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Autore: funnyforever    01/08/2014    1 recensioni
La scena si svolge all’inizio de “Il Canto della Rivolta”. Katniss torna al distretto 12, ormai distrutto dal fuoco delle bombe, dal fumo, dalla paura, del terrore che Capitol City ha seminato tra la sua gente. Non è rimasto nessuno. Quel silenzio terrificante, inquietante le imprime la mente di angoscia ed estrema solitudine. Passo dopo passo, tenendo lo sguardo fisso all’orizzonte, per non abbassarlo sulla disperazione del suolo che calpesta, si ritrova al Villaggio dei Vincitori, l’unico posto risparmiato, integro, all’apparenza lasciato nell’oblio. Ma niente è come sembra. Il Villaggio, quel complesso di villette disabitate si rivela in seguito il dolore che sorge ogni giorno nella sua mente, nel suo cuore. Una casa, quella affianco alla sua, quella in cui abitava il ragazzo che le salvò la vita anni prima e che ora è prigioniero a Capitol City, ecco il problema. E passarle di fronte senza versare una lacrima, per Katniss, è impossibile.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti tributes! Eccomi con la mia seconda ff su Peeta e Katniss. Spero davvero che vi piaccia! <3

È tutto grigio qui. Il cielo è ricoperto di nubi, il terreno è rivestito di cenere, l’aria stessa è grigia e deprimente, ed è difficile respirarla. In un certo senso sembra di stare nel 13, dove la monotonia è di casa; mi guardo intorno, anche se non c’è niente da guardare e poi continuo a camminare. Quella che una volta era una strada, ora è un ammasso di cenere, polvere e sassi.

Mi fermo davanti al cancello del Villaggio dei Vincitori. Qui non è successo niente. È tutto come lo avevo lasciato, prima dell’edizione della memoria. È come se ogni singolo mattone, ogni singola trave, ogni singolo elemento che lo compongono sappiano qual è il loro posto. Ad un tratto mi sento fuori luogo. Come se stessi interrompendo qualche strano meccanismo del posto. Come se stessi oltrepassando una linea vietata agli estranei. Perché è questo sono qui, un estraneo, di certo non un Vincitore.

Apro il cancello metallico, che emette un gemito a causa della ruggine che ne colora la superficie, e proseguo per il sentiero.

Silenzio.

Accelero il passo e mi reco verso la mia casa. Recupero alcune cose ed esco il più veloce possibile, sperando che l’hovercraft che mi deve riportare al 13 si sia materializzato davanti a casa. Invece niente. Dovrò ripercorrere tutto il distretto, e abituarmi a quello, che anche se ho visto poco fa, mi terrorizza.

Chiudo la porta della casa e recupero una scopa per spazzare via la sporcizia che riveste il piccolo porticato e con delle forbici spunto le erbacce che sono cresciute ai bordi delle scale; lo so che è inutile sistemare la casa, qui non ci tornerò mai più, ma è come se una parte di me non avesse il coraggio di ammetterlo.

- è ora di andarsene- mi dico, mentre mi lascio alle spalle la mia casa.

Con lo sguardo basso e assente mi incammino verso il cancello arrugginito.

È mentre sto per aprirlo che lo sento.

Quel profumo inconfondibile di pane appena sfornato, quasi fosse un velo che mi avvolge le membra doloranti. Come se quel profumo me lo stesse ordinando, mi volto e seguo quella scia di ricordi.

Mi ritrovo davanti alla casa di Peeta.

Sento gli occhi gonfi di lacrime, ma non riesco a piangere. Mi accascio a terra e salgo i gradini gattonando. Mi impongo di alzarmi e cerco nel sottovaso alla mia destra la chiave di riserva.

Eccola.

Quel piccolo oggettino argentato, insignificante agli occhi delle persone. Ma non ai miei.

Una chiave che mi permetterà di entrare in contatto con Peeta. Una chiave per riaverlo in qualche modo con me.

Con le mani che tremano come foglie secche in autunno, ci metto un po’ a centrare la serratura, ma alla fine ci riesco.

Respiro profondamente. Spingo la maniglia e apro la porta.

Non ero mai stata in casa di Peeta. Prima del tour della vittoria non ci salutavamo neanche. Ignorarsi era il nostro modo di comunicare, e solo ora mi rendo conto di quanto io sia stata stupida.

Il profumo è cessato.

Mi concedo tre spiegazioni: o sono pazza, o ho le allucinazioni, oppure il mio corpo non ha ancora smaltito la morfamina che mi hanno iniettato i dottori del 13. Probabilmente tutte e tre le opzioni sono corrette.

Avanzo lentamente nella luce soffusa della casa. Davanti a me, si estende un corridoio che termina con le scale, che portano al piano superiore.

È identica alla mia casa.

A sinistra c’è la cucina. Apro la dispensa e come immaginavo trovo confezioni di farina ben sigillate, di zucchero e lievito, barattoli di sale accanto al piano cottura e un tavolo immacolato.

Afferro lo schienale di una sedia e chiudo gli occhi, cercando di immaginarmi Peeta che sforna i biscotti, ma questa immagine scompare subito dopo, quando torno alla realtà.

Proseguo la mia visita ispezionando il soggiorno di fronte alla cucina. Poi salgo le scale e mi ritrovo al piano superiore.

Apro la porta e trovo la camera da letto. Mi avvicino e apro le finestre, che illuminano un po’ la stanza. Mi siedo sul letto accarezzando le coperte, che profumano di lavanda.

Poi mi alzo e apro l’armadio. Sfioro con le dita i suoi vestiti. Alcuni li prendo tra le braccia e li annuso per sentire ancora il suo dolce profumo che mi ha cullato tutte le notti sul treno, durante il nostro tour. È in questo momento che mi accorgo di piangere. Le lacrime silenziose si trasformano presto in un pianto disperato, accompagnato da singhiozzi e da quella debolezza che ti fa crollare a terra in pochi secondi. Lentamente sposto i vestiti e mi faccio spazio per entrare nell’armadio. Mi siedo in un angolino avvolta dalle sue camicie, dalle sue giacche.

In qualche modo riesco a calmarmi. Le lacrime diminuiscono, ma il dolore è ancora molto forte.

Mi sfrego gli occhi ed esco dall’armadio, dirigendomi verso il suo letto. Tolgo le scarpe e mi ci infilo dentro, lasciandomi cullare dalle coperte. Avvolgo il cuscino con le braccia e affondo la testa nella sua federa immacolata.

Mi ritrovo a fissare il cielo attraverso la finestra. Mi posiziono al centro del letto, con il cuscino appoggiato sul mio petto, aspettando che i singhiozzi svaniscano.

Chiudo gli occhi.

Peeta è sdraiato alla mia sinistra e guarda il cielo con me.

Mi volto verso di lui, perdendomi nei suoi occhi celesti. Mi accenna un sorriso e poi torna a guardare il cielo.

Ad un tratto un raggio di sole riesce a scappare dalle nuvole, illuminando la stanza di una luce candida e rassicurante. Per un momento credo davvero che le cose si sistemeranno.

Mi volto verso Peeta, ma lui è svanito, e con lui anche quella luce.

Decido di alzarmi. Mi fa troppo male stare qui.

Scendo le scale reggendomi forte allo scorrimano, certa di cadere da un momento all’altro.

Mi ritrovo sul porticato. Chiudo la porta e nascondo la chiave nel portavasi, lasciandomi la casa alle spalle.

Sono di nuovo sul vialetto. Apro il cancello del villaggio ed esco. L’hovercraft atterra a una decina di metri da me.

Gale mi aiuta a salire. Non ha intenzione di chiedermi come sto, lo sa benissimo.

Sorvoliamo il distretto. Nessuno parla. Io me ne sto in un angolo ad osservare l’orizzonte, mentre quello sprazzo di luce torna a fare la sua comparsa.

Da questa visita ho capito solo una cosa: Peeta potrà essere anche a migliaia di chilometri da me, ma lui è il mio il raggio di sole, quel raggio di speranza, di sicurezza, che mi protegge dalla solitudine, e che né le nuvole e né Capitol City potranno mai oscurare.

Non smetterà mai di illuminarmi, sarà sempre accanto a me.

  
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