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Autore: Michan_Valentine    27/07/2014    5 recensioni
Hojo risveglia Vincent Valentine dal coma ben prima degli avvenimenti di Final Fantasy VII, ansioso di dedicarsi al Progetto Omega. Un anno dopo, Sephiroth ha sei anni e non vuole mangiare.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Sephiroth, Vincent Valentine
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun gioco
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Progetto Jenova: 6 anni dopo.

Barcollò appena, arretrando. Quasi inciampò sui suoi stessi piedi. Gli mancava il fiato; le piccole labbra schiuse in cerca d’aria. Ma, per quanto inspirasse, l’ossigeno sembrava non bastargli mai. Deglutì, tremò e si strinse nelle spalle. Il sudore gli inumidiva la pelle e gli scivolava lungo la schiena. Il cuore gli batteva furiosamente nel petto e lo assordava, squarciando la patina ovattata che gli aveva annebbiato il cervello nel momento in cui aveva afferrato il vassoio. E che l’aveva reso cieco e sordo a qualsiasi altra cosa esulasse da quel preciso impulso.

Batté le palpebre e mise a fuoco l’immagine innanzi a sé, come se la vedesse per la prima volta soltanto in quel momento. L’inserviente stava raggomitolato a terra, sui cocci e sul cibo sparsi, con le braccia disperatamente avvolte attorno al capo. Sotto di lui, s’allargava una densa pozza di sangue. Abbassò lo sguardo e fissò quanto teneva fra le mani. Lo stesso rosso spiccava sullo spigolo metallico del vassoio, dipanandosi in schizzi lungo tutta la superficie. Quel colore così vivo lo colpì con la violenza di uno schiaffo e lo riportò completamente alla realtà. Di rimando boccheggiò e avvertì una morsa attanagliargli lo stomaco. Panico.

Lasciò cadere il vassoio, che si abbatté sul pavimento con rumore metallico. Percepì le gambe cedere, la testa vorticare e finì sul pavimento accanto all’uomo e all’oggetto insanguinato. L’aveva… ucciso? Non sapeva rispondersi. L’inserviente gemette, si fece più piccolo e scongiurò l’eventualità paventata. Ciononostante non si sentì rassicurato; non quando urla e passi provenivano dal corridoio. Sarebbe arrivato anche lui, lo sapeva. E ne aveva il terrore. L’avrebbe rimproverato. L’avrebbe punito. E ognuna delle possibilità rafforzava la tenaglia che gli comprimeva lo stomaco. Quasi vomitò, allorché i primi assistenti di laboratorio irruppero nella stanza e gli sciamarono attorno. Fra loro riconobbe due paramedici.

Sollevò il capo e incappò in individui che si chinavano, si protendevano verso di lui. In facce anonime, prive d’espressione. In occhi che lo osservavano da vicino, senza pudori. In mani che lo toccavano, in bocche che gli parlavano, senza che potesse afferrare il significato delle parole. Dei dati. Si dimenò appena, rifiutando il contatto, e spostò lo sguardo più in là, sull’uomo a terra. E la domanda gli si delineò nella mente: “Perché?” Era soltanto un bambino, ma capiva che quella situazione era strana. Surreale. Non era lui a essersi fatto male, eppure si trovava al centro dell’attenzione. E nessuna di quelle persone sembrava curarsi di ciò che aveva fatto. Di chi aveva colpito.

“Basta!” strillò; e si divincolò con più decisione.

Si alzò, barcollò e scansò malamente da sé uno dei paramedici. Approfittò del varco per sfuggire alla cerchia di assistenti; ma di fatto non c’era luogo in cui avrebbe potuto rifugiarsi. O sentirsi al sicuro. E tutto il suo mondo si riduceva a quell’asettica, spoglia stanzetta bianca; ai corridoi luminosi e ai laboratori che puzzavano di disinfettante.

Raggiunse il letto e vi scivolò sotto, lontano da quelle mani, da quegli occhi. Si rannicchiò su se stesso, strinse i piccoli pugni e serrò anche le palpebre, cercando di estraniarsi. Forse, se fosse rimasto sufficientemente zitto e fermo, quelle persone sarebbero scomparse. O sarebbe scomparso lui. Si concentrò sul proprio respiro. Dentro e fuori. Fuori e dentro. Lo ascoltò e si tranquillizzò man mano, mentre le voci e i rumori circostanti divenivano solo una vaga, lontana consapevolezza.

Schiuse lentamente le palpebre e tornò ad adocchiare quanto stava accadendo tramite la bassa visuale che il letto gli offriva. Vide dei piedi e le ruote di una barella: i paramedici stavano portando via l’inserviente. Poco più in là, un altro addetto stava chino sul pavimento a ripulire il sangue. A ogni passata lo straccio disegnava sulla superficie ampie strisce rosate. Rabbrividì; ma quando sentì il suono stridulo di quella voce un nodo andò direttamente a occludergli la gola. Stava arrivando! E il suo misero nascondiglio poco avrebbe potuto contro di lui, il professore.

“Ah! Che spreco.” gli sentì dire; e le sue parole andarono a perforargli le orecchie, il cervello per quanto erano stridule.

Lo scienziato scansò con il piede la coscia di pollo che si trovava sul suo cammino e mosse i primi passi all’interno della stanza, le mani rigorosamente giunte dietro la schiena. Di rimando trattenne il respiro.
Da quella prospettiva poteva distinguere poco altro di Hojo, a parte le scarpe e il margine inferiore del camice. Ciononostante poteva benissimo immaginare l’espressione contrariata del suo viso aspro ed emaciato. O l’irritazione che pervadeva ogni fibra del suo corpo rachitico e curvo, così devoto alla ricerca. Ma, soprattutto, poteva intuire a cosa stava pensando: “Che seccatura”.

“È da ieri che rifiuta il cibo.” a parlare era stato uno degli assistenti “Sappiamo che è impegnato, professore, ma abbiamo ritenuto opportuno avvisarla. Ha aggredito l’inserviente addetto ai pasti, così…”

“Precisamente. Sono molto impegnato.” l’interruppe l’altro, scandendo lentamente parole e concetti “È mai possibile che un intero branco di adulti non riesca a gestire un solo bambino?” domandò, sferzante e retorico; poi si lasciò scappare un verso di stizza e soggiunse “E dimmi… è morto?”

“Prego?” fece l’altro.

“L’inserviente.” specificò Hojo con noncuranza “L’ha ucciso?”

“N-no.” balbettò l’assistente, forse confuso dalla domanda; poi si affrettò a essere il più esauriente possibile “Ma se non fossimo sopraggiunti sarebbe indubbiamente deceduto per dissanguamento. Sembra che l’abbia colpito ripetutamente sulle gambe. E che poi abbia infierito… fino a spaccargli il cranio.”

Interessante.” fu il semplice e assorto commento “E dov’è ora? Non ho tempo da perdere con i suoi capricci. E solo perché voi siete un branco d’incapaci sovra stipendiati! Immagino che sia qui sotto…” fece; e sollevò il margine delle coperte.

Istintivamente si ritrasse, nel disperato tentativo di sfuggirgli. Dopotutto, per quanto desiderasse, non poteva diventare né invisibile, né incorporeo. Anche chiudere gli occhi, stringere i pugni e far finta che fosse un incubo non sarebbe servito a niente, se non a rimandare l’inevitabile. Gli altri non sarebbero scomparsi. Lo sapeva, anche se nel buio quel pensiero riusciva spesso a confortarlo.

Sephiroth.” il suo nome pronunciato da quella voce gli strappò un brivido e un sussulto; suo malgrado sgranò gli occhi e puntò i piedi ai margini del letto “Esci immediatamente da lì. Devi nutrirti.”

Scosse la testa, senza trovare il fiato per replicare. Non voleva mangiare; l’aveva detto anche a quell’inserviente così insistente.

“No!” strillò poi, riacquistando coraggio.

“Ah! Piccolo stupido! Non ti rendi conto di quanto tu sia prezioso?! Sei un bambino speciale e ti comporti come un deludente e ordinario moccioso! Ma se credi di poter agire di testa tua e di vanificare così il mio ingegnoso operato ti sbagli di grosso!”

L’ira trapelò dal tono dello scienziato e rese la sua voce ancora più alta, più stridula. E decisamente meno rassicurante. Con orrore vide la mano dell’altro infilarsi sotto il letto e spalancare le dita, pronto ad afferrarlo e a trascinarlo fuori con la forza. Serrò gli occhi e si preparò al peggio. L’ultima volta che aveva disobbedito Hojo gli aveva portato via fogli e pastelli. La volta prima ancora il suo unico giocattolo: un vecchio, consunto orsetto di pezza cui mancava un occhio e un orecchio. Ma stavolta non c’era altro di cui avrebbe potuto privarlo, perciò l’avrebbe preso a schiaffi.

Attese col cuore in gola; ma i secondi si susseguirono velocemente e ciò che si era prospettato non accadde. Riaprì gli occhi, titubante e un po’ sorpreso.

“Non ho tempo da perdere con queste sciocchezze.” stabilì lo scienziato; e ritrasse l’arto tanto temuto “Infilategli un ago nel braccio e nutritelo con la flebo.” soggiunse, allontanandosi alacremente.

“Prima di ricorrere alla flebo potremmo far tentare lui.” intervenne l’assistente.

Hojo arrestò il passo ed esitò in prossimità dell’ingresso, volgendo leggermente la punta dei piedi all’interlocutore. Il tempo si stiracchiò, lasciandolo sulle spine.

“Sì! Sì, certo!” esclamò infine lo scienziato; e gli sembrò inquietantemente entusiasta “Fatelo uscire.”

Non capì il riferimento, ma sapeva che stavano parlando di Vincent. Al solo pensiero sentì il cuore battergli più impetuosamente, più dolorosamente nel petto e le lacrime salirgli agli occhi; ma le trattenne, ostinato. A maggior ragione non poteva uscire da lì. Non dopo quello che aveva fatto. Non voleva che l’altro lo guardasse e vedesse che cos’era realmente. Se ne vergognava. E le iridi dell’altro era già così tristi…

Ingoiò il magone, aggrottò le sopracciglia e s’imbronciò. Determinato. Dal suo nascondiglio continuò a osservare il via vai di assistenti e inservienti, finché il pavimento non tornò perfettamente bianco e la stanza completamente vuota. Una manciata di minuti più tardi la porta si riaprì e Vincent Valentine lo raggiunse come da ordini. Di rimando l’odore di minestra calda si spanse nell’ambiente e andò a stuzzicargli l’olfatto.

Ingollò a vuoto; ma perseverò sulle sue posizioni. Immobile. L’altro si avvicinò al comodino e vi poggiò sopra il vassoio con il cibo; dopodiché si accomodò sul margine del letto. La rete cigolò appena e il materasso s’incurvò sotto il suo peso.

“Non vuoi proprio uscire?” chiese Vincent, il tono calmo. E caldo.

Scosse di nuovo la testa.

“Vattene!” replicò “Lo so perché sei qui! Non ho fame!”

“Io sono qui per stare con te. Ci penserà il signore che sta arrivando a farti mangiare.”

Strabuzzò gli occhi, interdetto. Si era aspettato una risposta diversa e molta più insistenza da parte sua. E invece… sentì le guance scottare, contento che fosse lì soltanto per stare con lui. Magari avrebbe potuto chiedergli di raccontargli la sua favola preferita… Accennò un sorriso; tuttavia l'allusione al signore che stava per arrivare smorzò il suo entusiasmo e lo preoccupò un po’. Di chi si trattava? Forse era uno degli uomini di Hojo. Di sicuro non si trattava di un altro inserviente, non dopo quello che era successo…

“Chi è questo signore?” chiese.

“Lo vedrai.” fu la rapida, elusiva risposta.

Si morse il labbro, intimorito ma sempre più curioso. Fece forza sulle braccia e scivolò leggermente più avanti, i gomiti puntati sul pavimento e i pugni chiusi.

“E quando arriva?”

“Al momento giusto. È puntuale come un orologio. Non sbaglia mai.” rispose Vincent.

Doveva essere un tipo preciso, rigoroso; e Vincent sembrava certo del fatto che sarebbe riuscito a farlo mangiare. Ma lui era stanco dei dottori, delle iniezioni e dei test psicologici. Era stanco di starsene sempre rinchiuso in quella piccola, spoglia stanzetta tutto da solo e di obbedire agli ordini. Voleva vedere il cielo, sentire il sole sulla pelle e giocare all’aria aperta. Voleva essere normale, come i bambini che aveva visto di lontano e di nascosto da una delle finestre del laboratorio. E, soprattutto, non voleva essere il bambino speciale di Hojo.

Sbucò con la testa da sotto il letto e puntò Vincent dal basso. Di rimando l’altro chinò lo sguardo e lo fissò dritto negli occhi. Il rosso di quelle iridi era ancora più caldo di quanto ricordasse; e quasi si sentì in colpa per quanto stava per dirgli.

“Anche se dovesse arrivare, non mangerò.” puntualizzò.

“Chissà...” commentò l’altro, affatto preoccupato; e arricciò leggermente gli angoli della bocca verso l’alto.

Sorrise di rimando, sgusciò fuori dal suo nascondiglio e si alzò in piedi. Tuttavia l’accenno sulle labbra dell’altro si spense in fretta e nei suoi occhi comparve una luce meno brillante. Inclinò il capo e corrucciò le sopracciglia, chiedendosi che cosa gli fosse preso tutto d’un tratto; poi la domanda di Vincent gli schiarì le idee e gli ricordò perché avrebbe dovuto restarsene nascosto sotto il letto.

“Sephiroth…” fece l’altro, scrollando il capo, le spalle “Perché hai colpito l’inserviente?” chiese.

Non lo stava accusando. Né rimproverando. Quella che percepiva nel tono di voce era genuina preoccupazione. Lo sapeva. Eppure davanti a quello sguardo non poteva che sentirsi in colpa. E sbagliato. Perché fra tutti era l’unico che aveva deluso davvero. Ma non poteva farci niente. Non era riuscito a fermarsi, era stato un impulso più grande, più forte di lui; e quando si era accorto di ciò che stava facendo, era ormai troppo tardi.

“Non è colpa mia!” strillò quindi; e s’irrigidì, stringendo i pugni “Gli avevo detto di andare via! Gli avevo detto di riprendersi il vassoio e il suo stupido pollo! Ma lui niente! Mi ha fatto arrabbiare e… e…”

“Stava solo facendo il suo lavoro. Voleva che mangiassi perché si preoccupava per te.”

No! Non voleva ascoltare. Perché se l’avesse fatto avrebbe dovuto dargli ragione e si sarebbe sentito anche peggio. Avvertì gli occhi bruciare, la gola chiudersi e il respiro accorciarsi; mentre le mani di Vincent Valentine si protendevano verso di lui, forse presagendo le lacrime. Le scansò malamente da sé. Non doveva piangere. Perché al professore dava fastidio.

“Non è vero!” lo contraddisse poi, scuotendo furiosamente il capo; e sentì suo malgrado caldo e umido scivolargli lungo le guance “È solo un trucco! Se avessi ubbidito loro mi avrebbero fatto un’altra puntura! È sempre così! E mi guardano e mi toccano! E non mi fanno mai uscire! E…”

Stavolta le braccia dell’altro lo raggiunsero e l’avvolsero in una vigorosa, calorosa stretta. Si divincolò ancora; inutilmente. Di rimando singhiozzò più forte, smise di opporre resistenza e si rifugiò sul petto dell’altro. Si aggrappò alla camicia di Vincent, affondò con il viso fra la stoffa e pianse, pianse. E pianse ancora. Unicamente confortato dalle dita che gli carezzavano la cute, i capelli e quella voce gentile che di tanto in tanto andava a sussurragli: “Ssh”.

Quando si calmò e tornò a sollevare la testa, ad attenderlo c’erano ancora quegli occhi rossi, che lo fissavano dall’alto con tranquillità. Era cosi strano potersi abbandonare all’amarezza quando gli era stato ripetuto di non fare i capricci fino alla nausea… Tirò su col naso, si stropicciò gli occhi ed eliminò i residui delle lacrime.

“Vincent?” fece.

“Mh.”

“Non volevo colpire l’inserviente.” si giustificò infine.

“Lo so.”

Silenzio. Si sentì svuotato. Capito. E pensò che l’indomani avrebbe chiesto scusa all’addetto ai pasti.

“Mi racconti la favola della Principessa Triste?”

Un velo di malinconia intaccò i lineamenti di Vincent. Ciononostante l’altro si posizionò a ridosso della tastiera del letto e gli fece più spazio accanto a sé. Accennò un sorriso e si arrampicò sul materasso. Lo raggiunse e si accoccolò nuovamente sul suo petto, le piccole braccia serrate attorno alla vita dell’altro. Da quella posizione poteva sentire il cuore di Vincent pulsare, forte. Socchiuse gli occhi. Si sentiva così stanco…

“C’era una volta una Principessa bellissima, che viveva in un palazzo nascosto fra le montagne… un giorno ella rivolse la parola ad un soldato, ed egli rimase ammaliato dai suoi occhi, dalla sua cristallina risata. E pensò: “Tutto quello che voglio, è vederla sorridere per sempre”. Ma il soldato non immaginava che il cuore della Principessa fosse colmo di tristezza…”

Cullato da quella voce, da quella presenza rassicurante e dal ritmico pulsare di quel cuore si addormentò; e sognò di una donna bellissima, con un sorriso bellissimo e delle calde braccia che lo stringevano affettuosamente.

Si svegliò più tardi, vittima dei crampi. Fece una smorfia, ignorò il fastidio allo stomaco e cercò d’inseguire le immagini di quel sogno, quasi potesse afferrarle e tenerle per sé. Riaprì gli occhi poco dopo, sconfitto. Vincent lo stringeva ancora a sé; e puntava gli occhi dritti sullo specchio a muro, mandibola contratta. S’inquietò, allorché riconobbe in quello sguardo le cupe sfumature dell’odio. Un attimo soltanto; poi gli occhi rossi dell’altro calarono su di lui e riacquistarono la solita, rassicurante lucentezza. Batté le palpebre, confuso. Tuttavia non fece in tempo a indagare che lo stomacò tornò a brontolargli sonoramente. Istintivamente corrucciò le sopracciglia, le labbra e andò con lo sguardo al vassoio che stava sul comodino. Tanto più che quel fantomatico signore non era più venuto per obbligarlo a mangiare…

“Quel signore non è puntuale per niente.” osservò “È meglio che mangi un po’, mentre lo aspetto.”

Vincent rilasciò un piccolo sbuffo e abbozzò un sorriso. Non capì.

“A quanto pare il Signor Appetito è appena arrivato.” rivelò invece l’altro; e gli fece schiudere le labbra dalla sorpresa.

***
 
Hojo poggiò contro lo schienale della sedia e si rilassò. I suoi occhiali riflettevano sinistramente la luce della stanza attigua. Oltre lo specchio a muro, le cose si stavano svolgendo esattamente come aveva programmato. Nonostante le occhiate di fuoco di Valentine. Non c’era da stupirsene, comunque: i suoi calcoli erano sempre impeccabili. Da quel punto di vista, poi, le menti semplici non lo deludevano mai. Ed era curioso, quasi affascinante, vedere come il pensiero e il comportamento di un individuo variassero a seconda dell’interazione proposta. E il bambino si era nutrito. Chissà, forse fra mostri c’era un’affinità che esulava dalle concezioni puramente scientifiche cui faceva sempre riferimento.

L’assistente sollevò il capo, lo sguardo dalle cartelle che stava compilando alla scrivania lì di fianco e interloquì: “Sta mangiando autonomamente. Incredibile! Sinceramente non credevo che avrebbe accettato il mio consiglio e che avrebbe permesso al Soggetto CG di vedere Sephiroth. Non dopo i due tentativi di fuga.”

Fece una smorfia. Quell’idiota aveva interrotto il flusso dei suoi pensieri; e solo per dar aria alla bocca nella maniera più banale e inutile possibile. Gli aveva dato quel consiglio, certo; ma non si era spinto oltre. Non era approdato a nessuna, geniale intuizione che superasse il mero scopo di sfamare il suo piccolo, disubbidiente figliolo.

Sciocco!” sibilò quindi “Se ci basassimo sempre su vecchi dati e trascorsi risultati non arriveremmo mai da nessuna parte. Ingabbieremmo la nostra mente e chiuderemmo i nostri occhi davanti a chissà quante possibilità. Accontentarsi significa essere ciechi! E un cieco non può scorgere la grandezza che si cela oltre il fallimento! Esso è un limite. E come tale va superato!”

L’assistente distolse lo sguardo, chinò il capo e si schermì subito: “Naturalmente, professore. Stavo solo constatando che lo stratagemma ha funzionato.”

Ghignò. Certo che aveva funzionato. E avrebbe funzionato meglio in seguito. C’era una lezione da impartire e Sephiroth avrebbe dovuto impararla a dovere. Non gli avrebbe permesso di disobbedirgli ancora o di mandare a monte i suoi progetti per lui; e soltanto perché era un piccolo testardo che non comprendeva la fortuna e il grande onore che gli erano toccati. Anzi, che lui gli aveva offerto su di un piatto d’argento. Giocare? Uscire? Ah! Erano tutte sciocchezze, una perdita di tempo. E suo figlio era destinato a grandi cose. A riempirlo di orgoglio e di gloria, tanto per cominciare.

“Tu non te ne andrai, vero? Non scomparirai come ha fatto il Dottor Gast, vero? Promettilo.” fece il bambino, tirando Vincent Valentine per la manica della camicia.

Li osservò quasi con disgusto attraverso il vetro, mentre la sua creatura implorava l’affetto e l’approvazione di quell’inutile Turk. Che smidollato! Che avesse sei anni non importava, ovviamente.

“Te lo prometto.” rispose l’altro; come se fosse la cosa più naturale e ovvia del mondo.

Rise e scosse il capo, come un padre avrebbe fatto dinanzi all’estrema ingenuità dei propri figli. Tuttavia avrebbe permesso loro di crogiolarsi in quella fantasia ancora per un po’. Bastone e carota, dicevano alcuni. Bene, il tempo del bastone sarebbe giunto al momento più opportuno. E li avrebbe colpiti così duramente da trasformare in veleno il dolce ricordo della carota. E Sephiroth avrebbe infine capito; e fatto tesoro delle sue lezioni.
 
Salve. oo' Ok, non saprei che dire. Sinceramente spero che sia decente. Intanto vorrei fare giusto un paio di precisazioni. La prima: Vincent è da immaginarsi in versione Turk. Quindi col capello corto e senza il mantello rosso. Lol. La seconda: Sephiroth è un bambino, ma non è così infantile. Me ne rendo conto. Ciononostante resta un bambino speciale, perciò mi è sembrato naturale dargli delle sfumature un po' più mature. A parte ciò, vorrei precisare che la storia si dipanerà negli anni e che alla fine il nostro argentato raggiungerà i diciotto anni. oo O giù di lì... potrebbero aumentare in corso d'opera. xD 
Ok, credo sia tutto. Per ora la storia mi sembra strana. Non so se è solo una mia impressione! °A° Intanto ho immaginato uno dei possibili finali... e anche questo mi è sembrato strano. oo Sto ancora ponderando, comunque, perché nel caso non sarebbe propriamente un finale dolce. oo'''' Spero che la "stranezza" di questa storia non vi abbia deluso... ^^''' Intanto Hojo li asseconda... cosa avrà in mente? xD Stupido Hojo. <-< (°A° Come osi? Io sono un genio! ndHojo)
CompaH
   
 
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