Like
a complete unknown, like a rolling
stone.
“Once
upon a time you dressed so fine,
You
threw the bums a dime in your prime, didn’t you?
People’d
call, say, «Beware, doll, you’re bound to
fall»
You
taught that they were all kidding you,
You
used to laugh about everybody that was hanging out.
Now
you don’t talk so loud, now you don’t seem so proud
About
having to be scrounging for your next meal.”
I
primi fiocchi di neve sono sempre quelli un po’
più freddi, quando arrivano
alla pelle.
Tutti
li aspettano con ansia, sporgendosi alla finestra senza sosta, col naso
incollato al vetro, come se aspettarli rendesse il loro arrivo
più veloce. Solo
chi è obbligato a viverci sotto, come me, senza
possibilità di riparo, ne
capisce la forza distruttiva. Il dolore. Il freddo che quei minuscoli
straccetti sono capaci di portare, in pochi centimetri quadrati.
Sento
il solito brivido di freddo attraversarmi la spina dorsale.
Lo
reprimo come posso e strofino le mani ripetutamente una contro
l’altra,
alitandoci dentro per ottenere una parvenza di calore. Quasi a volermi
prendere
in giro, il vento si alza, facendo arrivare la neve direttamente su di
me,
incastrata un po’ ovunque.
Mi
stringo come posso nel cappotto lacero, lo stesso da anni.
Troppi
per ricordare.
«Buon
Natale!»
La
voce di un passante mi sbatte addosso, con la stessa violenza del vento
di poco
fa. Mi costringo ad alzare lo sguardo, nonostante la stanchezza, e un
sorriso
brillante entra subito nel mio campo visivo. Un paio d’occhi
gentili, di un
grigio stranamente caldo, abbracciano il mio sguardo con naturalezza,
con la
stessa intesa che di solito si riserva ai vecchi amici.
Una
di quelle persone talmente felici da diventare irritanti.
«Per
me Natale non esiste già da un po’. Ma grazie
comunque.» rispondo, secca.
Il
sorriso dello sconosciuto si spegne per un attimo, scoraggiato dalla
mia
mancanza di spirito natalizio. Se immagino un po’,
già capisco che tipo di
persona c’è davanti a me: padre di famiglia,
trentacinque anni al massimo,
sportivo, sempre pronto ad aiutare il prossimo. Uno di quelli disposti
a
vestirsi da Babbo Natale per far felici i bambini.
«Ti
va di raccontarmi la tua storia?»
«Non
c’è
niente di interessante da raccontare, ti annoierei e basta.»
«Allora
annoiami. Ho tutto il tempo del mondo.» ribatte lui, senza
demordere mai.
«Perché
perdi il tuo tempo con me? Non hai una famiglia che ti aspetta a casa?
Un
albero da addobbare, dei regali da comprare? Lo capisco. Sei una
persona
felice, ma non puoi rendere felice me. Io non so essere felice. Vivo in
questa
strada da sette anni. Odio il Natale, perché mi ricorda chi
ero. Fine della
storia. Ti capirò se te ne andrai via.» dico io
tutto d’un fiato, accennando
uno sguardo vagamente minaccioso.
Desiderosa
di spezzare per un attimo la sua barriera di felicità
perenne.
«Non
è mai tempo perso quello speso ad aiutare gli
altri.» risponde lui, ignorando
le mie insinuazioni e prendendo posto accanto a me sul marciapiede,
come se
fossimo all’interno di uno dei ristoranti più chic
della città. Mi convinco che
ricordare non potrà ferirmi e così, inizio a
raccontare, con la stessa irruenza
della folata di vento di poco fa.
Fin
da piccola, ho sempre intuito che
le persone potessero essere divise in due categorie distinte,
indipendentemente
dal loro volere: quelle fortunate e quelle sfortunate.
Chi
lotta perché ci è costretto e
ottiene un decimo di quel che meriterebbe, e chi, con il minimo sforzo,
arraffa
più del dovuto. Nonostante non fossi una delle bambine
più sveglie, avevo avuto
fin da subito la consapevolezza di appartenere ai più
privilegiati.
Vivevo
in una casa enorme, così grande
da perdersi, piene di stanze il cui unico scopo era di prendere la
polvere ed
essere di conseguenza spolverate dai domestici. Una casa grande, per
due
persone appena: io, la bambolina di casa, e mia madre. Una donna sola,
astiosa,
piena di frustrazioni e soldi che sperperava in giro. Le poche volte
che
chiedevo di mio padre, la risposta che arrivava era sempre la stessa:
tuo padre
era troppo ricco per farsi solo una famiglia.
Nonostante
quella mancanza, ero una
bambina felice.
Ero
più bassa delle mie coetanee, con
due occhi azzurro cielo sempre rivolti verso uno dei tanti specchi che
avevamo
in casa, le mani minuscole sempre prese dai capelli lunghi e castani,
sempre in
disordine. Una bambolina che giocava a vivere da principessa.
Le
tante frustrazioni di mia madre si
ripercossero su di me molto presto quando, a seguito
dell’ennesima delusione
amorosa, decise di iscrivermi ad un concorso di bellezza per bambine.
Conoscendo
molto bene i giudici, la mia vittoria fu così prevedibile da
risultare noiosa
persino a me. Ma vincere mi piaceva. Sentivo una strana adrenalina, un
senso di
controllo che sarebbe cresciuto con me nel corso degli anni.
Arrivata
al liceo, della principessina
indifesa che si limitava a sorridere quando non sapeva cosa dire non
era
rimasto più niente. Ero stata rimpiazzata dalla mia brutta
copia, dalla
versione ribelle di me stessa, pronta a distruggere il palazzo di vetro
che mi
era stato costruito intorno nell’infanzia, senza la
più minima compassione.
Scontrosa,
intrattabile e con due armi
non indifferenti: bellezza e potere.
Perché
essere belle senza avere soldi
da buttar via, è come non essere belle affatto.
Un
mio sguardo, e i voti si alzavano.
Un mio sorriso particolarmente malizioso e tutti i ragazzi cadevano ai
miei
piedi, come vittime di un incantesimo capace di piegarli a me.
Ricordo
ancora che gli ultimi due anni
di scuola li passai tormentando una coppia di ragazzi omosessuali,
tanto
gentili quanto ingenui. Non riuscivo a concepire che potessero esistere
anche
solo due ragazzi che non fossero succubi del mio fascino: non riuscivo
a capire
come quello strano tipo di amore riuscisse a vincere sulla mia
cattiveria.
«Perché
non ti piaccio? Perché?»
«Con
noi non attacca, bambolina. Sei
destinata alla rovina. Ti ritroverai sola.»
Marco,
il più sfrontato dei due, usava
sempre questa risposta. Come se pensarne altre fosse uno spreco di
tempo e
parole. Aveva lo sguardo di chi ha sofferto tanto, di chi crede nel
karma. Di
chi subisce aspettando una rivincita che potrebbe non arrivare mai.
I
suoi occhi verdi mi avevano fatto
innamorare senza saperlo.
La
sua testardaggine mi aveva
catturata, nonostante non volessi ammetterlo.
E
così, alle parole preferivo le mani.
Una rabbia cieca mi invadeva la mente, senza lasciar spazio a
nient’altro.
Colpivo quei due ragazzi senza ritegno, sapendo che con le braccia
esili che mi
ritrovavo non sarei mai riuscita a fare loro del male.
Non
più di quanto il rifiuto di Marco
potesse fare a me.
Il
mio avvicinamento alla droga fu un
passo scontato, che non fece altro che indurire la corazza che mi ero
costruita
col passare del tempo. La forza che sentivo scorrere nelle vene
riusciva ad
annullare ogni dolore, ogni mancanza. La consapevolezza che i soldi per
comprare nuove dosi non sarebbero mai mancati mi spingeva a non
smettere mai.
Ancora
e ancora e ancora.
La
vecchia bambolina era solo un
ricordo. Uno sprazzo di luce nella mia ombra.
Di
me restavano solo macerie. Un cumulo
di rovine pronte a scoppiare.
Un
passo falso mi separava dal
precipizio.
Quel
passo falso, si chiamava Giulio.
“You
used to ride on the chrome horse with your diplomat
Who
carried on his shoulder a Siamese cat
Ain't
it hard when you discover that
He
really wasn't where it's at, after he took from you
everything he could steal.
How
does it feel, How does it feel
To
be on your own, with no direction home
Like
a complete unknown, like a rolling stone?
Un
conto in banca al pari del mio, una
schiera di macchine sportive.
L’espressione
dura di chi non è
abituato a sorridere.
Lo
sguardo pronto di chi ottiene tutto
ciò che vuole.
E
un paio d’occhi verdi uguali a quelli
di Marco.
Un
amore a senso unico, vissuto nel ricordo
di quello che non avevo mai avuto.
I
suoi continui regali usati come scusa
per essere assente, per scappare via da me.
Un
vuoto che colmavo con pasticche su
pasticche, con mia madre che vedeva assottigliarsi il conto corrente
senza
chiedere spiegazioni, per la troppa stanchezza.
Il
dolore che si scontrava con la
voglia di non ricordare chi fossi.
Poi,
una richiesta. Insolita, ma
l’amore fa fare cose pazze.
«Hai
mai maneggiato una pistola,
piccola?»
«Per
chi mi hai preso, scusa? Dimmi
cosa devo fare.»
Avevo
mentito con una tale prontezza da
sorprenderlo.
Ma
il suo amore mi stava consumando
anche quel briciolo di dignità che mi era rimasta.
Sentivo
il continuo bisogno della sua
approvazione, sentivo che, se fossi riuscita a farmi amare almeno da
Giulio,
sarebbe stato come se Marco non mi avesse mai rifiutato.
Era
una notte buia, senza stelle ad
illuminare la via.
E
mentre io sparavo ad uno sconosciuto,
Giulio scappava ancora, con i pochi soldi che mi erano rimasti e tutte
le cose
di valore che avevo lasciato a casa sua.
Quando
la polizia mi trovò, sporca di
sangue davanti al corpo esangue del datore di lavoro di Giulio, non ci
furono
dubbi. Nel momento esatto in cui varcai la soglia della prigione, mia
madre
decise di dimenticarsi di me, di quella bambolina che non aveva mai
dato
ascolto agli avvertimenti, che era stata in grado di rovinarsi con le
sue
stesse mani.
Riuscii
ad uscire di prigione solo
grazie alle vecchie conoscenze di mia madre, spinte a compassione
vedendo
com’ero diventata nel giro di pochi anni. Ad aspettarmi, solo
la strada, un
marciapiede e tante, troppe umiliazioni.
Le
lacrime mi inondano le guance, scese dopo mesi passati a trattenerli.
«I
ricordi fanno sempre tanto male. A volte me lo dimentico.»
dico con un sospiro,
senza nemmeno più cercare di ostentare una forza che, al
momento, non so
trovare.
Mi
lascio trasportare da un getto di tristezza che non accenna a fermarsi,
portandomi a singhiozzare come una bambina. “Come una
bambolina” penso,
ricordando con nostalgia il nomignolo che mi avevano affibbiato da
bambina.
Il
passante, Filippo, mi asciuga una lacrima con la punta delle dita, con
un tocco
così leggero da sembrare abitudinario. Un piccolo gesto che
scalda il cuore.
«Tu
credi nel karma?» mi chiede, con un sorriso triste, di
empatia.
«Anche
se non ci credessi, ho avuto la prova che esiste.» rispondo,
con una punta di
amarezza.
«Perché
dici questo?»
«Qualche
anno fa, proprio la notte di Natale, un passante si fermò
davanti a me. Ero
assonnata, quando c’è così freddo cerco
di addormentarmi per non sentirmi
infreddolita. Mi sono svegliata perché avevo sentito
pronunciare il mio nome ad
una voce che mi sembrava familiare e, quando ho aperto gli occhi, mi
sono
ritrovata faccia a faccia con Marco. In dolce compagnia di un ragazzo
bello
almeno quanto lui.»
«Ti
aveva riconosciuta?»
«Non
dimentichi la faccia di chi ti ha fatto soffrire. Io lo so
bene.»
«E
vi siete parlati?»
«Non
molto, a dire il vero. Mi ha guardato dall’alto verso il
basso, probabilmente
per accertarsi di avermi riconosciuta, e mi ha detto che tutto era
andato come
aveva previsto. E prima di andarsene mi ha chiamato bambolina e se
n’è andato,
senza voltarsi. Da quel giorno, ho smesso di amare il
Natale.» confesso, con
aria sofferente.
Filippo
mi stringe a sé, il suo calore che mi fa sentire protetta
per un secondo.
Prima
di andare a casa dalla sua famiglia perfetta, si volta verso di me.
E,
con un sorriso sincero, mi sussurra: «Buon Natale,
bambolina.»