CAPITOLO
SEDICI – MALEDETTO TORCHWOOD!
Quanta
luce, quanto cielo,
orizzonti da guardare.
(Silver e Missie, E. Ramazzotti)
“Benvenuti
alla casa degli orrori!”
“Non
essere così terrificante!”
“Be’,
ma scusa, guarda che posto!”
Quando
Rhys e Gwen uscirono dalla loro auto, Jack
entrava con una manovra da professionista nel cortile
di un’imponente villa e parcheggiava il Suv
accanto alla macchina dei primi due arrivati. Effettivamente suo marito
non
aveva tutti i torti, dovette concedergli Gwen, la villa era
terrificante.
Certo, era grande e non affatto banale, con tutti quei aggetti e quelle
decorazioni in stile gotico, ma non faceva affatto per lei. Qualcosa
nell’aspetto di quel posto le metteva i brividi soltanto a
guardarla, forse per
il fatto che aveva trovato quello stile sempre molto inquietante; in
quel
momento avrebbe voluto risalire in auto e tornare al sicuro nel suo
modesto ma
confortevole appartamento.
Tuttavia il lavoro chiamava e lo sguardo deciso di Jack non ammetteva
repliche.
“Be’,
che aspettiamo?” chiese Owen, aprendo la
strada a tutto il gruppo e salendo i pochi gradini che lo separavano
dal
portone d’ingresso. Gli altri lo seguirono senza fiatare e il
Capitano inserì
la grossa chiave nella serratura girando un paio di volte
finché non udì lo
scatto.
“Wow!”
esclamò Rhys non appena ebbe varcato la
soglia. Il suo sguardo corse immediatamente attraverso la stanza
cadendo su
ogni dettaglio: i quadri appesi alle pareti che mostravano i mezzi
busti di
personaggi sicuramente importanti, le teste d’angelo che
ornavano quasi ogni
angolo, dai soprammobili sugli scaffali alle maniglie delle mensole, il
lampadario enorme che faceva bella mostra di sé in salotto,
i tappeti con
fantasie complicate, la scala dal corrimano elegante che portava al
piano
superiore… se il piano inferiore era così,
chissà come erano le altre stanze! E
la polvere e le ragnatele di certo non nascondevano tutta quella
ricchezza,
appartenuta a chissà quale erede di una famiglia importante.
Rhys
appoggiò le valigie vicino al basso tavolino in
salotto e si buttò sulla prima poltrona che gli
capitò a tiro, saggiandone la
comodità e la morbidezza. “Non ti piacerebbe
vivere in un posto del genere?”
chiese eccitato rivolto a Gwen. “Mi accontento anche di
qualcosa di più modesto.
Qui sarebbe troppo silenzioso”, gli rispose la ragazza
accomodandosi accanto a
lui. “Be’, gli schiamazzi e le risate dei bambini
la riempirebbero”, fu la sua
contro-risposta, ma Gwen a quelle parole si rabbuiò un
po’ ed evitò il suo
sguardo.
Entrambi furono distratti da Jack che aveva spalancato le imposte delle
finestre per far passare un po’ di luce e aria, non
aspettandosi che queste
emettessero tutto quel cigolio. Dopotutto, era da un po’ che
non venivano
aperte.
“L’ultimo
proprietario di questa residenza era stato
un certo Sir John Mallerick”, iniziò Tosh tenendo
il cellulare di fronte a sé
“figlio di un eminente personaggio politico dal quale
l’ha ereditata negli anni
venti. Il padre a sua volta l’ha ereditata dalla famiglia e
così fino al milleseicento,
quando la villa è stata costruita. Adesso è di
proprietà di questo comune del
Galles che ha cercato di venderla più di una volta, senza
mai riuscirci, a
causa di certe storie sui fantasmi che girano”.
“E
che a quanto pare non sono infondate”, aggiunse
Owen osservando i soprammobili sul caminetto. “Tutti quelli
che hanno trascorso
qui la notte giurano di aver sentito grida di bambini e non hanno
più voluto
metterci piede”.
“Quindi
avremo ancora a che fare coi fantasmi?”
chiese Ianto, ricordando la sua ultima esperienze con qualcosa di
simile e
subito sentì i brividi corrergli lungo la schiena.
“I
fantasmi non esistono”, lo rassicurò Jack
dandogli una pacca sulla schiena e afferrando la propria valigia
insieme a
quella del compagno. “E ora andiamo a prenderci le
stanze”.
Le
stanze, come tutti avevano immaginato, rendevano
giustizia al piano inferiore: ogni stanza aveva un piccolo caminetto e
un letto
a baldacchino sorretto da colonne a intarsio. E, tanto per non essere
da meno,
anche lì c’erano teste d’angelo che
ornavano quasi tutti i mobili, la testiera
del letto, l’armadio, i cassetti… ricordavano
vagamente i visi dei bambini.
Il
gruppo si riunì in cucina, decisamente meno ricca
rispetto alle altre stanze della sala, per cenare e discutere della
missione. I
sofisticati computer che tenevano al Nucleo avevano rilevato un picco
di
energia della Fessura in quegli ultimi giorni e così avevano
deciso di farci
una capatina per quel fine settimana. A Jack non ci era voluto niente
nel farsi
dare le chiavi dal custode.
Purtroppo per lui anche Rhys aveva deciso di unirsi, il quale, da
quando Gwen
gliene aveva parlato, non aveva voluto sentire ragioni e aveva
rimarcato
diverse volte che sarebbe stato divertente e che era da un
po’ che non
passavano un fine settimana insieme, lontano da casa. La moglie gli
aveva detto
che si trattava solo di lavoro e che non sarebbero comunque restati da
soli,
visto che c’era tutto il team, ma per Rhys faceva lo stesso e
aveva detto che
sarebbe stato divertente comunque. E che una caccia agli alieni o a
qualche
altra strana creatura misteriosa era quello che gli ci voleva.
“Allora,
pensi che troveremo qualcosa di
interessante in questo posto?” chiese Ianto, sdraiandosi sul
letto accanto al
Capitano, una volta che i due si furono ritrovati da soli nella propria
stanza.
“Non
saprei. Promette bene”, fu la risposta sommessa
dell’altro, intento a guardare il baldacchino sopra di
sé. Creava un’atmosfera
decisamente romantica.
Il
ragazzo si voltò verso di lui e rimase a
osservare il suo profilo. “Che c’è che
non va?”
Jack
lo guardò confuso. “Perché pensi ci sia
qualcosa che non va?”
“Sei
pensieroso”.
“Non
mi hai mai visto pensieroso?”
Ianto
sorrise dolcemente. “Sì, ma non
così”.
Jack,
allora, per scongelare la situazione e creare
un’atmosfera più favorevole, una di quelle che
piacevano a lui, si sollevò di
scatto e si mise a cavalcioni sopra il compagno, evitando di
poggiarcisi con
tutto il peso. Poi calò sul collo di Ianto e
cominciò a baciarlo.
“Jack?”
lo chiamò questi con voce roca. Faticò a
trattenere una risatina quando questi gli solleticò un lembo
di pelle con la
propria lingua. Il Capitano si mise a slacciargli i bottoni della
camicia e,
quando arrivò all’ultimo, gliela aprì
ben bene scoprendo il suo petto pallido e
liscio. Poi cominciò a baciarlo anche lì,
saggiandone ogni pezzo finché non
arrivò alla pancia dove un piccolo rigonfiamento faceva
bella mostra di sé.
Jack baciò anche quella, delicatamente, e Ianto gli
affondò una mano tra i
capelli, gustandosi la loro consistenza tra le dita. L’altro,
allora, smise di
baciarlo e rimase col mento appoggiato sopra all’ombelico.
“Spero
si sbrighi ad uscire”, sussurrò ma nel
silenzio della stanza era perfettamente udibile.
“Sei
così impaziente?” gli chiese Ianto sorridendo.
“E’
mio figlio, ovvio che sono impaziente”.
Suo
figlio… era la prima volta che Jack lo diceva e
forse la prima volta che lo considerava tale. E Ianto lo adorava. Gli
piaceva
quando diceva certe cose e gli piaceva il modo in cui le diceva. Non
credeva si
sarebbe mai innamorato così intensamente, non dopo Lisa.
Eppure…
“Potrebbe
anche essere una bambina”, lo contraddisse
cercando di non mostrare tutta l’emozione che provava.
“E’
lo stesso. Basta che mi somigli”.
“Non
abbiamo ancora pensato a un nome”.
A
quella constatazione Jack ammutolì di colpo e
assunse di nuovo la sua espressione misteriosa. “Prima o poi
ci verrà in mente
qualcosa”, concluse poi, tornando a sdraiarsi sul letto
affianco a Ianto, una
mano poggiata sulla sua pancia scoperta.
Rimasero
per un po’ in silenzio, ascoltando solo il
rumore del vento che sbatteva contro le finestre.
“Jack?”
“Hmmm?”
“Ti
amo”.
Jack,
che aveva chiuso gli occhi, li riaprì di colpo
e li puntò in quelli altrettanto chiari del compagno.
“Non dirlo con quel
tono”.
“Che
tono?”
“Quello
che hai appena usato. Come se fosse l’ultima
volta che me lo dici”.
Ianto
sospirò. “Be’, chi lo sa… con
quello che
facciamo non si sa mai cosa può succedere”.
“Sta’
zitto!” gli intimò il Capitano affondando il
viso nella sua spalla. “Non dire queste cose. Non dire
più che mi ami”.
“E
perché no?”
“Perché
di no”.
Il
ragazzo prese ad accarezzare la schiena
dell’altro sentendo diverse sensazioni agitarsi dentro di
lui. Quand’è che Jack
era diventato così dolce? Quella era forse la prima vera
dimostrazione del
fatto che a lui ci teneva, che ci teneva davvero.
“D’accordo”,
concluse infine, stringendosi di più a
lui.
Gwen
sedeva e fissava il proprio riflesso nello
specchio posto sopra a uno di quei tavolini di legno che servivano per
il
trucco. Aveva trovato una vecchia spazzola in uno dei cassetti, non una
spazzola comune, ma una di quelle da antiquariato. Doveva essere
appartenuta
alla padrona della villa.
La prese in mano e cominciò a pettinarsi delicatamente i
capelli, sentendosi
proprio come lei. Provò a immaginarsela, seduta
lì davanti allo specchio a
pettinarsi i suoi splendidi capelli, magari biondi e lunghi, proprio
come stava
facendo lei in quel momento. Sicuramente aveva avuto una bellissima
pelle
chiara e liscia, come quella delle bambole di porcellana. E di certo
indossava
dei bellissimi vestiti eleganti e gioielli preziosi.
Accarezzò delicatamente il retro della spazzola e
l’immagine della donna le
passò davanti agli occhi come un lampo che illumina il
cielo.
Improvvisamente
Rhys aprì la porta della stanza
facendo prendere un colpo a Gwen che balzò sulla sedia.
L’uomo non si accorse
di nulla.
“Questo posto è strepitoso. Ci sono un sacco di
stanze, ci vorrà un’intera
giornata per visitarle tutte”.
Gwen si voltò a guardarlo con una strana espressione, come
se lui non dovesse
essere lì.
“Che c’è tesoro? Stai bene?”
le chiese il marito, accorgendosi del suo viso
diventato improvvisamente pallido. Lei non gli rispose subito. Dopo un
po’ però
gli sorrise rassicurante, mostrando la sua dentatura bianca.
“Sì, sto bene.
sono solo un po’ stanca”.
“Andiamo
a dormire”, suggerò Rhys allora, scostando
le coperte del grande letto a baldacchino. “Domani ci aspetta
una lunga
giornata”.
I
due si infilarono sotto le coperte, rabbrividendo
contro le lenzuola fredde. Poi spensero le lampadine sui comodini e si
strinsero l’uno all’altro, aspettando che Morfeo li
cogliesse tra le braccia.
Le testoline d’angelo che decoravano il letto e gli altri
mobili li guardavano
con i loro occhi di marmo nell’oscurità. Ma Gwen e
Rhys non potevano vederli.
Tosh
camminava per i
corridoi della villa, reggendo una candela in mano. Non
aveva idea di
dove fosse l’interruttore delle luci e in ogni caso non le
andava di
accenderle, rischiando di svegliare tutti. Così ora vagava
come un fantasma, in
pigiama e a piedi nudi. Ridacchiò tra sé e
sé per la situazione piuttosto
comica.
Si sentiva come dentro a uno di quei film horror che parlano di spiriti
e lei
ne era la protagonista.
Improvvisamente
sentì uno soffio di aria fredda
colpirle il viso e rimase bloccata sul posto, rabbrividendo. Le
sembrava che ci
fosse qualcosa dietro di lei e non aveva il coraggio di girarsi. La
fiamma
della candela si spostò verso sinistra e minacciò
di spegnersi.
Allora
Tosh, molto lentamente, girò il capo verso
destra e si accorse che una delle finestre era aperta. Esalò
un sospiro di
sollievo. Il soffio d’aria che aveva sentito era il vento che
stava soffiando
fuori e che stava facendo sbattere le tende.
Si stava lasciando suggestionare un po’ troppo; non era da
lei.
Posò
la candela sul davanzale e chiuse velocemente
la finestra. Poi proseguì la sua esplorazione, affrettandosi
ad attraversare il
corridoio.
Non si accorse, però, che un paio di occhi freddi la stavano
scrutando
dall’alto.
Una
volta raggiunto il salotto, Tosh si imbatté in
Owen, seduto sul divano al buio. Per poco non le venne un colpo e
immediatamente si portò una mano alla maglia del pigiama.
Non si aspettava di
trovare il ragazzo lì, altrimenti si sarebbe messa qualcosa
di un po’ più
carino e non quell’orribile pigiama di flanella appartenuto a
sua nonna.
Possibile che dovesse sempre vederla in situazioni imbarazzanti?
“Tosh!”
esclamò lui. “Che ci fai qui?”
“Non
riuscivo a dormire”.
“E
perché hai una candela in mano?”
La
ragazza non sapeva come ribattere a questa
domanda, così si limitò a posarla sul tavolino
davanti al divano e a sedersi in
una piccola poltrona raccogliendo le gambe contro il petto. Sembrava
che avesse
davanti uno sconosciuto poco affidabile, anziché Owen.
“Questa
casa mette i brividi”, commentò lei,
cercando di fare una battuta e togliere quel silenzio imbarazzante.
“Già”,
fu l’unica risposta da parte dell’amico che
non la stava neanche guardando. Probabilmente non era in vena di
chiacchiere.
L’unica luce che illuminava la stanza era quella della
candela, perciò gran
parte della stanza era immersa nell’oscurità.
Tuttavia riusciva a scorgere il
profilo di Owen e si accorse che era seduto in una posizione piuttosto
rigida,
la schiena dritta, le mani poggiate sulle gambe e lo sguardo perso a
guardare
qualcosa di fronte a sé.
“Ti
va un bicchiere di latte?” chiese allora
Toshiko, tanto per avere qualcosa da fare.
“Si,
perché no?” Finalmente il ragazzo si era girato
nella sua direzione e le stava mostrando un po’ di interesse.
“Vado
a prenderlo in cucina”.
La
ragazza si alzò con uno scatto e cominciò a
camminare in direzione della cucina. Ma proprio quando stava per
superare la
soglia, un grido perforò le pareti della casa.
Tornò in salotto di corsa e rimase a guardarsi attorno.
“Che cos’è stato?”
“Non
lo so. Proveniva dal piano superiore!” esclamò
Owen precipitandosi verso le scale.
Jack
e Ianto si erano appena addormentati quando
avevano sentito qualcuno urlare. Proveniva dalla stanza di Gwen e Rhys
e
sembrava proprio che fosse stata la ragazza ad aver gridato.
Il
Capitano raggiunse la loro porta per primo e
cercò di entrare, ma quella era chiusa a chiave.
“Aprite!”
gridò ai due che erano chiusi dentro,
battendo i pugni sul duro legno. In quel momento vennero raggiunti
anche da
Owen e Toshiko. Sentirono dei passi avvicinarsi alla porta e qualcuno
che
girava il chiavistello. Jack tentò un’altra volta
di aprire la porta. Ma ancora
niente. “Aprite questa dannata porta!”
“Non
si apre!” gli gridò di rimando la forte voce di
Rhys.
“Spostati!”
fece Owen, spingendo il Capitano di
lato. Cominciò a tirare la maniglia verso di sé
cercando di romperla e, quando
non ci riuscì, prese a dare spallate alla porta.
“Così
ti fai male, Owen!” gli fece notare Tosh, la
voce spezzata dal panico. Stava succedendo qualcosa in quella stanza e
loro non
riuscivano a capire cosa.
Improvvisamente, Gwen lanciò un altro grido e tutti rimasero
raggelati. Owen
riprese a colpire la porta, questa volta con i calci.
A quel punto il chiavistello scattò e la porta si
spalancò facendo ruzzolare il
ragazzo a terra.
Jack,
Ianto e Tosh si precipitarono dentro posando
subito gli occhi su Gwen che se ne stava seduta sul letto, pallida e
sudata,
gli occhi scuri spalancati verso il soffitto.
“Che
cos’è successo?” chiese Ianto sedendosi
di
fronte a Gwen e sporgendosi verso di lei. Si erano di nuovo riuniti
tutti in
cucina; la ragazza sedeva al tavolo con un bicchiere di latte in mano.
Sembrava
più tranquilla e aveva recuperato un po’ di
colore, ma tremava ancora.
Alzò
lo sguardo su Ianto e puntò i suoi occhi scuri
in quelli chiari di lui. “C’erano…
c’era qualcosa nella stanza”.
“Che
cosa?”
“Come…
come dei fantasmi”.
Gli
altri presenti si lanciarono degli sguardi
confusi, come se si stessero dicendo mentalmente che Gwen tutto
d’un tratto
fosse impazzita.
“Non
sto scherzando. C’era una faccia nel mio
cuscino”.
“Che
tipo di faccia?”
“Non
lo so. Era come coperta da un lenzuolo, ma
potevo distinguerne il profilo. E poi qualcosa è passato sul
soffitto. Una… una
persona, non lo so. È stato tutto molto veloce. Ma
c’era qualcosa, dovete
credermi!”
“Ti
credo!” esclamò Jack e lei si voltò a
guardarlo
con espressione grata, come se sapesse che adesso tutto si sarebbe
sistemato.
Rhys
si sedette accanto alla moglie e le pose un
braccio attorno alle spalle. Lei lasciò andare la testa
contro la sua spalla.
“Che
cosa sarà stato, Jack?” chiese Ianto rivolto al
compagno.
“Non
ne ho idea. Ma lo scopriremo!”
Senza
aspettare nessuno, il Capitano corse verso le
scale, diretto al piano superiore. Tosh fu l’unica a
seguirlo, mentre Owen e
Ianto si diressero in salotto.
“Owen,
cerchiamo anche noi qualcosa”, disse Ianto,
guardandosi attorno con fare circospetto.
“E
cosa vuoi che cerchiamo?”
“Non
lo so, qualsiasi cosa. Guarda nei cassetti,
negli armadi… vedi se trovi qualcosa di sospetto”.
“Potremmo
metterci tutta la vita, visto quanto è
grande questo posto”, si lamentò il dottore,
tuttavia fece come aveva detto
Ianto e cominciò ad aprire dei cassetti. L’altro,
invece, si avvicinò al
camino, attirato dai putti che lo decoravano. Erano sparsi per tutta la
casa,
quei cosi, c’erano quasi in ogni angolo. Dovevano essere
stati la decorazione
preferita dei vecchi proprietari. Solo che quelli sul camino erano
diversi,
sembravano… Ianto si abbassò per guardarne uno da
vicino, soffermandosi sugli
occhi di marmo, quando a un tratto gli parve di veder muoversi
qualcosa.
Scosse il capo cercando di tornare in sé. Doveva essere
stata la stanchezza a
causargli l’allucinazione.
Lanciò
un’occhiata all’interno del camino dove
c’erano ancora della cenere e dei ciocchi di legno e scorse
qualcosa che
spuntava dalla cenere grigia. Non era un ciocco di legno.
Si inginocchiò e immerse le mani nella cenere. Ce
n’era parecchia.
“Ianto,
hai finito di giocare con la sabbia? Ho
trovato qualcosa”, fece Owen, chiudendo di scatto un cassetto.
“Anche
io credo di aver trovato qualcosa”.
Il
dottore raggiunse l’amico e prese in mano quello
che il collega gli porgeva: era qualcosa di lungo e liscio, con una
forma
concava.
“Che
cos’è?”
“Dimmelo
tu”, soffiò Ianto mentre un terribile
sospetto gli stava passando per la testa. Scavò ancora nella
sabbia per vedere
se c’era altro e ne tirò fuori quella che sembrava
essere una mano. O meglio,
lo scheletro di una mano, una mano molto piccola a cui mancavano un
paio di
dita, però era proprio una mano.
Ianto la lasciò cadere e si tirò indietro con uno
scatto.
In quel momento l’orologio a pendolo batté
l’una ed entrambi i ragazzi
balzarono sul posto.
“Cristo!”
esclamò Owen osservando la mano. “Qui è
decisamente successo qualcosa”.
“Vai
a chiamare Jack”.
“Avete
trovato qualcosa?” chiese il Capitano non
appena ebbe sceso le scale.
“Abbiamo
trovato delle ossa nella cenere del
camino”, lo informò Ianto.
“E
io ho trovato delle foto”, aggiunse Owen buttando
sul tavolo le suddette foto.
Jack
le prese in mano le foto e le guardò
attentamente: erano in bianco e nero, molto vecchie,
tant’è che tutte erano un
po’ rovinate, macchiate qui e là e coi bordi
frastagliati. Tuttavia le figure
si vedevano ancora bene e chiaramente rappresentavano quella che doveva
essere
una famiglia, con i due genitori e i figli. La cosa strana,
però, era che in
ogni foto c’era dei bambini diversi.
“Che
significa?” chiese Jack guardando il suo team.
“I
due adulti nelle foto sono gli ultimi proprietari
della casa”, iniziò a spiegare Owen. “Ma
chi sono tutti quei bambini?”
“Ho
fatto una rapida ricerca”, aggiunse Gwen. “E ho
trovato degli articoli che dicevano che i Mallerick avevano avuto dei
figli,
alcuni che sono nati morti e altri deceduti a causa di malattie o
incidenti
domestici. In ogni caso, nessuno di loro è riuscito a
superare i sette anni”.
“Ma
io pensavo che la moglie del Signor Mallerick
non potesse avere figli”, la contraddisse Tosh.
“Questo
era quello che dicevano. A quanto pare non
volevano che queste disgrazie si venissero a sapere. Ho trovato quegli
articoli
in mezzo ad alcuni file molto riservati”.
“Jack!”
chiamò Ianto, fermo vicino al camino. “Lo
scheletro della mano che abbiamo trovato sembra essere quella di un
bambino”.
Il
Capitano si avvicinò al camino e osservò la mano
che era stata posata in un angolo. Poi rovistò tra la
cenere, finché non scoprì
un piccolo anello circolare di ferro arrugginito. Lo tirò
verso di sé aprendo
una piccola porticina quadrata che celava una specie pozzo o
nascondiglio.
“E’
una botola? Quella è una botola?”
esclamò Rhys
con gli occhi spalancati. “Una botola nel camino!?”
“C’è
una scala”, notò Jack ignorando le parole di
Rhys. “Vado a vedere cosa c’è
lì sotto. Voi restate qui”.
“Vengo
con te, Jack”, disse Ianto afferrando subito
una torcia. Jack gli lanciò una strana occhiata, ma non
disse niente. Scese le
scale fino in fondo e poi aiutò il compagno. Quando entrambi
toccarono il
terreno, il Capitano accese la torcia e si guardò attorno.
“Sembra
un sotterraneo”, osservò il gallese,
osservando le pareti di roccia piene di muffa e umidità.
Davanti a loro si
estendeva un lungo corridoio piuttosto buio e stretto.
“Perché improvvisamente
mi sembra di essere entrato in una storia di Edgar Allan
Poe?”
“Dai,
andiamo”, lo incitò Jack, precedendolo lungo
il tunnel.
Per
un po’ camminarono in silenzio, concentrati più
che altro su eventuali rumori e su quello che c’era attorno a
loro. Ma a Ianto
non piaceva tutta quella calma, perciò sbottò di
nuovo: “Perché ti sei
cambiato?” Il ragazzo solo in quel momento aveva notato che
Jack aveva di nuovo
indossato i suoi soliti vestiti da soldato; doveva averlo fatto quando
era
tornato al piano superiore con Tosh. Lui invece era rimasto con la sua
tenuta
da notte.
L’altro
lo guardò come se avesse chiesto la cosa più
stupida del mondo. “Preferivi che andassi in esplorazione in
pigiama?”
“Be’,
io sono in pigiama”.
“Sì.
E ti sta anche bene. Sei sexy”.
Ianto
sorrise tra sé e sé e non disse altro. Era sempre il solito, Jack,
mai una volta che
lo prendesse sul serio. Non che la cosa gli dispiacesse…
A
dispetto di quello che sembrava, non dovettero
camminare a lungo. Salirono qualche rampa di scale e poi giunsero ad
una
piccola porta in metallo, molto vecchia ma ancora resistente. Era
chiusa a
chiave così Jack dovette colpire la maniglia con la porta
per romperla e far
scattare la serratura.
La prima cosa che saltò loro agli occhi fu la
quantità di scheletri e ossa sparse
per la stanza. Non erano tantissimi, ma abbastanza per impressionarli.
La cosa
ancora più terrificante era che sembravano appartenere a dei
bambini. E al
centro della stanza c’era una specie di enorme boiler che
quasi sfiorava il
soffitto.
“Che
cos’è?” chiese Ianto.
“Sembra
essere un amplificatore di energia”, rispose
il Capitano, gli occhi puntati sull’oggetto.
“Io
non ci sto capendo niente”, sbottò Rhys
frustrato, buttandosi sul divano con un sospiro.
Gli
altri si scambiarono diversi sguardi ma nessuno
disse niente. Gwen, seduta accanto al marito, si passò una
mano sul viso
stancamente.
Calò
di nuovo il silenzio nel salotto, interrotto
solo dal ticchettio ritmato del pendolo. Si respirava un’aria
pesante.
A un tratto Owen si alzò in piedi e si stropicciò
i capelli. “Non ce la faccio
più a stare qui. Vado da Jack e Ianto”.
“Owen!”
lo chiamò Tosh, ma lo sguardo, anziché
guardare lui, era posato sul mobiletto di fronte a lei.
“Quegli angeli si sono mossi”.
“Cosa?”
“E’
vero!” concordò Gwen, avvicinandosi ai putti che
decoravano i cassetti del mobile. “Avevano la testa girata
dall’altra parte
prima”. Proprio nel momento in cui lo disse, una figura
trasparente che aveva
chiaramente le sembianze di una persona, sbucò
dall’angelo e le venne addosso.
La ragazza urlò e cadde a terra.
“Gwen!”
gridò Rhys cercando di raggiungerla, ma
un’altra figura uguale alla precedente lo bloccò
volandogli tutt’intorno. Anche
gli altri vennero attaccati da quelle strane creature dalle sembianze
umane che
volavano ed emettevano una strana luce fluorescente, come
un’aureola.
Sembravano dei veri e propri fantasmi. Ed erano centinaia.
Tosh
e Gwen si avvicinarono l’una all’altra cercando
di proteggersi, mentre Owen si buttò per terra e
sparò due colpi con la pistola
per cercare di colpirne qualcuno. Ma come aveva immaginato, i
proiettili li
trapassarono.
“Voi
ci avete disturbati!” dicevano le creature con
voce sibilante. “Andate via! Andate via! Andate
via!”
“O
vi uccideremo tutti”.
Uno
dei fantasmi si fiondò su Gwen e spalancò la
bocca in un urlo disumano a poca distanza dalla sua faccia. La ragazza
impallidì di colpo e rimase paralizzata dalla paura.
Gli oggetti nella stanza cominciarono a volare dappertutto, sollevati
dal vento
che stavano causando gli spettri volando velocemente attorno al
lampadario.
Continuavano a sghignazzare con le loro voci stridule.
“Vi
uccideremo tutti!”
Improvvisamente
dei colpi di pistola sconquassarono
le pareti della stanza e i fantasmi, come spaventati da qualcosa, si
dileguarono alla velocità della luce attraversando i muri. I
ragazzi si
voltarono nella direzione da cui avevano sentito provenire il colpo,
aspettandosi un’altra minaccia; invece trovarono solo Jack e
Ianto, il primo
con la pistola ancora puntata al soffitto e l’altro con uno
sguardo raggelato.
Ci
volle qualche attimo perché tutti quanti
riuscissero a riprendersi. Owen si massaggiò la testa dove
l’aveva sbattuta e
Tosh si sistemò la maglietta del pigiama. “Che
cosa diamine erano quei cosi?”
“Fantasmi?”
“No,
non credo fossero fantasmi”, disse Jack,
riponendo la pistola nella fondina e piazzandosi in mezzo alla stanza,
le mani
sui fianchi. “Io e Ianto abbiamo trovato un amplificatore di
energia. Non so
che cosa esattamente ci facessero i proprietari ma è uno di
quelli che vengono
usati nelle navi spaziali. E poi…”, si interruppe
per lanciare un’occhiata
d’intesa al compagno, al che il giovane gallese
poggiò sul tavolo una specie di
piccolo taccuino in cuoio nero. “… abbiamo trovato
questo diario. Apparteneva
al Signor Mallerick e ci annotava… annotava il nome dei suoi
figli e il modo in
cui sono morti. A quanto pare era lui ad ucciderli”.
“Che
cosa?! Uccideva i suoi figli?!” esclamò Tosh
con espressione sconvolta e disgustata.
“Sì,
ma sembra che fosse stato costretto. E forse
questi fant… queste creature c’entrano
qualcosa”.
“Dobbiamo
scoprire cosa sono e perché sono qui”,
sbottò Owen in tono deciso.
“Forse
sono gli spiriti di quei bambini che…”,
ipotizzò Tosh ancora tremante.
“Non
esistono i fantasmi!” la interruppe il dottore
sgarbatamente.
“Ragazzi…”,
chiamò allora Rhys.
“Probabilmente
sono alieni, se pensiamo
all’amplificatore di energia”, proseguì
Jack.
“Ragazzi…”.
“Sì,
ma… che razza di alieni possono…”.
“Ragazzi!”
urlò a quel punto Rhys spazientito.
“Che
c’è?” Il Capitano lo guardò
con espressione
frustrata.
“Gwen
ha qualcosa che non va”. Solo allora Jack
cominciò a prestargli attenzione. Gwen era seduta sulla
poltrona, lo sguardo
puntato in avanti, in un punto indefinito. Sembrava essere caduta in
trance.
L’uomo le si avvicinò, scostando il marito
piuttosto sgarbatamente. “Gwen?” la
chiamò scandendo bene il suo nome. “Gwen, mi
senti?” Le schioccò due dita
davanti al viso, ma lei non reagì.
“Gwen,
tesoro?” fece Rhys.
A
quel punto Gwen spostò gli occhi dal punto che
aveva continuato a fissare e li posò su Jack. La sua
espressione era fredda e
glaciale. Piegò le labbra in un sorriso sghembo, malvagio.
“La vostra Gwen se
n’è andata”.
Tutti
i presenti spalancarono gli occhi, spaventati.
“Questo non è divertente, Gwen!” la
rimbeccò Owen, inginocchiandosi accanto a
lei.
“Sta’
zitto! Non vedi che è posseduta?” gli
urlò
Rhys, furioso. Aveva le lacrime agli occhi e un’espressione
disperata.
Maledetto Torchwood! Era sempre colpa sua. “Fa’
qualcosa, Jack!”
Gwen
scoppiò in una risata malvagia. “Poveri illusi.
Siete così ingenui”.
“Chi
siete?”
“Non
lo sai?” la testa della ragazza si piegò di
lato, gli occhi erano ridotti a due fessure che sembravano pronti a
mandare
lampi. Chiaramente non era più lei. “Siamo caduti
qui, con la nostra nave. E
abbiamo fatto il meglio che abbiamo potuto. Per sopravvivere”.
“Sopravvivere?
Come?” Jack la teneva per le spalle;
temeva che gli sarebbe sfuggita.
“Avevamo
bisogno di corpi, corpi caldi e vivi”. La voce
di Gwen si era trasformata in un sibilo serpentesco che stava mettendo
i
brividi a tutti quanti.
Jack
alzò lo sguardo sui suoi compagni; una luce di
comprensione gli aveva improvvisamente illuminato gli occhi.
“I bambini! Avete
posseduto i bambini dei Mallerick! Il Signor Mallerick però
se n’era accorto
per questo li aveva uccisi tutti”.
“Quell’inutile
umano continuava a intralciarci”.
“Ma
perché siete rimasti qui? Questa casa è
disabitata da anni”.
Gwen
storse la bocca, disgustata. Evidentemente
considerava quella domanda stupida e inutile.
“Perché non eravamo abbastanza
forti per uscire fuori. Ma adesso…”. Di nuovo mise
su l’espressione di malvagia
soddisfazione. “Adesso lo siamo. E usciremo fuori per
occupare i corpi di tutti
quei stupidi umani”.
Delle
risate malefiche si levarono da ogni angolo
della casa e le creature fluorescenti comparvero nella stanza, uscendo
dalle
pareti o dai mobili, per mettersi a girare intorno alla stanza. Infine,
si
riunirono attorno al soffitto e lo oltrepassarono.
Anche Gwen, spingendo via Jack affinché le lasciasse le
spalle, sparì in un
fascio di luce azzurrognola.
“Dov’è
andata?” chiese Rhys, mal celando la sua
paura e la sua preoccupazione.
“Penso
di sapere dove sia andata”.
Senza
aggiungere altre spiegazioni, Jack corse verso
le scale, seguito dagli altri che avevano già iniziato a
preparare le armi.
Percorsero tutto il corridoio fino a giungere ad una porta
più piccola delle
altre. “Qui abbiamo trovato l’amplificatore di
energia!” spiegò Jack. “Hanno
bisogno di questo per uscire”. Dalla stanza si sentiva
provenire un suono di
voci, risate e strani sibili e rumori meccanici.
“Dannazione!
Ha chiuso la porta!” esclamò il
Capitano, tirando la maniglia.
“Fai
provare me!” Rhys lo scostò e si mise a
martellare contro la porta. “Gwen, apri questa
porta!”
“Non
è Gwen. Non ti darà ascolto!”
“Ma
riusciremo a recuperarla, vero? Lei non è… non
è…”.
Jack
non poté fare a meno di vedere l’espressione
disperata e sconvolta dell’uomo, tuttavia non
seppe come rispondergli. Non aveva idea di cosa facessero
quegli alieni
una volta entrati dentro il corpo di qualcuno. Poteva solo sperare che
tutto si
risolvesse per il meglio.
“Tieni,
Jack! Usa questo!” Tosh gli passò un piccolo
oggetto quadrato con strani ganci attaccati ai lati. Lui lo prese in
mano e lo
poggiò sulla porta.
“Che
cos’è?” chiese Rhys.
“E’
un artefatto alieno che abbiamo trovato in un
vecchio magazzino. Può aprire tutte le porte, di ogni
tipo”, spiegò la
giapponesina.
“Anche
quelle blindate?”
“Certo”.
Jack
schiacciò qualche pulsante e la porta si aprì
con un cigolio. In mezzo alla stanza trovarono
quell’amplificatore a forma di
boiler e Gwen che schiacciava dei pulsanti posti sopra di esso.
Tutt’intorno a
lei volteggiavano le creature.
“Fermati!”
“E
perché dovrei?”
“Non
ci penso proprio!”
Il
Capitano si voltò verso Rhys e lo guardò con
l’espressione più dispiaciuta che fosse in grado
di fare. In quel momento
sembrava essere crollata la sua corazza imperturbabile e i suoi occhi
mostrarono la loro vera età e tutto ciò che
avevano visto. “Mi dispiace”. Tirò
fuori un coltello dalla tasca e, lanciatosi addosso a Gwen, la prese da
dietro
stringendola forte con le braccia. Infine, con un colpo deciso,
piantò il
coltello nel suo stomaco facendola boccheggiare. Il suo corpo si
illuminò di
una luce azzurra e l’alieno che l’aveva posseduta
la lasciò andare, unendosi ai
suoi compagni che stavano ancora volando per la stanza.
“Owen,
pensaci tu!” gridò Jack, lasciando Gwen nelle
mani del dottore.
“Tu
puoi fermare quella macchina?” chiese il
ragazzo, guardando la macchina con occhi preoccupati. Questa aveva
cominciato
ad emettere sbuffi e sibili e sembrava che stesse per scoppiare.
“Sì!” esclamò
Jack, voltandosi completamente verso il suo team. “Ma voi
dovete uscire da qui
il più in fretta possibile”.
Gli altri non se lo fecero ripetere due volte e abbandonarono la
stanza, Owen e
Rhys che sorreggevano Gwen. Soltanto Ianto esitò, ma
un’occhiata decisa del
Capitano lo convinse a seguire gli altri.
Rimasto
solo, Jack si inginocchiò sul pavimento e
infilò la testa sotto l’amplificatore, trovando
proprio quello che cercava: il
serbatoio. Ed era pieno di benzina.
Estrasse un accendino dalla tasca e lo accese, puntando la fiammella
proprio al
centro del serbatoio. Gli alieni, capendo il suo piano, cercarono di
impedirglielo, lanciando oggetti contro di lui, ma il Capitano
riuscì ad
evitarli tutti.
Infine, strisciò fuori chiudendo la porta dietro di
sé. Corse verso le scale,
mentre la stanza dietro di lui esplodeva in un gran boato e potenti
fiamme.
I
cinque membri del Torchwood insieme a Rhys
guardavano la villa divorata dal fuoco. Le fiamme l’avevano
abbracciata
piuttosto in fretta e le finestre e il tetto avevano cominciato a
crollare.
Presto non ne sarebbe rimasto più niente. E insieme a lei
sarebbero morti anche
le creature intrappolate lì dentro, mentre loro erano al
sicuro, lontano da
essa.
“State
tutti bene?” chiese Jack. “Gwen stai
bene?”
“Sì”,
rispose la ragazza appoggiata al Suv perché
Owen le potesse curare la ferita.
“No
che non sta bene, figlio di puttana!” gridò Rhys
guardando Jack con sguardo omicida. “L’hai
accoltellata. L’hai quasi
ammazzata”.
“Rhys!”
lo chiamò la moglie. “Lascialo stare. Non
poteva fare altro”.
“Questo
lo crede lui”.
“Mi
dispiace, Rhys”.
Forse
Rhys aveva ragione, ma quella era stata l’unica
soluzione che gli era venuta in mente, per fermare il disastro e anche
per far
uscire quell’entità dal corpo di Gwen. Dopotutto,
aveva cercato di non colpirla
in un punto troppo vitale.
Ianto
mise l’acqua del tè sul forno e si
asciugò le
mani con uno straccio. “Una cosa che mi chiedo”,
sbottò ad un tratto voltandosi
verso Jack che se ne stava seduto al tavolo da pranzo. L’uomo
alzò gli occhi su
di lui con fare curioso. “Perché seppelliva i suoi
figli in casa. Il signor
Mallerick, intendo”.
“Forse
perché erano i suoi figli e non voleva
separarsene”.
Il
ragazzo rabbrividì al ricordo degli scheletri che
avevano trovato. “Che coraggio, però, ammazzare i
propri figli. Insomma, era
proprio necessario? Gwen non è dovuta morire per esserne
liberata”.
“Probabilmente
pensava che fossero posseduti dal
demonio e che l’unico modo per liberarsene fosse ucciderli.
L’hai letto anche
tu il suo diario, stava impazzendo”.
“Già,
sarà così”. Ianto
lasciò il tè a bollire e si sedette accanto a
Jack. Questi gli mise una mano
attorno alle spalle, lasciandolo poggiare la testa sulla sua spalla, e
portò
una mano ad accarezzargli la pancia di quasi cinque mesi.
Il cielo fuori dalla finestra si stava rannuvolando; forse quel giorno
avrebbe
piovuto.
MILLY’S
SPACE
Buonsalve,
sì, lo so, è da un secolo che non aggiorno. Ma
ho avuto così tanti impegni. Non posso far altro che
porgervi le mie più
sentite scuse, sperando che questo capitolo vi sia piaciuto e che abbia
compensato la mia assenza.
Non
voglio tediarvi troppo, perciò vi lascio andare. Volevo
solo provi un quesito: secondo voi sarà un maschio o una
femmina? Intendo il
bambino di Jack e Ianto. Sono curiosa di sapere che cosa pensate voi.
Provate a
sparare, vediamo ^^ tanto io ho già deciso.
E ricordatevi anche di venirmi a trovare sulla mia pagina facebook che
si
chiama Milly’s Space. Potete lasciarmi lì le
vostre recensioncine, se volete. O
parlarmi di qualsiasi altra cosa, sono sempre disponibile ad ascoltare
: )
Un
bacione,
M.
LORI
LIESMITH:
wow, allora considero la tua recensione un vero onore. Scusami
se ti ho fatta attendere. Fammi sapere. Un bacio, Milly.
HELLOSWAG:
oddio, metti via quel coltello ^^ ho aggiornato, un po’ in
ritardo, ma ho
aggiornato. Eh sì, Jack e Ianto sono dolcissimi. Purtroppo
non riesco a evitare
di inserire scene fluff, ma cerco comunque di rimanere abbastanza nei
caratteri
dei pg. Anche se forse non ci riesco del tutto. Va be’, dimmi
che ne pensi. Un Bacio,
M.
AMAYAFOX91:
mi
sarebbe piaciuto vedere uno sviluppo simile nella serie, comunque.
Potrei
telefonare a Davies e propormi di scrivere la sceneggiatura per la
quinta
stagione di Torchwood ^^ troverei un modo per far tornare Ianto. Ahaha.
Un
abbraccio, M.