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Autore: Alaska__    01/08/2014    7 recensioni
Era contento che fosse crollato, così sarebbe potuto scappare dall’altra parte della città, per visitarla. Se ne sarebbe andato da casa e non avrebbe più visto suo padre, lui non lo avrebbe più picchiato e Niklas sarebbe stato felice. Negli anni si era immaginato ogni particolare della Berlino Ovest, credendola un luogo di pace e felicità, dove i papà non picchiavano i figli e dove tutti erano liberi di giocare a pallone ogni giorno, senza dover fare i compiti a casa. Nella Berlino Ovest, le persone morte diventavano angeli e stavano sempre accanto ai loro cari, per proteggerli da tutto ciò che di brutto vi era nel mondo.
Berlino, 1989.
Sullo sfondo della metropoli tedesca divisa dal Muro, scorrono le giornate di Niklas, un bambino con una vita non troppo facile. Ma tra tanta bruttezza, il piccolo si sforzerà di trovare qualcosa che lo faccia sentire al sicuro: gli angeli. Perché, si sa, le cose belle si nascondono sempre dietro l'angolo, anche se noi non ci facciamo caso.
Prima classificata al contest "Petali di lacrime" indetto da DarkElf13 sul forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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« Going through this life,
Looking for angels.
People passing by,
Looking for angels.
Walking down the streets,
Looking for angels »
-Skillet; “Looking for angels”
 
Berlino, febbraio 1989.
 
Il bambino biondo fece dondolare le gambe, dando un piccolo morso al brezel che gli aveva cucinato la nonna. I suoi occhi azzurri si posarono sul giornale aperto sul tavolo. Lo lesse, incuriosito. La prima pagina riportava la notizia della morte di un ragazzo, il cui nome era Chris Gueffroy. Era stato freddato da dieci colpi di pistola al petto, ucciso perché aveva tentato di superare il muro di Berlino.
Il bimbo rimase fermo, continuando a leggere quella notizia con la curiosità che cresceva di riga in riga. Di solito, a casa sua non giravano giornali. Suo padre non li leggeva poiché li riteneva stupidi. A dire il vero, suo padre non leggeva mai – quasi quasi neanche le istruzioni per montare un mobile.
«Allora, ti piace, mein Schatz?¹» domandò la nonna, avvicinandosi a lui e scompigliandogli i capelli – cosa non molto utile, considerato che il bambino aveva una zazzera di capelli biondo scuro perennemente spettinata.
«È sempre buono, Oma¹» rispose, dando un altro morso al brezel. Sua nonna era davvero brava a cucinarli, addirittura più della donna che possedeva la pasticceria sotto casa sua. Il bambino aveva rubato una sola volta in quel negozio e aveva giurato che non l’avrebbe fatto mai più.
«Tu sì che mi dai soddisfazioni, Niklas» commentò l’anziana, dandogli un buffetto sulla guancia. Nel sentire quell’affermazione, il bambino si rabbuiò. Non l’avrebbe mai detto, se avesse saputo tutto ciò che combinava il suo unico e adorato nipotino. La donna non sapeva che Niklas rubava ai suoi compagni di classe, nei negozietti e che faceva sempre arrabbiare il papà – così da farsi picchiare. La nonna non avrebbe mai dovuto saperlo, altrimenti il suo papà lo avrebbe picchiato in modo più violento delle altre volte.
Si limitò a stare zitto, continuando a leggere il giornale per sapere qualcosa in più sulla vicenda di Chris. Più procedeva con la lettura, più un milione di domande si faceva largo nella sua mente: cos’aveva provato Chris nel morire? Perché voleva superare il Muro?
E poi arrivò la domanda più importante: aveva provato le stesse sensazioni della sua mamma, quando era morto?
Niklas posò il dolce sul tavolo, improvvisamente sazio.
«Non ne mangi più?» chiese la nonna. Il bambino scosse la testa.
«Non ho più fame» rispose a voce bassa.
Gli capitava spesso, questo: mangiava, ma poi i ricordi e i pensieri tristi lo sommergevano come un’onda in piena, e allora Niklas si sentiva sazio. Quando succedeva, pensava sempre a sua mamma, a com’era andata via troppo presto.
Morta per colpa sua.
Sentì le lacrime formarsi velocemente e dovette mordersi un labbro per non piangere. Ormai era una cosa normale: davanti a suo padre non poteva permettersi di piangere, specialmente quando l’uomo era ubriaco. Lo avrebbe picchiato, poi, sostenendo che gli uomini non piangono e sostenendo che lui non doveva piangere. Il danno ormai era fatto. Lui era nato e sua madre era morta nel darlo alla luce. Era colpa sua.
«Oma?» chiamò sua nonna, a bassa voce. L’anziana si girò, con in mano la padella che stava usando per cucinare.
«Dimmi, Schatzi¹». Niklas abbassò la testa, imbarazzato. Voleva chiederle qualcosa riguardo alla sua mamma, visto che suo padre non gliene aveva mai parlato e, ogni volta che la nominava, i suoi occhi azzurro ghiaccio si posavano sul figlio con aria arrabbiata.
«Com’era la mia mamma?»
Un sorrisino malinconico apparve sul volto della nonna. La signora posò la padella sui fornelli, spegnendoli, per poi sedersi di fronte a Niklas.
«Era una bella donna» rispose, con lo sguardo perso nel vuoto. «Bionda, occhi verdi. Ti assomigliava moltissimo. Era gentile, timida. Forse anche troppo. Ricordo che da piccola non voleva mai conoscere nuova gente perché si vergognava». Una risatina proruppe dalle sue labbra, ma il bambino notò che gli occhi di sua nonna erano pieni di lacrime. Il giorno in cui lui era nato, non aveva perso solo lui qualcuno. Anche sua nonna l’aveva persa. Aveva perso una figlia.
«Secondo te dov’è adesso?» domandò Niklas, sbocconcellando un pezzetto di Brezel. Voleva finirlo, così sua nonna sarebbe stata contenta e non avrebbe pianto.
«In Paradiso» rispose prontamente l’anziana. «Dove vanno le anime buone. Sono sicura che lei è lì, con gli angeli. Lei era un angelo».
«Allora non mi assomigliava» replicò il bambino, a voce bassa.
«E perché mai?»
«Perché gli angeli sono buoni e gentili. Io non lo sono». Si morse il labbro inferiore, trattenendosi dal raccontare tutto alla nonna. Suo padre l’aveva minacciato di non raccontare a nessuno ciò che gli faceva in casa. Non poteva dire nemmeno al suo migliore amico Mark quanto suo padre lo picchiasse, quanto gli dolesse la schiena ogni giorno.
«Ma gli angeli sono anche descritti come dei ragazzi dai capelli biondi e gli occhi azzurri» ribatté la nonna, con un sorrisino. «Proprio come te». Si allungò sul tavolo, per carezzargli dolcemente una guancia.
Niklas abbassò lo sguardo, sentendo le lacrime formarsi agli angoli degli occhi. Lui non amava piangere. Non lo faceva mai, specialmente davanti a suo padre o alla gente che non conosceva. La fama dello smidollato non gli si addiceva. Seppur bambino, Niklas aveva già la fama del duro, di quello che insultava la gente e rubava le merende e i giochi ai suoi compagni di classe. Un vizio molto strano, ma lui non poteva farne a meno: quando osservava un giocattolo che lui non aveva, lo desiderava a tal punto che doveva prenderlo e portarlo con sé.
Di sicuro, gli angeli non si comportavano così. Loro erano buoni, gentili, dolci. Stavano nel cielo con Dio e facevano compagnia alle anime buone. Di tanto in tanto, Niklas provava ad immaginare come fosse il Paradiso, chiudendo gli occhi e liberando la fantasia. Nel suo immaginario, era un luogo bianco, con tante nuvole che parevano panna montata e gli angeli che svolazzavano in giro, suonando qualche strumento musicale e cantando. A scuola aveva imparato che lì andavano solo i buoni: senza ombra di dubbio, anche sua madre doveva essere lì. Lui, invece, era già consapevole del fatto che sarebbe andato all’Inferno.
 
 
Berlino, maggio 1989.
 
La bara troneggiava in mezzo al praticello, dinnanzi ad una lapide spoglia, riportante poche e semplici scritte. Una buca indicava il luogo in cui sarebbe stata calata di lì a pochi minuti, per sotterrare una volta per tutte la nonna di Niklas.
Era morta due giorni prima, in un bianco letto d’ospedale, in una stanza anch’essa bianca. Niklas era rimasto stupito dinnanzi a tutto quel candore. Sembrava quasi rilucere sotto le luci al neon e faceva male agli occhi già colmi di lacrime del bambino.
Quel posto era come il paradiso. Era quella la prima impressione che Niklas aveva avuto, nel mettere piede nella stanza della nonna. Bianco, pulito, ma troppo silenzioso. Gli angeli dell’ospedale andavano e venivano dalle stanze senza parlare, ma rivolgendo dolci sorrisi a chiunque incontrassero. Una di loro aveva persino offerto un brezel a Niklas, mentre vegliava, da solo, sul corpo della nonna, dal quale spuntavano fuori numerosi tubicini. Era buono, quel dolce, ma non come i brezel dell’anziana paziente. Quelli sapevano di amore, di dolcezza, di bontà. Quello dell’ospedale sapeva di compassione.
Niklas odiava la compassione. Detestava vedere la gente che lo guardava con gli occhi colmi di pena, detestava sentirsi appellare con diversi epiteti quali l’orfanello, quello che ruba agli altri bambini oppure quello che da grande sarà un drogato. Peggio ancora erano le maestre e le mamme dei suoi compagni, che lo riempivano di dolcezza come se lui potesse crollare da un momento all’altro.
L’unica persona che poteva trattarlo a quel modo era la nonna, ma era morta. Nel vedere la bara calata nella terra resa umida dalla pioggia, Niklas dovette trattenere per l’ennesima volta le lacrime, lanciando, di tanto in tanto, qualche occhiata spaventata a suo padre. Il signor Brauer – con il volto che era una maschera – stava in piedi, con le braccia incrociate al petto e aveva tutta l’aria di uno che volesse andarsene di lì in fretta. Niklas deglutì, distogliendo lo sguardo. Suo padre era andato lì solo per fargli salutare la nonna un’ultima volta, ma non si era nemmeno preso la briga di consolarlo. E in quel momento, il piccolo ne aveva bisogno. Gli sarebbe bastata anche solo una pacca sulla spalla, una mano poggiata sui suoi capelli o un braccio a cingergli la vita.
L’unica, magra consolazione che poté darsi era che, forse, anche la nonna era diventata un angelo.
Ma lui non l’avrebbe più rivista.
 
 
Berlino, luglio 1989.
 
Il debole chiarore della luna illuminava leggermente il volto di Niklas, mentre un caldo venticello estivo gli scompigliava i capelli.
Appoggiò il braccio sulla sommità della ringhiera, facendo affondare la mano nelle sue paffute guance da bambino. Sbuffò con aria annoiata, osservando le luci ancora accese dei numerosi palazzi di Berlino. In lontananza, si scorgeva il profilo del Mauer, che divideva la città in due grandi parti: Berlino Est e Berlino Ovest. Niklas viveva nella parte est e, di tanto in tanto, amava immaginare come fosse l’altro lato della città. Il luogo dove abitava lui non era di certo bello: era un quartiere malfamato, popolato perlopiù da gente inaffidabile. Di sera, sulle strade, uscivano delle strane donne vestite in modo decisamente curioso e, qualche volta, delle macchine si fermavano per portarle via.
Niklas non aveva saputo chi fossero fino a qualche mese prima, quando suo padre era entrato in casa con una di loro e gli aveva ordinato – con i suoi soliti modi bruschi – di andare in camera sua e di dormire. Non aveva chiuso occhio, quella notte, perché dalla stanza accanto provenivano dei gemiti sommessi e si udiva lo scricchiolare dell’ormai vecchio letto di suo padre. Era solo un bambino, Niklas, ma aveva capito che lui non stava facendo qualcosa di bello. Ragion per cui, ogni volta che vedeva il suo papà che rientrava con una di quelle donne, si rintanava sul tetto e ammirava il lento spegnersi delle luci berlinesi. Anche quella sera era fuggito lì, sperando di trovare un po’ di pace e tranquillità.
Osservò un gruppetto di ragazzi che stava all’angolo della strada. Erano raccolti a capannello e uno di loro teneva un braccio teso verso quello che aveva di fronte. Niklas distolse lo sguardo, sapendo che non avrebbe dovuto guardare cosa facevano. Aveva già assistito a scene del genere e non voleva più saperne.
Alzò lo sguardo verso il cielo, osservando le miriadi di puntini luminosi. Le stelle lo avevano sempre affascinato. Avrebbe tanto voluto andar fin da loro, per osservarle da vicino e poi dirigersi sempre più su, verso il Paradiso. Prima di morire, la nonna gli aveva raccontato che il regno di Dio stava proprio sopra il cielo, sopra le nuvole, sopra tutto, così che Lui potesse controllare tutto ciò che accadeva sulla Terra. Lì con lui c’erano anche gli angeli. E forse, ora, anche sua mamma e sua nonna stavano con loro.
 
 
Berlino, settembre 1989.
 
«Dove cazzo sei stato tutto il giorno?»
Le parole di suo padre lo colpirono come uno schiaffo. Niklas indietreggiò quasi senza rendersene conto, andando a sbattere contro la porta di casa.
«Mi rispondi o no?» chiese rabbioso l’uomo, avvicinandosi pericolosamente.
«Io…» tentò di rispondere Niklas, ma sapeva che le sue parole altro non avrebbero fatto, se non alimentare la rabbia del padre. Fissò quegli occhi azzurri identici ai suoi, che in quel momento erano pieni di rabbia. Il volto di suo padre era rosso – probabilmente anche per tutto l’alcool che aveva in circolo.
Quel giorno, dopo la scuola, Niklas era andato a farsi un giro. L’estate era appena finita, ma le giornate erano ancora lunghe e calde, perfette per uscire a giocare. Aveva commesso il primo furto dell’anno scolastico. Il pallone di un suo compagno di classe nuovo era stato infilato nel suo zainetto con facilità, senza che nessuno lo notasse. Niklas aveva passato l’intero pomeriggio a giocarci, prima di abbandonarlo sotto un cespuglio.
«Io cosa?» Un po’ di saliva finì sulla faccia del bambino, mischiandosi ad una lacrima solitaria che aveva iniziato a solcare la sua guancia.
Stava piangendo davanti a suo padre. Stava facendo ciò che non andava fatto.
«Piangi, piangi pure!» strillò l’uomo, portando una mano all’altezza della vita. Con orrore, Niklas lo osservò mentre si sfilava la cintura. I suoi movimenti erano veloci e precisi e, in un attimo, l’uomo era davanti a lui, con la cinghia ben stretta nella mano destra.
Il bambino tentò di scappare, ma il suo tentativo fu vano. Il padre lo afferrò per la maglietta, gettandolo a terra senza curarsi minimamente di avergli fatto male.
Il primo colpo arrivò quando meno Niklas se l’aspettava. Aveva tentato di rialzarsi, inutilmente, ma la cintura contro la sua schiena lo fece ricadere sul pavimento, con un gemito.
Il secondo colpo fu quasi peggiore.
Niklas si accoccolò contro il pavimento, cercando di proteggersi la testa con le braccia, mentre suo padre gli infliggeva la terza, dolorosa cinghiata. Chiuse gli occhi tanto forte da farsi male, concentrando la mente su qualsiasi altra cosa non fosse la cintura che continuava a battere contro la sua schiena. Pensò alla nonna e ai suoi occhi gentili, alla sua mamma e al sorriso che esibiva nella foto posta sul mobiletto in salotto, a Mark e a tutte le volte che si erano divertiti insieme. Ma tra tanta bellezza continuavano ad insinuarsi i fiori del male e Niklas si ritrovò a riflettere su quanto quei colpi fossero una giusta punizione per lui, perché era stato cattivo, perché, per colpa sua, il suo papà non sorrideva mai.
L’uomo lo alzò da terra, portando il suo volto a pochi centimetri da quello del figlio.
«Non voglio più vederti rientrare a casa così tardi, intesi?»
Niklas tirò su con il naso, distogliendo lo sguardo.
«Intesi?» ringhiò il padre, costringendolo a guardarlo. Il bambino annuì, prima che l’uomo lo gettasse sul divano, con malagrazia.
Niklas rimase fermo. Suo padre andò nella sua stanza, probabilmente a dormire o a guardarsi qualche programma idiota in televisione. Lui rimase in salotto per diverso tempo. Secondi, minuti, ore: non aveva importanza. C’erano solo lui e il suo dolore, sia fisico che mentale. Continuò a piangere, senza mai smettere di singhiozzare, buttando fuori tutta la rabbia che aveva provato negli anni. Si sentiva debole e indifeso, ma, in cuor suo, sapeva di meritarsi quelle botte.
La mamma era morta per colpa sua. Era deceduta nel darlo alla luce, lasciando da soli sia lui che suo padre. Se solo lui non fosse nato, lei sarebbe stata ancora viva, libera di vivere felice con suo marito. L’uomo non sarebbe diventato un alcolizzato, ma sarebbe stato felice.
Era tutta colpa di Niklas e lui, anche se non lo ammise, pensò di meritarsi ogni singola cosa brutta che gli era capitata nella vita.
 
 
Berlino, novembre 1989.
 
Berlino non era mai stata così festosa come quel freddo giorno di novembre. La grande città tedesca – di solito così grigia e cupa, come sempre d’autunno – era un tripudio di luci, colori e schiamazzi.
Dall’alto del tetto, Niklas osservava con aria sbalordita i festeggiamenti, dovuti al tanto aspettato crollo del Muro. Era lì da solo, ma si sentì felice di far parte di quella comunità. Era contento che fosse crollato, così sarebbe potuto scappare dall’altra parte della città, per visitarla. Se ne sarebbe andato da casa e non avrebbe più visto suo padre, lui non lo avrebbe più picchiato e Niklas sarebbe stato felice. Negli anni si era immaginato ogni particolare della Berlino Ovest, credendola un luogo di pace e felicità, dove i papà non picchiavano i figli e dove tutti erano liberi di giocare a pallone ogni giorno, senza dover fare i compiti a casa. Nella Berlino Ovest, le persone morte diventavano angeli e stavano sempre accanto ai loro cari, per proteggerli da tutto ciò che di brutto vi era nel mondo.
Niklas appoggiò timidamente i piedi sulla ringhiera, continuando a scrutare l’orizzonte per vedere come procedevano i festeggiamenti. Quel momento sarebbe stato ottimo per scappare: suo padre era uscito qualche ora prima, lasciandolo a casa da solo.
Tuttavia, una voce proveniente dall’interno dell’edificio lo costrinse a restare lì, fermo dov’era.
«Niklas!» lo chiamava qualcuno. La sua voce era maschile e aveva un tono preoccupato. Non era la voce di suo padre: lui non parlava mai in modo così perché non si preoccupava mai per il figlioletto.
Il bambino fu tentato di correre incontro alla voce, ma qualcosa lo bloccò. Magari quell’uomo era cattivo e voleva fargli del male. Magari era qualcuno che voleva rapirlo. Rimase fermo, con gli occhi puntati alla porta.
«Nik!» La voce, questa volta, era più vicina. Niklas l’aveva già sentita: era un amico di suo padre, ma lui non sapeva il suo nome. Era andato un giorno a casa loro e gli aveva regalato una caramella, che il bambino aveva poi gettato via. Non si fidava degli amici di suo padre, né tantomeno di lui.
L’uomo apparve dopo qualche minuto. Sembrava molto trafelato e scosso.
«Eccoti qui» esclamò, correndogli incontro. Niklas rimase fermo, osservandolo sospettoso. Quel signore non si era mai comportato male nei suoi confronti, ma Niklas non riusciva proprio a fidarsi della sua gentilezza e del suo sorriso aperto – sorriso che, in quel momento, non c’era. L’amico del signor Brauer era triste e aveva gli occhi lucidi.
«Cosa vuoi?» chiese Niklas, cercando di apparire poco spaventato. Il signore si abbassò per guardarlo negli occhi. Li aveva verdi, dello stesso colore delle foglie del parco in estate. Erano occhi buoni e gentili. Aveva gli stessi occhi della sua mamma, come aveva potuto vedere Niklas da una foto.
«È successa una cosa brutta, Nik» annunciò, chiamandolo con il suo soprannome. Al bambino diede fastidio: nessuno poteva chiamarlo Nik, a parte sua nonna e il suo migliore amico Mark.
«Brutta?» ripeté il piccolo, inclinando un poco il capo. Gli risultava impossibile il pensiero che fosse accaduto qualcosa di brutto: era un bel giorno, quello, pieno di festeggiamenti e risate. Come poteva il male spuntare fuori in un momento del genere?
«Orribile». La voce dell’uomo era poco più che un roco sussurro, distorto, forse, dalla tristezza che si poteva leggere sul suo volto.
«Allora dimmi cos’è successo» ordinò il piccolo.
«Papà…», l’uomo fece una pausa, prendendo un bel respiro, «Papà è morto, Nik».
E in quel momento, Niklas capì di essere riuscito a scappare via dai suoi incubi.
 
 
Berlino, dicembre 1989.
 
Nell’abitazione dello zio Yezekael non c’era un albero di Natale, ma solo qualche piccola ghirlanda, appesa qua e là per dare un’aria festosa alla brutta casa in cui viveva.
Niklas soppesò il regalo datogli dallo zio, da cui era andato a vivere dopo la morte del padre. Era il fratello della sua mamma, ma non era bello come lei. Aveva i capelli scuri, perennemente sporchi e l’aria malaticcia. Sull’incavo del suo gomito c’erano numerosi buchetti, come se qualcuno si fosse divertito a infilare e togliere ripetutamente un ago da cucito. Nonostante ciò, zio Yezekael era più buono di suo padre. Non lo picchiava mai e, soprattutto, non lo accusava di aver ucciso sua sorella minore.
Niklas scartò il regalo con aria curiosa e felice. Non aveva mai ricevuto nulla in tanti anni di vita e, finalmente, poteva avere qualcosina di suo.
Era uno skateboard, come quello che aveva il suo compagno di classe più ricco. Non era uno di quelli costosi, ma a Niklas piacque e ringraziò lo zio con un sorriso un po’ stentato.
«Ti piace?» chiese l’uomo. Il bambino annuì.
«Posso andare a provarlo da qualche parte?»
«Sì, ma fai attenzione» assentì Yezekael. Niklas si alzò, tutto contento, spalancando la porta di entrata senza nemmeno infilarsi la giacca.
Lo zio abitava nella Berlino Ovest, in un appartamento piuttosto decadente, nonostante il quartiere fosse molto bello.
Niklas era rimasto piuttosto deluso, una volta giunto dall’altra parte di Berlino. La gente era la stessa della parte est della città: gente dalla faccia impassibile, presa dai mille impegni della giornata; gente senza speranza che viveva una vita totalmente uguale a quella di migliaia di altre persone. I parchi non erano più rigogliosi e bisognava comunque andare a scuola. Ma soprattutto, Niklas non aveva trovato nessun angelo. La nonna non era andata a salutarlo, né tantomeno la mamma. Di suo padre, a Niklas non importava: sapeva che lui non sarebbe mai divenuto un angelo, perché non si era comportato bene, in vita.
Il bambino gironzolò per un po’ nelle vie della città, quel giorno deserte. Tutti erano a casa a festeggiare il Natale. Tutti tranne lui.
Avrebbe tanto voluto festeggiarlo con la mamma, o con la nonna. Zio Yezekael non era male, ma stava spesso zitto e si chiudeva in bagno, per uscirne qualche minuto dopo con aria devastata.
Niklas si era ormai rassegnato a non avere una vita normale. In quel breve periodo passato dallo zio, aveva capito che gli angeli non esistevano. Non scendevano mai sulla Terra e lui non avrebbe mai più rivisto la mamma o la nonna. Suo padre non gli sarebbe mai mancato e sarebbe sempre dovuto andare a scuola. Avrebbe visto Mark meno spesso di prima, a causa del trasferimento, e magari lui si sarebbe trovato altri amici più simpatici.
Niklas sospirò, stringendosi nella sua larga felpa. Era piccolo, ma già aveva capito come andava il mondo.
Non gli restava altro che girare per le strade sul suo skateboard, cercando, inutilmente, di trovare qualche presenza degli angeli.

 




¹ Mein Schatz: tesoro mio. [ Il Schatzi che si trova qualche riga più sotto è una contrazione della parola Schatz ]
Oma: nonna. È un modo colloquiale per dire Großmutter

Alaska's corner

Ave! 
È da un bel pezzo che non scrivo originali e finalmente ne pubblico una. Il protagonista di questa storia - Niklas - è un mio OC che ho usato nel fandom di Hunger Games e - secondo il mio modesto parere - è uno dei miei personaggi meglio riusciti. La storia qua sopra no, non mi è venuta bene :'D Però ci tengo parecchio. 
Comunque, il Chris nominato all’inizio non è un personaggio di mia invenzione. Essendo questa storia ambientata in un contesto storico quale il periodo del Muro, ho cercato qualche piccola informazione e ho scoperto che Chris Gueffroy è stato l’ultimo ad essere ucciso per aver tentato di superare il Muro di Berlino. Invece, quando viene detto che Niklas non riesce a fare a meno di rubare qualcosa è perché lui è cleptomane.
Scrivere dal punto di vista di un bimbo non è semplice – ma anche scrivere da quello di un adulto – quindi, diverse cose dette nella storia non sono proprio scritte esplicitamente, ecco. Ad esempio, credo che voi l’abbiate capito, ma la donna che suo padre porta a casa un giorno è una prostituta. Nella medesima scena, Niklas osserva un gruppetto di ragazzi che si drogano, ecco perché uno ha il braccio teso verso un altro per farsi iniettare qualcosa. Lui abita in uno dei quartieri più malfamati di Berlino e credo che vedere certe cose, ormai, non lo sconvolga nemmeno più, dopo tutto ciò che ha visto a casa sua. Ah, suo padre è morto in una rissa, come avevo scritto nella mia long su HG in cui appare Nik. Ho voluto riprendere la scena dell’amico che andava ad annunciarglielo.
Ultima cosa: lo zio Yezekael è drogato. Esatto, ecco il perché di tutti i buchini nell’incavo del gomito.
Spero che la storia vi sia piaciuta! Personalmente, non ne vado molto fiera perché mi aspettavo di fare di più, ma io ho l’autostima sotto i piedi, ergo non conto.
Niklas è molto mainagioia e anche crescendo gliene capiteranno di tutti colori. Dovevo scrivere la storia dal PoV di un bambino, per via del contest Petali di lacrime, ma non nego che mi piacerebbe scrivere qualcosa su di lui anche da adolescente, perché è soprattutto lì che si notano le ripercussioni della sua vita passata sul suo carattere.
Alla prossima,
Alaska. ~
   
 
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