Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Emera96    03/08/2014    2 recensioni
«Buon Natale!»
La voce di un passante mi sbatte addosso, con la stessa violenza del vento di poco fa. Mi costringo ad alzare lo sguardo, nonostante la stanchezza, e un sorriso brillante entra subito nel mio campo visivo. Un paio d’occhi gentili, di un grigio stranamente caldo, abbracciano il mio sguardo con naturalezza, con la stessa intesa che di solito si riserva ai vecchi amici.
Una di quelle persone talmente felici da diventare irritanti.
«Per me Natale non esiste già da un po’. Ma grazie comunque.» rispondo, secca.
Il sorriso dello sconosciuto si spegne per un attimo, scoraggiato dalla mia mancanza di spirito natalizio. Se immagino un po’, già capisco che tipo di persona c’è davanti a me: padre di famiglia, trentacinque anni al massimo, sportivo, sempre pronto ad aiutare il prossimo. Uno di quelli disposti a vestirsi da Babbo Natale per far felici i bambini.
«Ti va di raccontarmi la tua storia?»
(Storia partecipante a "Ispirazione musicale contest")
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Like a complete unknown, like a rolling stone.

 

“Once upon a time you dressed so fine,

You threw the bums a dime in your prime, didn’t you?

People’d call, say, «Beware, doll, you’re bound to fall»

You taught that they were all kidding you,

You used to laugh about everybody that was hanging out.

Now you don’t talk so loud, now you don’t seem so proud

About having to be scrounging for your next meal.”

 

I primi fiocchi di neve sono sempre quelli un po’ più freddi, quando arrivano alla pelle.

Tutti li aspettano con ansia, sporgendosi alla finestra senza sosta, col naso incollato al vetro, come se aspettarli rendesse il loro arrivo più veloce. Solo chi è obbligato a viverci sotto, come me, senza possibilità di riparo, ne capisce la forza distruttiva. Il dolore. Il freddo che quei minuscoli straccetti sono capaci di portare, in pochi centimetri quadrati.

Sento il solito brivido di freddo attraversarmi la spina dorsale.

Lo reprimo come posso e strofino le mani ripetutamente una contro l’altra, alitandoci dentro per ottenere una parvenza di calore. Quasi a volermi prendere in giro, il vento si alza, facendo arrivare la neve direttamente su di me, incastrata un po’ ovunque.

Mi stringo come posso nel cappotto lacero, lo stesso da anni.

Troppi per ricordare.

«Buon Natale!»

La voce di un passante mi sbatte addosso, con la stessa violenza del vento di poco fa. Mi costringo ad alzare lo sguardo, nonostante la stanchezza, e un sorriso brillante entra subito nel mio campo visivo. Un paio d’occhi gentili, di un grigio stranamente caldo, abbracciano il mio sguardo con naturalezza, con la stessa intesa che di solito si riserva ai vecchi amici.

Una di quelle persone talmente felici da diventare irritanti.

«Per me Natale non esiste già da un po’. Ma grazie comunque.» rispondo, secca.

Il sorriso dello sconosciuto si spegne per un attimo, scoraggiato dalla mia mancanza di spirito natalizio. Se immagino un po’, già capisco che tipo di persona c’è davanti a me: padre di famiglia, trentacinque anni al massimo, sportivo, sempre pronto ad aiutare il prossimo. Uno di quelli disposti a vestirsi da Babbo Natale per far felici i bambini.

«Ti va di raccontarmi la tua storia?»

«Non c’è niente di interessante da raccontare, ti annoierei e basta.»

«Allora annoiami. Ho tutto il tempo del mondo.» ribatte lui, senza demordere mai.

«Perché perdi il tuo tempo con me? Non hai una famiglia che ti aspetta a casa? Un albero da addobbare, dei regali da comprare? Lo capisco. Sei una persona felice, ma non puoi rendere felice me. Io non so essere felice. Vivo in questa strada da sette anni. Odio il Natale, perché mi ricorda chi ero. Fine della storia. Ti capirò se te ne andrai via.» dico io tutto d’un fiato, accennando uno sguardo vagamente minaccioso.

Desiderosa di spezzare per un attimo la sua barriera di felicità perenne.

«Non è mai tempo perso quello speso ad aiutare gli altri.» risponde lui, ignorando le mie insinuazioni e prendendo posto accanto a me sul marciapiede, come se fossimo all’interno di uno dei ristoranti più chic della città. Mi convinco che ricordare non potrà ferirmi e così, inizio a raccontare, con la stessa irruenza della folata di vento di poco fa.

 

Fin da piccola, ho sempre intuito che le persone potessero essere divise in due categorie distinte, indipendentemente dal loro volere: quelle fortunate e quelle sfortunate.

Chi lotta perché ci è costretto e ottiene un decimo di quel che meriterebbe, e chi, con il minimo sforzo, arraffa più del dovuto. Nonostante non fossi una delle bambine più sveglie, avevo avuto fin da subito la consapevolezza di appartenere ai più privilegiati.

Vivevo in una casa enorme, così grande da perdersi, piene di stanze il cui unico scopo era di prendere la polvere ed essere di conseguenza spolverate dai domestici. Una casa grande, per due persone appena: io, la bambolina di casa, e mia madre. Una donna sola, astiosa, piena di frustrazioni e soldi che sperperava in giro. Le poche volte che chiedevo di mio padre, la risposta che arrivava era sempre la stessa: tuo padre era troppo ricco per farsi solo una famiglia.

Nonostante quella mancanza, ero una bambina felice.

Ero più bassa delle mie coetanee, con due occhi azzurro cielo sempre rivolti verso uno dei tanti specchi che avevamo in casa, le mani minuscole sempre prese dai capelli lunghi e castani, sempre in disordine. Una bambolina che giocava a vivere da principessa.

Le tante frustrazioni di mia madre si ripercossero su di me molto presto quando, a seguito dell’ennesima delusione amorosa, decise di iscrivermi ad un concorso di bellezza per bambine. Conoscendo molto bene i giudici, la mia vittoria fu così prevedibile da risultare noiosa persino a me. Ma vincere mi piaceva. Sentivo una strana adrenalina, un senso di controllo che sarebbe cresciuto con me nel corso degli anni.

Arrivata al liceo, della principessina indifesa che si limitava a sorridere quando non sapeva cosa dire non era rimasto più niente. Ero stata rimpiazzata dalla mia brutta copia, dalla versione ribelle di me stessa, pronta a distruggere il palazzo di vetro che mi era stato costruito intorno nell’infanzia, senza la più minima compassione.

Scontrosa, intrattabile e con due armi non indifferenti: bellezza e potere.

Perché essere belle senza avere soldi da buttar via, è come non essere belle affatto.

Un mio sguardo, e i voti si alzavano. Un mio sorriso particolarmente malizioso e tutti i ragazzi cadevano ai miei piedi, come vittime di un incantesimo capace di piegarli a me.

Ricordo ancora che gli ultimi due anni di scuola li passai tormentando una coppia di ragazzi omosessuali, tanto gentili quanto ingenui. Non riuscivo a concepire che potessero esistere anche solo due ragazzi che non fossero succubi del mio fascino: non riuscivo a capire come quello strano tipo di amore riuscisse a vincere sulla mia cattiveria.

«Perché non ti piaccio? Perché?»

«Con noi non attacca, bambolina. Sei destinata alla rovina. Ti ritroverai sola.»

Marco, il più sfrontato dei due, usava sempre questa risposta. Come se pensarne altre fosse uno spreco di tempo e parole. Aveva lo sguardo di chi ha sofferto tanto, di chi crede nel karma. Di chi subisce aspettando una rivincita che potrebbe non arrivare mai.

I suoi occhi verdi mi avevano fatto innamorare senza saperlo.

La sua testardaggine mi aveva catturata, nonostante non volessi ammetterlo.

E così, alle parole preferivo le mani. Una rabbia cieca mi invadeva la mente, senza lasciar spazio a nient’altro. Colpivo quei due ragazzi senza ritegno, sapendo che con le braccia esili che mi ritrovavo non sarei mai riuscita a fare loro del male.

Non più di quanto il rifiuto di Marco potesse fare a me.

Il mio avvicinamento alla droga fu un passo scontato, che non fece altro che indurire la corazza che mi ero costruita col passare del tempo. La forza che sentivo scorrere nelle vene riusciva ad annullare ogni dolore, ogni mancanza. La consapevolezza che i soldi per comprare nuove dosi non sarebbero mai mancati mi spingeva a non smettere mai.

Ancora e ancora e ancora.

La vecchia bambolina era solo un ricordo. Uno sprazzo di luce nella mia ombra.

Di me restavano solo macerie. Un cumulo di rovine pronte a scoppiare.

Un passo falso mi separava dal precipizio.

Quel passo falso, si chiamava Giulio.

 

“You used to ride on the chrome horse with your diplomat

Who carried on his shoulder a Siamese cat

Ain't it hard when you discover that

He really wasn't where it's at, after he took from you everything he could steal. 

How does it feel, How does it feel

To be on your own, with no direction home

Like a complete unknown, like a rolling stone?

 

Un conto in banca al pari del mio, una schiera di macchine sportive.

L’espressione dura di chi non è abituato a sorridere.

Lo sguardo pronto di chi ottiene tutto ciò che vuole.

E un paio d’occhi verdi uguali a quelli di Marco.

Un amore a senso unico, vissuto nel ricordo di quello che non avevo mai avuto.

I suoi continui regali usati come scusa per essere assente, per scappare via da me.

Un vuoto che colmavo con pasticche su pasticche, con mia madre che vedeva assottigliarsi il conto corrente senza chiedere spiegazioni, per la troppa stanchezza.

Il dolore che si scontrava con la voglia di non ricordare chi fossi.

Poi, una richiesta. Insolita, ma l’amore fa fare cose pazze.

«Hai mai maneggiato una pistola, piccola?»

«Per chi mi hai preso, scusa? Dimmi cosa devo fare.»

Avevo mentito con una tale prontezza da sorprenderlo.

Ma il suo amore mi stava consumando anche quel briciolo di dignità che mi era rimasta.

Sentivo il continuo bisogno della sua approvazione, sentivo che, se fossi riuscita a farmi amare almeno da Giulio, sarebbe stato come se Marco non mi avesse mai rifiutato.

Era una notte buia, senza stelle ad illuminare la via.

E mentre io sparavo ad uno sconosciuto, Giulio scappava ancora, con i pochi soldi che mi erano rimasti e tutte le cose di valore che avevo lasciato a casa sua.

Quando la polizia mi trovò, sporca di sangue davanti al corpo esangue del datore di lavoro di Giulio, non ci furono dubbi. Nel momento esatto in cui varcai la soglia della prigione, mia madre decise di dimenticarsi di me, di quella bambolina che non aveva mai dato ascolto agli avvertimenti, che era stata in grado di rovinarsi con le sue stesse mani.

Riuscii ad uscire di prigione solo grazie alle vecchie conoscenze di mia madre, spinte a compassione vedendo com’ero diventata nel giro di pochi anni. Ad aspettarmi, solo la strada, un marciapiede e tante, troppe umiliazioni.

 

Le lacrime mi inondano le guance, scese dopo mesi passati a trattenerli.

«I ricordi fanno sempre tanto male. A volte me lo dimentico.» dico con un sospiro, senza nemmeno più cercare di ostentare una forza che, al momento, non so trovare.

Mi lascio trasportare da un getto di tristezza che non accenna a fermarsi, portandomi a singhiozzare come una bambina. “Come una bambolina” penso, ricordando con nostalgia il nomignolo che mi avevano affibbiato da bambina.

Il passante, Filippo, mi asciuga una lacrima con la punta delle dita, con un tocco così leggero da sembrare abitudinario. Un piccolo gesto che scalda il cuore.

«Tu credi nel karma?» mi chiede, con un sorriso triste, di empatia.

«Anche se non ci credessi, ho avuto la prova che esiste.» rispondo, con una punta di amarezza.

«Perché dici questo?»

«Qualche anno fa, proprio la notte di Natale, un passante si fermò davanti a me. Ero assonnata, quando c’è così freddo cerco di addormentarmi per non sentirmi infreddolita. Mi sono svegliata perché avevo sentito pronunciare il mio nome ad una voce che mi sembrava familiare e, quando ho aperto gli occhi, mi sono ritrovata faccia a faccia con Marco. In dolce compagnia di un ragazzo bello almeno quanto lui.»

«Ti aveva riconosciuta?»

«Non dimentichi la faccia di chi ti ha fatto soffrire. Io lo so bene.»

«E vi siete parlati?»

«Non molto, a dire il vero. Mi ha guardato dall’alto verso il basso, probabilmente per accertarsi di avermi riconosciuta, e mi ha detto che tutto era andato come aveva previsto. E prima di andarsene mi ha chiamato bambolina e se n’è andato, senza voltarsi. Da quel giorno, ho smesso di amare il Natale.» confesso, con aria sofferente.

Filippo mi stringe a sé, il suo calore che mi fa sentire protetta per un secondo.

Prima di andare a casa dalla sua famiglia perfetta, si volta verso di me.

E, con un sorriso sincero, mi sussurra: «Buon Natale, bambolina.»

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Emera96