viso di John per baciarlo, ma quando sfiora le sue labbra devia e raggiunge il suo orecchio.

«Dovrai aspettare» sussurra.

John lo guarda dubbioso e Sherlock si alza in piedi con uno scatto felino.

«Devo assolutamente farmi un bagno: ho ancora addosso il profumo dozzinale del marito della signora Hudson e questo odore è così disgustoso che inizio a capire perché lei lo voleva morto.»

John scoppia a ridere e gli indica la porta con un braccio.

«Vai, muoviti! E non tornare con i capelli bagnati, usa il phon!»

Sherlock alza gli occhi al cielo e va verso il bagno.
 
 
 

 
Deve essere passata poco più di mezz’ora quando Sherlock torna in camera. Si sta ancora strofinando i capelli con un asciugamano, ma ora indossa solo un paio di slip neri e una maglietta grigia.

John dorme con un’espressione tranquilla nel buio della stanza, interrotto solo dalla luce fioca di un’abatjour.
Sherlock sorride nel vederlo così, indifeso e rilassato. È stata una giornata impegnativa per entrambi, ma per John deve esserlo stato particolarmente. Gli basta così poco per sentirsi esausto e un sovraccarico di emozioni come quello devo averlo stancato parecchio. I voti, in particolare, devono essergli costati un enorme dispendio di energie.

Si avvicina al suo orecchio e lo chiama piano. Lo conosce abbastanza bene da sapere che sarebbe molto più arrabbiato per essersi perso la loro prima notte di nozze che per essere stato svegliato.

«John.» sussurra dolcemente, la proprie labbra che sfiorano la sua pelle.
 


Sherlock capisce che qualcosa non va nel momento esatto in cui pronuncia il suo nome  e John non si sveglia. I sensi di John sono ancora quelli di un soldato: attenti, vigili, svegli. Pronti a farlo saltare giù dal letto con la pistola alla mano in caso di pericolo.

«John.» chiama ancora Sherlock, con la voce allarmata.

Si avvicina ancora di più al suo corpo come a volerlo riscuotere con il proprio calore, con la propria presenza.
 
 
Passa circa mezzo secondo da quando a Sherlock sorge il dubbio a quando ne è certo.
Il suo sguardo va automaticamente al petto di John. Non si muove. Le dita corrono al collo, non c’è battito.
Morte nel sonno, probabile arresto cardiaco, decreta il suo cervello, ma il cuore non vuole ascoltarlo.

«John!» urla Sherlock, come se l’altro potesse sentirlo, mentre gli solleva le palpebre, cerca di nuovo il polso, accosta l’orecchio alle sue labbra per aspettare di sentire un respiro che non arriva. Il tutto così freneticamente che probabilmente non servirebbe a niente comunque, anche se ci fosse ancora speranza.

Il respiro di Sherlock sta accelerando  pericolosamente. Una sensazione di vuoto, bruciante e pesante, gli si sta aprendo nel petto come un colpo di pistola. Il dolore ineffabile della consapevolezza.
 
Ma Sherlock non lo abbandona. Cerca nella sua mente una lista di cose che potrebbe fare in quel momento e alla fine inizia a fare il massaggio cardiaco a John. L’ambulanza ci metterebbe troppo in ogni caso, quindi non perde tempo a chiamarla.
Conta il numero giusto di colpi e poi prova a mandare aria nei suoi polmoni.
 
C’è qualcosa di drammatico nel momento in cui le sue labbra toccano quelle di John e le sentono fredde, prive di quel calore che aveva animato i loro baci.

Qualcosa di così sadicamente tragico che lo fa smettere di massaggiargli il petto.


John è inerte sul letto e Sherlock ha visto troppi cadaveri per fingere di non sapere che la vita è già scivolata via da lui. Ma quello non è un corpo, quello è John, è suo marito, è tutto ciò di cui ha bisogno al mondo.
 
Scivola al suo fianco, con le ginocchia sul pavimento, e inizia ad accarezzargli il viso. Lentamente, dei piccoli tocchi circolari che gli sfiorano i capelli o gli zigomi.

Improvvisamente Sherlock ha paura. È terrorizzato dall'idea di vivere una vita senza John. Aveva creduto che sarebbe stato pronto, ma ora tutto sta crollando intorno a lui come in un incubo e non riesce a percepire più nulla, neanche sè stesso, al di fuori di quel dolore acuto, della solitudine sadica, del vuoto che si irradia da dentro il suo petto al mondo.
 
Non può fare a meno di pensare che John sembra solo dormire, mentre gli sfiora i lineamenti con le dita delicate, gioca con i suoi capelli corti, come se domani si dovesse alzare e preparare il tè per entrambi. Ma non ci saranno più tè insieme. Non ci saranno più domani.

Ed è solo quando lo capisce che Sherlock appoggia la testa sulla pancia silenziosa di John e, finalmente, piange.
 
 
 
 
 





 
 
 
 
 
 
                                                                                         
Note:
1 – Ho toccato un argomento molto delicato e l’'ho fatto con una conoscenza medica che è più o meno quella che ho acquisito guardando Grey’s Anatomy (ovvero molto fantasiosa), quindi se ho scritto qualcosa di sbagliato abbiate pazienza.
2 – La dottoressa Yang della fanfiction è, appunto, la stessa di Grey’s Anatomy. Il suo intervento in quel momento è leggermente impreciso, visto che lei è un cardiochirurgo, ma è il mio personaggio preferito e ci tenevo a inserirlo.
3 – La canzone che ascoltano John e Sherlock sulla pista di pattinaggio è questa.
4 – Non so perché ho scritto una cosa così triste. Uccidetemi. 
   
 
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