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Autore: purepura    18/07/2014    1 recensioni
«No». Negai troppo in fretta e mi tirai indietro, evitando il suo sguardo.
«Stai mentendo».

La storia accenna vagamente alle Tematiche delicate, ma ho preferito dirvelo, così come accenna al FemSlash, ma anche qui: meglio dire prima.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Cosa succederà dopo?



    Il telefono era suonato a tre quarti della cena, mentre stavo per tirare un sospiro generale all’idea che la serata si concludesse: non vedevo l’ora di tornare a casa per riflettere su che genere di rimpatriata fosse stata. Il liceo era stato un periodo particolare: non brutto né piacevole, il gruppo classe era stato ottimo, disponibile, ma mi aveva gettato addosso l’etichetta della disabile un po’ bimba di cui tutti dovevano occuparsi, e non ero riuscita praticamente a togliermela di dosso. Quella sera, pareva vi fossi ritornata dentro, come l’anno precedente, quando avevo passato l’incontro sola col consueto gruppetto a parlare del più e del meno, senza espormi più di tanto; anonimamente.
    Tuttavia, il telefono prese a squillare. Ero immersa nei miei malinconici pensieri – rimpiangenti la quiete della casa – e perciò ci misi un po’ a rendermi conto che fosse il mio. L’avevo lasciato nella borsa; lo cercai con flemma, credendo fosse solo mia madre che voleva sapere l’ora di rientro, così, quando finalmente lo trovai, aveva fatto in tempo ad attirare l’attenzione del mio tavolo e di alcuni adiacenti.
    Rimasi bloccata alla vista del suo numero sul display. Non che mi fossi aspettata che la faccenda l’avrei potuto liquidare in due parole, ma quella sera la mente era da tutt’altra parte – il ruolo liceale, le sue catene e lei – e per nulla propensa a ripercorrere le tappe dell’adulterio del mio amante.
    Ero rimasta ancorata al passato familiare, amicale e perché no: sentimentale. Essendo ancora a casa di mia madre, studentessa mantenuta, non avevo avuto la possibilità di guardare avanti. Le crisi familiari tuttora mi coinvolgevano, il rapporto con mio padre aveva crepe da tutti i lati e la mia cotta adolescenziale per la ragazza sbagliata ancora pendeva su di me come una spada di Damocle – e credevo me la sarei dovuta portare alla tomba.
    «Non rispondi?».
    La voce gentile di Alessia, seduta accanto a me, mi riportò alla realtà. Feci appena in tempo a notare in quanti mi stavano fissando, poi portai il telefono all’orecchio. Cercai di mantenere la conversazione il più impersonale possibile, senza offrire loro pronomi, toni o atteggiamenti che potessero rendere evidente la mia stizza. Chiedeva di potermi parlare – ancora! – ma mi limitai a negare, cercando di fargli capire come quello fosse senz’altro il momento sbagliato. Riattaccai quando ancora stava cercando di rispondere alle mie secche proposte.
    Alzando lo sguardo, notai le ragazze fissarmi. «Mia madre voleva coinvolgermi in una delle sue tante conversazioni: per una sera non riesce a concepire che non possa esserci lei, al centro dei miei pensieri», mi limitai a spiegare, così che la serata riprese senza intoppi e, quasi di nuovo del tutto rasserenata, la mia testa tornò ad immaginarne la fine, mentre rispondevo passivamente alle loro domande e annuivo alle loro risposte.
    La classe era sempre stata divisa, come di consueto lo sono gli agglomerati molto numerosi; senza nessun maschio a mitigarci, la competizione pungolava da sempre e si espresse in quinta liceo tramite il capro espiatorio che portava il mio nome. Disillusa dal mio gruppo, avevo smesso di sentire le ragazze subito dopo la maturità, quando loro si vedevano più o meno tutte le settimane. Erano care e gentili, e forse ero io che pretendevo troppo; ero convinta, durante gli anni adolescenziali, di averci impiegato tanto, nel rapporto con loro, ma in realtà ero entrata nella compagnia solo in terza liceo, una volta litigato con lei, e causa trauma non avevo mai cercato di legare davvero; erano una compagnia superficiale, cui però ritenevo dovesse spettare il compito di evitare che stessi sola, seduta al banco. Cosa che non fecero, in quarta liceo, facendomi optare per una sparizione radicale nei due anni successivi il diploma.
    Dicembre, ennesima cena di classe in cui ipocriticamente tutti facevano finta di piacere a tutti, per poi ridere delle assenti, facendomi inalberare. Avevo contato sino alla disillusione anche su un’altra ragazza, in quel momento alla mia destra per puro caso, con cui legai in seconda: con lei da parte mia c’era stato vero coinvolgimento. Era cara, simpatica; si sedette accanto a me quando nessuno voleva farlo – piantonata in prima fila, con l’insegnate di sostegno che impediva le copiature, e forse con un carattere non proprio incoraggiante. Poi anche lei legò con le Bocciate – nome proprio ormai del gruppo delle ripetenti – ed era una di quelle che con me, da sola, era una persona, e con le amiche diveniva un’altra. Anche quell’anno notai del raffreddamento nei rapporti fra Benedetta e le altre, e mi sorpresi a pensare con nostalgia a tutte le volte in cui l’avevo fatta ridere, a quando mi parlava dei fatti suoi e a come fosse l’unica che, anche dopo, notava se cercavo con lo sguardo qualche aiuto.
    Sbocconcellavo con poca convinzione la mia pizza, ormai freddatasi, quando l’attenzione fu di nuovo spostata a forza dal liceo al presente. Entrò con irruenza, facendo voltare due o tre clienti, si guardò intorno qualche istante, mi vide e venne svelto verso di me. La mascella mi cadde verso il pavimento, letteralmente, e restai così per un bel po’, mentre lo seguivo con lo sguardo.
    «Devo parlarti».
    Aveva poggiato una mano sul tavolo, ignorato le mie compagne lì vicino. Mi fissava, ed era furente, potevo vederlo dal modo in cui si mordeva continuamente il labbro.
    «Ehm…». Annalisa, la secchioncella ansiosa, in grado però di autoironia, spostava lo sguardo da me a lui. La scena aveva catturato l’interesse di tutte quante: quando mai l’ipovedente Amelia aveva attirato l’attenzione di un ragazzo? E quando la timidissima se l’era ritrovato persino in pizzeria?
    «Come hai fatto a sapere dov’ero?». Quella era stata la cosa che per prima mi aveva colpito.
    «Tua sorella», rispose impaziente. «Posso parlarti?».
    «No», risposi, con ovvietà. «Non adesso. Ti chiamo più tardi».
    Ero consapevole e a tratti non lo ero, che, se non tutte, almeno quelle immediatamente vicino stavano sentendo ogni parola.
    «No. È da due giorni che tento di spiegarti. Sparirai di nuovo senza rispondere al telefono».
    Scossi la testa. «Ti cercherò io. Questo non è il momento». Per la prima volta, mi guardai intorno furtiva: ci stavano fissando tutte, perplesse.
    Sbatté le mano sul tavolo, spaventando Annalisa, vicinissima a lui. «Ora!».
    Mi alzai, allontanandomi, a disagio, evitando accuratamente di guardarmi indietro. Incrociai le braccia, mentre cercavo di rimanere ferma sulle posizioni assunte due giorni prima. Insistette sul fatto che l’avesse lasciata, che ora poteva concentrarsi del tutto su di me, sinché non lo indussi a confessare che era stata la moglie, a scoprire la sua tresca e a buttarlo quindi fuori di casa. Sempre più convinta della mia decisione, feci per tornarmene al mio posto; mi afferrò un braccio con una stretta salda e a tratti forte, impedendomi di allontanarmi.
    «Lasciami!».
    Come al solito, non riuscii a liberarmi. Era proprio questa la figura che volevo fare davanti a loro dopo anni: la disabile che aveva bisogno non solo nel quotidiano, ma anche nell’extra?
    «Pietro», tentai di nuovo, sperando di indurlo alla ragione, «ti sembra questo il momento?». Sussurrando, continuai: «Mi stai facendo male, e siamo in un luogo pubblico».
    «Scusa? Amelia? È tutto ok?».
    Quella che era diventata la leader naturale una volta che usurpò il trono all’altra, in seconda superiore, si era alzata. Non si era avvicinata, aveva solo dato la voce dal suo posto. Attirò l’attenzione di Pietro, che mi lasciò andare, arretrando. «Certo», confermò, sorridendo. «Scusate dell’interruzione: era una questione urgente». Poi mi guardò. «Potremo continuare il discorso anche domani. Buona serata a tutte». Con passo leggero, si voltò e si diresse verso l’uscita, l’andatura tranquilla.
    Mi voltai di nuovo verso il tavolo, piegandomi leggermente in avanti, quasi volessi sotterrarmi. «Scusate», dissi. «Non era programmato che venisse».
    «Chi era?». La pettegola disinibita non riuscì a non insistere.
    «Nessuno». Sorrisi imbarazzata mentre mi sedevo. Non ero certo convinta che avrebbero desistito, ma ci speravo.
    «Davvero? Alla fine hai trovato qualcuno?»
    Sorrisi, evitando il loro sguardo. «No. Insomma, diciamo di sì, ma non ho molta voglia di parlarne. Non sta andando a gonfie vele. Preferirei non pensarci».
    «Oh, posso darti un consiglio. Lo faccio volentieri!».
    «Non potremmo semplicemente lasciare perdere?!» Mi ritrovai a essere brusca contro il mio volere. Sospirai, attirandomi un’occhiata in più da parte di molte. «Non ho voglia di parlarne», ripetei, gesticolando nervosamente. «Va bene?».
    «D’accordo, d’accordo». La pettegola disinibita alzò le spalle, rivolgendosi alla vicina di posto. Non sentii cosa le stesse dicendo, ma sospirando provai a ritornare con la testa alla conversazione delle altre e a dove l’avevamo interrotta. Loro, però, erano ancora silenziose, impegnate a scrutarmi.
    «Cosa c’è?», chiesi.
    «No, è che…». Alessia, esitante, guardò le altre in cerca di manforte. «Non ne sapevo nulla, e siamo curiose!».
    «Siamo contente se ci dici che ti sei trovata qualcuno. Hai messo su il fisico. Ci sta!».
    Annuii. «Bene. Ne dobbiamo discutere per forza?».
    «No, no», rispose Alessia, facendo eco, ne ero certa, alla delusione delle altre. «No, se non vuoi».
    «Ottimo! Di cosa stavamo parlando?». In difficoltà, mi tolsi il giacchetto per deporlo sulla sedia. Con fatica, riportai all’attenzione l’argomento precedente, e per un altro quarto d’ora riuscii a evitare che altri tornassero all’attacco con domande invadenti. Almeno finché non fu il momento di pagare e uscire. Eravamo tutte in fila alla cassa, cariche delle nostre borse e cappotti, e mi si avvicinò. Appena ero arrivata, lei aveva già preso posto in fondo al tavolo. Non ci eravamo guardate né parlate – lei mi aveva guardata, certo, ma avevo sperato di scoraggiarne le iniziative evitandola –, ma esitante si avvicinò a me mentre col piede tamburellavo impaziente.
    «Ciao».
    Era sempre stata calma, carina, gentile. Mi diede la nausea, sentirla così calma. Avrei voluto solo correre, io.
    La squadrai dall’alto in basso. Dovevo risponderle! Proprio non avevo altra scelta.
    «Ciao». Seccamente, spostai lo sguardo altrove, nella speranza di indurla a desistere.
    «Come stai?».
    Annuii, sperando le sarebbe bastato.
    Sorridendo, fece un cenno verso la porta. «Chi era? Non sembrava avere la nostra età».
    Sorpresa per il suo inedito, acuto spirito di osservazione, inarcai le sopracciglia. «E allora?».
    «No, solo… non sapevo ti vedessi con qualcuno».
    «Anche tu? Non sapevo fossero affari vostri».
    «Tu spettegoli sempre sulle cose di una certa importanza, che ti riguardino o meno».
    Già. Punto per lei!
    «Non era nessuno». Alzai le spalle, sospirando. Poi mi sporsi oltre lei, ansiosa di sfuggirle: «Senti, Alessia: ti lascio i soldi. Ti spiace pagare anche per me? Vado a prendere un po’ d’aria».
    «No no, certo».
    Annuii riconoscente per poi dirigermi all’esterno. Pochi secondi dopo, mi accorsi che mi aveva seguita. Esitante, si fermò a qualche passo da me. In passato, ero io che controllavo metricamente la prossemica, desiderando di ridurla ma anche timorosa al massimo quando sarebbe potuto accadere: quando cercava di rassicurarmi con un tocco, o incombeva su di me per infilarmi sotto al naso le sue lettere.
    «Cosa c’è?» Strinsi le braccia, il tono esasperato che accompagnò uno sbuffo. «Non sono in vena di chiacchiere».
    «Allora arrivo subito al punto». Si era fatta più decisa. Si schiarì la gola, scostando una ciocca bionda dal volto. «Quel tipo: non mi è sembrato del tutto… calmo. Non era la prima volta che ti strattonava così, vero?».
    «Cosa?». La mia testa, seppur presa in contropiede, capì all’istante che era quella, l’obiezione che temevo più di tutte. Non che per loro fosse troppo vecchio, né il giudizio una volta saputo che era solo sesso, ma esattamente quella: avevano visto il suo temperamento mentre stava diventando alterato. Quello era solo uno dei tanti segnali che spesso non riuscivo a gestire, soprattutto se ci trovavamo soli ed esausti.
    «No». Negai troppo in fretta e mi tirai indietro, evitando il suo sguardo.
    «Stai mentendo».
    Scossi la testa, cercando di sbirciare a che punto fossero le altre.
    «Amelia», mi richiamò, «sono seria. Chi era? Cosa voleva da te, si può sapere?»
    «Cosa t’importa?». Bruscamente, cercai di ricordare chi fosse: si era tramutata in qualcun’altra? Non che lei avesse nascosto la sua preoccupazione per me, soprattutto quell’anno in cui ero stata depressa e pazza e sbagliata, ma non aveva mai insistito così tanto. Né parlato con me così liberamente se non per lettera – e due volte per telefono.
    «Se c’è qualcosa che non va, dovresti parlarne con qualcuno…».
    «Non c’è niente che non vada! Vuoi proprio sapere che cosa voleva?». Decisi di non mentire: la verità l’avrebbe sicuramente allontanata, era già successo. «Chiedeva se per favore potevo non smettere di andarci a letto, anche se avevo scoperto che era sposato. Ecco quello che voleva gli promettessi».
    «Sei stata con un uomo sposato?». L’indignazione le fece drizzare le spalle.
    «Prima di sapere che lo fosse. Lui ha iniziato a bersagliarmi di chiamate, quando mi sono rifiutata di proseguire, e stasera è giunto al limite dello stalking». Ironica, ridacchiai della mia battuta.
    Lei non vi prese parte, ma domandò, increspando le labbra, un’ombra preoccupata sul volto: «E ha mai raggiunto altri picchi? Ti ha messo le mani addosso, e prima di negare guardati le braccia».
    Il golfino e il cappotto avevano presto coperto la pelle, ma mi ero dimenticata dei lividi ormai in procinto di guarire. Mi ero dimenticata di loro perché credevo non sarebbe mai più successo e perché lei – lei – mi agitava.
    «Sono caduta».
    «Certo». Fece due passi avanti, ma mi scansai, voltandomi. «Amelia», continuò, «che ti succede? Hai del carattere, so che è così. Come puoi farti fare…».
    «Farmi fare? Ma che cosa ne sai, éh? Sei qua di fronte a me, a sputare consigli come fossi una grande esperta, però non conosci la situazione».
    «Spiegamela, allora, perché è evidente che qualche cosa non va, e che in questi anni mi sia persa dei passaggi!».
    «Quali passaggi? Di cosa accidenti parli?». Esasperata, mi passai una mano fra i capelli.
    «Di te che ti fai… ti fai picchiare da uno e poi lo difendi anche!».
    «Parli come se mi avesse malmenata a morte». Cercai di ridimensionare la cosa. Dalle sue parole sarebbe potuta apparire come una violenza fisica.
    «E cosa ha fatto, allora: ti ha accarezzato? Sulle braccia cosa avevi, tatuaggi?».
    «Il sarcasmo proprio non ti si addice».
    «Béh, ma l’ho imparato».
    «Buon per te».
    «Allora?», insistette.
    «Cosa? Ho sbattuto!».
    «L’ho visto, stasera. Se fosse stata la prima volta, saresti apparsa sorpresa. Invece, non lo eri. Parevi solo preoccupata che noi capissimo qualcosa, ma di certo non eri una che ha visto il suo… compagno… fare una cosa così per la prima volta».
    «Una cosa così? Mi ha afferrato un braccio».
    «Ti ha strattonata».
    Aprii la bocca per ribattere, ma alzò una mano. «Non dirmi che mi sbaglio, Amelia. So che non è così. Ti chiedo: che cosa succede? L’ha fatto altre volte, in modo più serio, magari? Perché, se continua a non lasciarti in pace, puoi denunciarlo».
    «Sei tu, quella che deve lasciarmi in pace! Lo capisci? Non voglio discuterne!».
    Stava per ribattere, ma la porta sbatté e le altre uscirono in gruppo. Alessia mi restituì il resto mentre le altre iniziavano con i convenevoli di saluto e la promessa di rivederci presto – ossia l’anno dopo, il tempo più che giusto – per un’altra cena.
    Mi accorsi solo allora che non avevo ancora chiamato mia madre per dirle di raggiungermi, e le ci sarebbero voluti una ventina di minuti.
    «Ti serve un passaggio?».
    Di nuovo la sua voce, che insisteva ma ora in modo implicito.
    «No».
    «Ma non hai ancora chiamato tua madre», disse. «Non ce n’è nemmeno bisogno. Ti porto io. Lo faccio con piacere».
    Il cerchio era già diminuito, tutte si stavano dirigendo verso le rispettive auto. Sospirando, non seppi rinunciare alla possibilità di sentirla e percepirla ancora per parecchi istanti. Così, la seguii verso la sua macchina, parcheggiata poco distante.
    Una volta che ebbe fatto manovra e si fu immessa nella strada buia, si sentì libera di continuare, forse perché non potevo più sfuggirle a meno di non buttarmi dall’auto in corsa.
    «Io non voglio impicciarmi degli affari tuoi, Amelia, ma…».
    «Mi pare invece tu lo stia facendo», la interruppi.
    «Perché lo difendi, si può sapere? Ne sei innamorata?».
    Certo che no! La fissai e scossi la testa, negando. Mi lanciò un rapido sguardo.
    «E allora? Se ti tocca dovrebbe finire dietro le sbarre».
    «Non mi tocca».
    Alzò le sopracciglia.
    «D’accordo: ogni tanto gli scappa la mano, ma quasi mai. Dopo se ne pente, mi chiede perdono, e continua a dire che non gli importa se non lo amo. Ci facciamo compagnia. Non m’importa del resto».
    «Gli scappa la mano in che modo?».
    Abbassai lo sguardo, pensando che a quel punto dovevo mentire. Come avrebbe fatto a capire, se avessi iniziato a parlare di sesso violento o dei suoi continui: “Con chi sei stata? Dove? Non mi hai risposto al telefono!”, seguiti da una sberla – una sola, mai in faccia – che subito si rimangiava? Non avrebbe capito. Come non avrebbe intuito che non potevo amare lui perché ancora amavo lei.
    «Lascia perdere. Non m’interessa più e, inoltre, non lo rivedrò; quindi: che importa?»
    «Non vorrei che pensassi che sia normale, il suo comportamento. Non lo è. Merita ripercussioni».
    Sospirai, evitando di rispondere. Il discorso sarebbe potuto continuare a lungo, ma non mi avrebbe fatto cambiare idea: non era normale ma nemmeno da denuncia, né una cosa idonea per una ramanzina insopportabile. Non potevo dare nulla a lui, che fosse amore, interesse, coinvolgimento; solo il sesso, e in cambio non mi aspettavo nient’altro: il sesso, che mi faceva dimenticare che non era lei, quella che avevo sotto di me.
    Accostò davanti alle auto del condominio. Si voltò verso di me, il volto in penombra ancora impensierito. «C’è qualcosa che posso fare? Non voglio salutarti sapendo che sei infelice».
    Sono infelice da quando ho capito di amarti.
    «No, niente. Ci vediamo». Aprii lo sportello. La luce di cortesia si accese, facendomi vedere più chiaramente anche l’esterno. Lo vidi appoggiato alla porta d’entrata, le braccia conserte, una sigaretta ad oscillargli fra le labbra.

    «Perché non chiami i tuoi e gli spieghi che resti a dormire da un’amica?».
    «Romperebbero perché non gli ho dato preavviso».
    «E allora spiega loro il motivo per cui non puoi rientrare in casa, digli che c’è un cretino davanti alla porta che ti impedirebbe di passare: pensi che si lamenterebbero per il poco preavviso?».
    «Ma come sei diventata brava in quest’arte così sottovalutata!».
    Sorrise. «Grazie». Si concentrò su una curva, la quale ci riportò sulla strada principale che collegava il centro al resto della città. «Allora? Vuoi venire da me?».
    «E ai tuoi che cosa dici?».
    «Che ci siamo organizzate all’ultimo: andiamo su, in mansarda; nessuno ci darà noia».
    A parte io.
    «E tua madre, che direbbe?».
    «Che significa?».
    «L’ultima volta non ha gradito nemmeno che ci vedessimo per i compiti».
    «Io ricordo che passasti un capodanno a casa mia».
    «Oh. Giusto. Dopo. Quando avevi detto a tutti che mi era passata».
    «Non era così?».
    Oh oh. Domanda cruciale in una sera cruciale: menti! Menti spudoratamente!
    «No».
    Trasalii insieme a lei. Come se stessi leggendo un romanzo, mi domandai cosa sarebbe accaduto dopo.
    «Cosa?». Non cercava più il mio sguardo. «Credevo…».
    «Ho capito il gioco, e l’ho eseguito: fingere pur di rimanerti accanto. Anche se, ovviamente, non più come prima, no?».
    «Di certo non per colpa mia».
    «Ovviamente». Suonai ancor più sarcastica di quanto fossi.
    «Che cosa avrei mai fatto! Ti ho sopportata tutto un anno scolastico, ho cercato di restarti accanto, ho parlato di quel che ti accadeva con naturalezza nonostante davvero non lo concepissi; cos’altro avrei dovuto fare, sentiamo!».
    Scossi la testa: non ero in grado di dire verità più esplicite di quel no. Non insistette, lasciando a quanto pare cadere la questione, e si ripropose.
    «Allora? Vuoi?».
    «Anche dopo quel che ti ho detto?». Insistetti perché non volevo che la mattina dopo iniziasse a lamentarsi del mio comportamento, che probabilmente sarebbe stato sfuggevole, minimo.
    «Sei stata sincera e avrei gradito te lo fossi tenuta per te, ma non posso certo lasciarti andare sotto casa per affrontare uno che non mi pare tanto propenso alla calma».
    «Posso sempre chiamare mio cognato per farmi dare manforte».
    «Tua sorella sa tutta la storia?».
    Ovviamente no. Come potevo parlarne con lei, quando una sgualdrina era stata la causa del divorzio dei miei? Una delle tante rovina famiglie che gli si era appiccicata addosso – come me. Sarei stata etichettata come la stronza della situazione, nessuno avrebbe creduto che io non sapessi la verità.
    Scossi la testa. «Direi che non mi resta altra scelta», conclusi. «Però, davvero, non voglio che ti senta obbligata da qualche spirito caritatevole o che so io».
    «No, solo dalla solidarietà femminile», disse, svoltando per la strada provinciale che avrebbe condotto al suo paesino.
    Quando accostammo, la sua casa era buia. Entrammo in punta di piedi, sostammo un momento in cucina così che lei potesse lasciare un biglietto per dire che era arrivata e con chi (quella era una famiglia in cui non c’erano segreti: sapevano tutti di chi mi ero invaghita!), poi procedemmo verso il secondo piano. Sempre pulito e pronto agli ospiti, mi fece accomodare nel letto a sinistra, quello più interno e vicino alla finestra. Sostai in bagno, chiamando mia madre e indossando un pigiama della sorella che aveva recuperato da non so dove, comodo e fresco.
    Pescò un libro dal comò, mentre mi coricavo su un fianco, dandole la schiena. Le sue parole mi riecheggiarono per parecchi minuti nella testa: c’è qualcosa che posso fare? Effettivamente, c’era una cosa, ma come domandargliela? Come sperare non mi ridesse in faccia o peggio, visti i trascorsi? Forse avrei dovuto solo prendermela, come faceva lui quelle notti in cui aveva bevuto troppo e non ero dell’umore: faceva in modo che lo diventassi.
    Dormiva con due mani ai lati del volto, giunte, e la bocca socchiusa. Ero rimasta in piedi accanto al suo letto per minuti interi, respirando appena, per godermi quell’immagine.
    Avevo aspettato che si addormentasse per quelle che erano parse ore, poi, quando la sveglia a lettere al neon aveva segnato le tre del mattino, ero scivolata fuori dalle coperte e mi ero limitata a fissarla. Come se sperassi che un qualsiasi suo gesto mi avrebbe dato il permesso, avevo indugiato e rimandato e aspettato sinché non si era coricata sull’altro fianco, spaventandomi. Continuava a dormire, però, perciò avrei potuto rimanere ancora accanto a lei, ma avevo avuto davvero paura che si accorgesse di dove fossi, così mi ero fatta indietro. Seduta sul letto, voltata dalla sua parte, le fissavo la schiena, che pian piano si alzava a ritmo col suo respiro.
    Non lo saprà mai. Mai! Devi solo farlo. Togliti la voglia, smetti di chiederti come sarebbe stato e va’ avanti.
    Potei sentire le sue labbra sulle mie, ma non la sua lingua, né il suo fiato. Solo quell’istante in una notte rubata al ladro di momenti, il Tempo, che non aveva lasciato niente dietro di sé che potesse rammentare a lei perché da sveglia avrebbe dovuto trattenermi. Né motivi per cui, da addormentata, non avrei dovuto baciarla.




3821 parole. Niente di tutto ciò s’ispira a fatti avvenuti; è tutto immaginato, nomi, cognomi, luoghi, situazioni.
  
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