Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: PapySanzo89    04/08/2014    5 recensioni
AU nella quale si nasce con due cuori, uno ha la funzione di cuore "normale", mentre l'altro serve per classificare i sentimenti.
Genere: Fluff, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ringrazio di nuovo Hotaru_Tomoe per il betaggio e questo capitolo è interamente dedicato a macaron (ciao Cey <3) che mi ha supportata con l’andare avanti quando la terza stagione mi ha decisamente buttata giù e mi ha fatto chiedere per cosa stessi scrivendo questa storia (siccome i presupposti per questa storia sono stati totalmente sconvolti dall’arrivo della terza stagione).

Spero di aggiornare molto più frequentemente e ringrazio tutti quelli che hanno recensito la storia (e scusate immensamente per il ritardo nel rispondervi ma sono molto superstiziosa su certe cose) e l’hanno messa tre le liste di EFP.

Spero il capitolo non vi deluda o lo troviate troppo noioso (siccome è un capitolo quasi più introduttivo dell’altro).

Detto questo, vi lascio alla storia, e grazie di nuovo perché a questa ci tengo in modo particolare. :)

 

 

 

 

 

 

 

 

Non so dirti una parola non ho niente di speciale,

Ma sorridi poi vuol dire che una cosa la so fare.

Come un fesso vorrei farti innamorare.

 

Il Comico -Cesare Cremonini

 

 

 

Mycroft è stanco. Non lo dà a vedere, ma quei giorni sono stati pesanti oltre ogni dire. Le sue spalle sono curve per la stanchezza, le mani pesanti mentre si stropiccia gli occhi affaticati e la mente, per una volta, chiede un attimo di pausa.

Ma, forse, per oggi ha finito. Non che il suo lavoro abbia degli orari predefiniti -e come potrebbe?- ma dovrebbe aver risolto tutti i problemi urgenti e riguardo a quelli non urgenti... Beh, potranno aspettare ancora un altro po’.

Seduto sulla poltrona di pelle rossa dietro la sua scrivania di mogano, sente il ticchettare dei tacchi di Anthea avvicinarsi. Non cambia posizione, non si tira su a sedere, non si mostra la persona inflessibile che in quel momento non è: con Anthea non ne ha bisogno.

La ragazza bussa ma non aspetta il suo “avanti” per entrare. Ogni tanto Mycroft si domanda ancora come mai Anthea si ostini a voler far notare la sua presenza al di fuori della porta quando questa è evidente ma, soprattutto, perché bussi se poi non gli lascia nemmeno il tempo di rispondere o di dirle che al momento è occupato. Poco importa che Anthea sappia perfettamente i suoi impegni.

Anthea richiude la porta dietro di sé e si avvicina con un plico di fogli in una mano e il suo fidato ed inestimabile BlackBerry nell’altra, Mycroft li guarda e si porta entrambe le mani sotto al mento poggiando poi i gomiti sul tavolo. Non è nemmeno abituato a farsi vedere in qualche maniera scomposta, ma Anthea ha visto il peggio –davvero il peggio- di lui, e quindi non sente davvero il bisogno di nasconderle nulla.

«Mia cara, ci sono delle novità?»

La segretaria alza gli occhi dal cellulare e poi fissa le carte che ha poggiate al petto per poi guardare in faccia il suo capo.

«Oh no, nulla di rilevante, almeno per oggi.»

Mycroft rilassa le spalle che non aveva nemmeno notato di aver contratto leggermente e sospira.

«Allora credo che per oggi entrambi possiamo andarcene.»

Mycroft osserva la ragazza rimanere ferma in mezzo alla stanza, mentre lo guarda con aria un po’ crucciata e nel frattempo si morde il labbro inferiore.

E Mycroft chiude gli occhi.

«Cos’ha fatto?» chiede. Non ha bisogno che Anthea gli dia altri segnali di disagio. È entrata dicendo che il lavoro è finito. Eppure eccoli ancora lì.

«Signore…» inizia e Mycroft la guarda di sottecchi, alzando entrambe le sopracciglia.

«L’orario di lavoro è finito, mia cara.»

Anthea sorride e si avvicina, scostando la sedia posta davanti la scrivania e accomodandosi, poggiando le carte sul mogano scuro: può parlare liberamente.

«Mycroft, pare che tuo fratello abbia accolto qualcuno nel suo appartamento. Oltre al fatto che anche questa sera, dopo il teatro, lo si sia visto scorrazzare per mezza Londra in cerca di qualche sostanza illegale.»

La seconda parte del discorso Mycroft la ignora del tutto. È talmente una cosa nella norma che non lo preoccupa nemmeno più, si è semplicemente limitato a far sparire ogni eventuale spacciatore nel giro di cinque isolati dai posti abitudinari di Sherlock. Ogni volta che Sherlock trovava nuovi posti abitudinari.

Ma un coinquilino -mio Dio!- un coinquilino era ben altra faccenda.

«Chi…?» ma ancora prima che la sua domanda possa prendere forma, Anthea gli spinge vicino i fogli e la faccia di un certo dottor John Hamish Watson gli compare davanti.

«Si tratta del rapporto di solo mezza giornata. Quando Gregory ha chiamato per informarci che Holmes si stava dirigendo verso l’edificio dove si trovava l’ordigno abbiamo fatto in modo di verificare la sua posizione e lo stato della sua salute.»

È così che lo chiama Anthea: Holmes.

Anthea non è una donna dal facile coinvolgimento emotivo, anzi, in anni e anni di conoscenza l’ha vista fare cose orribili senza battere ciglio. Anche se tutto per il bene della Nazione, è ovvio.

Ma Anthea odia Sherlock. Forse odiare è una parola un po’ forte, ma Mycroft è convinto che si avvicini di molto alla verità. Non le ha mai chiesto il perché (francamente non gli interessa, è piuttosto facile associare quel sentimento a suo fratello) ma suppone centri qualcosa con l’attaccamento di lei nei propri confronti e nel fatto che Sherlock scelga di impiegare gran parte del suo tempo nel tentativo di non dargli pace. Mai.

Quindi, per una logica deduzione, c’entra qualcosa con il sentimentalismo. Davvero non riesce ad entrare in sintonia con una cosa del genere ma perlomeno riesce a capirla facendo un paio di ragionamenti.

Mycroft sfoglia diligentemente le prime pagine riguardante il dottor Watson e poi corre direttamente alle ultime, riguardanti i fatti svolti quel giorno.

Scuote il capo e con una mano va a massaggiarsi distrattamente il collo indolenzito, cambiando leggermente posizione sulla poltrona.

«Se il dottor Watson si è ritrovato a condividere l’appartamento con mio fratello ho comunque dei seri dubbi che ciò andrà avanti per molto tempo. Probabilmente Gregory ha avuto l’accortezza di dire a Sherlock di essere in debito verso questo dottore in qualche maniera e Sherlock si sarà comportato di conseguenza.» il rapporto non riporta discussioni avvenute nell’appartamento o al di fuori di esso, ma ci sono delle foto e delle testimonianze. Mycroft sospira –ancora- nel realizzare che probabilmente l’indomani dovrà alzarsi e, prima di tornare nella sua seconda casa (ovvero il suo lavoro), dirigersi al 221 di Baker Street per avere delucidazioni. Dal dottore. Ovviamente.

«Ah, e riguardo a Gregory...» Anthea distoglie Mycroft dai suoi pensieri «Sta aspettando nell’altra stanza. Ci ha invitati fuori a cena, se non siamo troppo impegnati ha aggiunto.» la donna fa un sorriso sicuro, poi sente il cellulare vibrare e torna nel suo mondo fatto di messaggi e impegni per qualche altro minuto. Mycroft pensa per un attimo se si senta davvero così stanco, e la risposta è sì, ma gli stanno offrendo una cena (probabilmente in qualche localetto trasandato) e improvvisamente non ha così tanta voglia di tornare in quella casa vuota che altro non è se non un luogo dove riposarsi: stranamente per loro due non è mai troppo stanco.

 

John ha passato la notte ad ascoltare quel bel violino venire tormentato e i passi di Holmes che andavano avanti e indietro per tutto il soggiorno, a grandi falcate. Ad un certo punto i passi si sono fermati e, anche se non poteva esserne certo, era quasi sicuro che Sherlock si fosse diretto verso la porta e fosse stato tentato di uscire. Alle tre del mattino. Chissà perché la cosa non gli pareva poi così assurda. Ma alla fine i passi erano ricominciati e lui si era addormentato cullato da quel suono, stranamente diventato più rassicurante.

Adesso, con gli occhi spalancati verso il soffitto, si ritrova a non sapere cosa fare. Ripensa alla giornata precedente e tutto gli sembra strano, guarda la carta da parati e gli sembra strana, guarda l'arredamento spartano e gli sembra strano. Tutto lì dentro, gli sembra strano. Non c'è nulla di suo che lo faccia stare tranquillo, niente che lo rassicuri che ehi, sei a casa! e tutto ciò che gli è rimasto (ed è veramente pochissima roba) è andato in letteralmente in fumo con l'esplosione. Se pensa ai suoi amati libri gli viene ancora l'angoscia. Probabilmente ancora non ci crede che le cose siano andate in quella maniera. Probabilmente è ora di scendere.

 

Entrando in soggiorno trova Sherlock seduto sulla poltrona, le gambe distese ed incrociate all'altezza delle caviglie, una vestaglia azzurra aperta su una maglietta bianca e dei pantaloni grigi a righe sottili. Un sorriso tronfio e una sigaretta accesa tra le labbra salutano il suo arrivo nella stanza. A dire la verità John non si sarebbe aspettato nulla di diverso.

Si avvicina e lo saluta alzando una mano, sbadigliando al contempo, e si dirige infine in cucina, prendendo il bollitore e mettendolo sul fuoco, trovando la situazione alquanto irreale. Avrebbe avuto bisogno di almeno altre tre ore di sonno, ma il suo cervello non ha intenzione di lasciarlo in pace e rigirarsi tra coperte non lo avrebbe portato ad altro se non a farlo innervosire ulteriormente.

Sente gli occhi di Holmes puntati sulla schiena ma fa finta di niente, cercando nei ripiani i biscotti che ha sistemato ieri non trovando assolutamente altro da mangiare per tutta casa. Dovrà limitarsi ad andare a fare la spesa, non ha certamente intenzione di morire di fame dopo essere sopravvissuto all'Afghanistan. O a Sherlock Holmes.

Si appoggia col fondoschiena sul marmo del ripiano della cucina e incrocia le braccia, guardando inizialmente a terra, restando concentrato sui suoi pensieri.

La sera prima, quando ha parlato con Holmes dell'essere futuri coinquilini, ha bellamente bluffato. La signora Hudson non aveva detto nulla a riguardo e, con tutta probabilità, lui non aveva abbastanza soldi per potersi permettere un posto del genere. Ma Sherlock gli faceva dannatamente salire il sangue alla testa e gli faceva dire cose senza senso.

Beh, prima o poi lo avrebbe scoperto (se non l’ha già fatto, e quella sua aria sibillina non promette nulla di buono) e probabilmente lo avrebbe cacciato via lasciandolo nuovamente in mezzo a una strada: bel lavoro John Watson. Forse era il caso di fare ammenda prima che fosse troppo tardi, forse era il caso di uscire di lì in quel momento e cercare dove diavolo andare, forse poteva bersi il suo tè in santa pace e poi pensare a tutte le conseguenze del caso. Francamente l’ultima gli sembrava la soluzione migliore. O, più che altro, quella più congeniale al momento.

Il fischio del boiler lo risveglia dai propri pensieri e si volta col busto per chiudere il gas, sente ancora gli occhi dell’altro fissarlo, ma quando volta la testa nella sua direzione vede che Holmes non lo degna di alcuna attenzione. Forse si sta solo immaginando le cose.

L’unica cosa a cui riesce a pensare al momento –oltre ciò che lo aspetta da lì a poco- è il fatto inquietante che si sta muovendo per una casa non sua come se fosse la cosa più normale del mondo. Di solito non si comporta così, sarebbe come entrare in casa di uno sconosciuto e rovistargli in mezzo alla roba. Ma a Sherlock pare non dare fastidio e lui non intende farsi problemi aspettando che sia l’altro ad invitarlo a fare qualcosa.

«Tè?» chiede con fare disinvolto, mentre Holmes sbuffa fuori una nuvola di fumo.

Che gran bastardo.

«Sarebbe delizioso, sì.» dice facendo una strana smorfia. John non sa se sentirsi preso per il culo o cosa. Fatto sta che prende un’altra tazza e la riempie d’acqua bollente, avvicinandoglisi con circospezione.

Sherlock lo sta studiando –e questa volta ne è sicuro, siccome gli occhi azzurri del detective non si staccano per un momento dalla sua figura- e lui studia Sherlock. Non ha avuto modo di farlo il giorno prima, quindi perché non approfittarne ora?

Si siede sulla poltrona posta dinanzi a quella di Holmes e gli passa la tazza che quello pigramente prende e si poggia in grembo.

«Hai dormito almeno un paio d’ore?» l’ha chiesto senza nemmeno rendersene conto. Il detective solleva le spalle e con esse anche le sopracciglia, spegne poi la sigaretta nel posacenere poggiato sul bracciolo.

«Te l’ho detto, non dormo molto e detesto i ficcanaso.» lascia la tazzina in bilico sulle sue gambe e solleva le mani, poggiandole sotto il mento «I bugiardi invece mi piacciono relativamente, tutto dipende dal tempo che impiego nello smascherarli.» sorride, mostrando un’ilarità che non colpisce minimamente gli occhi e per un attimo John resta perplesso. O sconvolto. Forse sconvolto è la parola migliore.

«Uuhm… ecco…» John distoglie lo sguardo per qualche secondo e poi lo riporta al detective. «Lo sai già, vero?»

Sherlock annuisce e inizia a bere il suo tè.

«Strano che tu abbia davvero pensato di tenermelo nascosto.» aggiunge dopo il primo sorso, non distogliendo nemmeno per un attimo gli occhi da quelli del dottore. «Del resto la signora Hudson è la mia padrona di casa, quanto pensi che ci avrei messo per scoprire una sciocchezza del genere? Mi sento quasi offeso da qualcuno che dice di reputarsi un mio ammiratore.»

John sta per rispondere qualcosa (soprattutto che ammiratore al momento non gli sembra la parola più adatta) ma Sherlock scatta in piedi, in uno svolazzo di vestaglia, e fa cadere a terra il posacenere non curandosene minimamente, si addentra in cucina e torna indietro con un computer portatile, sedendosi nuovamente in poltrona, questa volta a gambe incrociate. Il dottore guarda tutta la scena con le sopracciglia corrugate e si chiede che diavolo stia succedendo.

Sherlock gli lancia il computer senza badare a nulla e John –prendendolo prima che quest’ultimo cada a terra- si chiede se per caso il consulente sia pazzo. Poi lascia perdere quel se e realizza che è pazzo, senza ombra di dubbio.

Alza per bene lo schermo e da sopra di esso lo guarda malissimo, Sherlock gli sorride affabile e John pensa che vorrebbe prenderlo a pugni, lui e quel sorriso falsissimo ma non appena guarda la pagina aperta sul browser la sua perplessità diventa quasi palpabile e lascia perdere il pensiero di picchiarlo.

«“Il blog personale del Dottor John H. Watson.”» recita Sherlock, osservando l’uomo davanti a sé «La ‘H’ appuntata sta per…?»

John sbuffa. «Odio il mio secondo nome, non intendo parlarne. Comunque, perché mi stai mostrando il mio blog?»

È un attimo. Sherlock si alza di nuovo e gli si para davanti, poggiando le mani sui braccioli della poltrona di John, inchiodandolo dov’è senza via di scampo.

«Perché scrivi un blog su di me invece di scrivere cosa succede a te come ti ha sicuramente consigliato la psicoanalista?»

John inizia ad avere seriamente mal di testa, dove vuole andare a parare facendo tutte queste domande? A quell’ora di mattina poi, non è nemmeno riuscito a bere metà del suo tè e non è in piedi nemmeno da mezz'ora. Ha troppo mal di testa anche solo per sapere cosa dire.

«Perché sei una persona interessante.» butta fuori come prima risposta.

Sherlock pare rifletterci, poi storce le labbra e fa uno strano verso. «Uuuhm. No. Ritenta.»

John fa tanto d’occhi e lo osserva, rimanendo in silenzio.

«Mi stai forse dicendo che io non saprei per quale motivo scrivo il mio blog?»

Sherlock scuote la testa.

«No, sto solo affermando che stai tentando di mentirmi, di nuovo.»

John sta per vedere rosso e se quella conversazione non volge presto al termine è sicuro che prenderà Holmes a pugni.

Ma prima ancora che John possa sollevare una mano, Sherlock si ritrae.

«Puoi rimanere. Non ho intenzione di buttarti fuori di qui e per ora –a parte la faccenda seccante di ieri sera- non sei stato troppo fastidioso.» si guarda intorno nel dire quella frase e sembra valutare la situazione della casa. Se Sherlock Holmes pensa che John Watson si farà assumere come donna delle pulizie ha capito decisamente male.

Sherlock si avvicina al camino e di fianco a un teschio (John si chiede se sia un teschio vero) prende un pacchetto di sigarette e se ne porta un’altra alla bocca accendendosela, torna poi vicino a John e si siede sul bracciolo della poltrona di quest’ultimo indicandogli col dito indice un determinato post.

«Questo caso che hai descritto qui è sbagliato. Non è stato assolutamente risolto in questo modo. La faccenda si è svolta così…» e mentre Sherlock gli spiega cosa modificare in quel determinato post (uno dei molti che dovrà cambiare o riscrivere completamente da capo), John si chiede cosa diavolo sia successo in quei pochi minuti e, mentre Sherlock si diverte un mondo –perché la cosa è evidente- a sbuffargli il fumo in faccia, capisce che dovrà assolutamente far perdere il vizio del fumo a quell’uomo per una propria rivincita personale, trovandogli qualcos’altro d’interessante da fare.

Da qualche parte nella sua testa si chiede anche com’è possibile che non si prenda e scappi da quell’appartamento a gambe levate. Ma Sherlock evidentemente sa già ed è forse lui a non voler chiedere.

 

Il cellulare di Sherlock squilla e il consulente è in piedi in men che non si dica, dirigendosi a passo svelto dal soggiorno alla cucina dove ha lasciato il telefono e risponde dopo aver ghignato e visto il mittente.

«Dove e quando?»

John lo osserva dopo aver salvato l’ennesimo post e dopo aver dato una rilettura veloce a tutto ciò che ha scritto. Durante tutto il racconto di ogni caso risolto si è sentito emozionato quasi fosse stato lì sulla scena del crimine e avesse riportato di prima mano l’emozione come se fosse stati lì quel giorno. E in più si è accorto che Sherlock adora parlare. Di casi, certo, per il resto è piuttosto monosillabico, ma quando si tratta di fomentare il suo ego il consulente non si risparmia in dettagli e ne aggiunge sempre di più quando vede John coinvolto. Sono passate due ore dal primo post, e il dottore non se n’è nemmeno accorto, sarebbe andato avanti volentieri se non fosse stato per quel suono fastidioso proveniente dalla cucina.

Non sente cosa (quello che probabilmente deve essere) Greg gli risponda, ma gli basta vedere quel ghigno sul viso di Sherlock per capire che il consulente è pressappoco entusiasta. Da una parte del suo cervello si chiede com’è che quel sorriso sardonico non raggiunga mai quegli occhi azzurri, ma il pensiero si defila non appena Sherlock va a prendere il cappotto ed esce di casa senza dire una parola.

John alza gli occhi al cielo e sposta il laptop dalle cosce, allungandole in avanti e sgranchendole per far tornare la circolazione alle gambe rimaste ferme nella stessa posizione troppo a lungo. Il suo turno inizia tra poco più di tre ore e deve pensare a cosa fare per impegnare il tempo. Più attivo è, meno può chiedersi che diavolo stia pensando di fare.

Non vuole pensare, John. Per una volta vuole evitare di pensare al domani e a cosa farà e se la situazione potrebbe essere o meno pericolosa. Per ora è meglio che pensi che si è ritrovato a dividere l’affitto con una persona. Ed è meglio lasciar perdere il resto. In realtà gli è andata meglio di quanto potesse credere.

Decide di alzarsi dalla poltrona e si sgranchisce anche la schiena, alzando le braccia per bene in aria, e pensa che farà un salto dalla signora Hudson per chiederle se ha bisogno di qualcosa, se le serve una mano in cucina o se deve imbiancare i muri, se un rubinetto perde o insomma... qualsiasi cosa. Ma qualcuno lo ferma dal suo tentativo di scendere dalla padrona di casa.

Un uomo in un completo color cammello se ne sta fermo in mezzo alla porta d’entrata poggiato su un ombrello in tinta con le scarpe scure, la catenina d’oro di un orologio da taschino fa bella mostra di sé risaltando sul colore relativamente chiaro.

John si ferma a guardarlo con le braccia ancora alzate verso il cielo, per poi riabbassarle lentamente e studiare l’individuo che si ritrova davanti con aria assorta. Non l’ha sentito arrivare e ben che meno entrare e questa cosa non gli piace.

«Dottor Watson?» chiede l’uomo dopo aver fatto quello che John definirebbe un sorriso glaciale, e si sposta l’ombrello da una mano all’altra, facendo un cenno con la mano come a voler essere invitato dentro.

John lo guarda circospetto e fa un sorriso di cortesia di rimando, spostandosi di lato per fargli cenno di entrare. L’uomo non aspetta altro invito e si addentra nel soggiorno, raggiungendo con un passo il dottore e porgendogli la mano.

 

«Dottore, lieto di fare la sua conoscenza. Ho sentito parecchie cose sul suo conto.»

John lo osserva. Osserva prima il suo viso e quel sorriso a mezza bocca e poi la mano tesa verso di sé. Qualcosa di simile al fastidio lo colpisce e non vuole restituire il cenno, ma alza la mano ad incontrare quella dell’altro e la stringe, forte.

«Non ci sono tutte queste grandi cose da dire su di me.» tranne che so uccidere un uomo a mani nude «Lei invece sarebbe? Non mi sembra di averla mai incontrata prima e dubito avere amici in comune con lei o lo ricorderei.» l’uomo sorride di nuovo affabile e ritira la mano, tornando ad appoggiarla vicino all’altra sul manico dell’ombrello.

«No, credo anch’io di non avere alcun amico in comune con lei. O, perlomeno, sono certo che lui non si definirebbe affatto in questo modo.»

John resta fermo a guardarlo e si chiede cosa fare. Non può certamente mettere un uomo fuori combattimento senza un buon motivo -e il buon motivo di certo non può essere il sesto senso- così decide di vedere dove quest’uomo voglia andare a parare e gli indica la poltrona verde, quella dove si è seduto lui fino a pochi minuti prima.

«Prego, se si vuole accomodare.»

L’uomo fa un cenno con la mano e nega l’invito, rimanendo esattamente dove si trova: in mezzo al soggiorno.

«Non le ruberò molto tempo Dottor Watson, sono solo passato per una visita di cortesia. Volevo osservare l’uomo che ha avuto il coraggio di scegliere di trasferirsi in questo appartamento assieme a Sherlock Holmes.»

John si mette automaticamente con il corpo e con la mente in posizione di difesa e aspetta di sentire il resto del discorso, non riesce ad arrivare al punto della questione.

«E che cosa può dirmi ora che lo ha visto?»

L’uomo in completo gli lancia una profonda occhiata e il finto sorriso pare fare ritorno su quelle labbra sottili.

«Che è un ex medico militare, con problemi psicosomatici, che ha abbandonato una persona a lei cara e che si sente perso e annoiato in questo mondo troppo tranquillo, per quel che la riguarda.»

John rimane immobile a fissare l’ospite che si ritrova davanti e non accenna a dire mezza parola. Ha già avuto un trattamento del genere da quello che ora è il suo coinquilino ma il modo in cui le informazioni gli sono state dette era totalmente diverso, questa persona non gli piace.

«Beh, oserei dire che ha trovato la persona perfetta con cui condividere l’appartamento. Comunque sono venuto qui per proporle un accordo.»

John alza le sopracciglia e si chiede se ha sentito bene o meno.

«Vede, io mi preoccupo per la salute di Sherlock costantemente. Sono preoccupato per i suoi affari e per come impiega le giornate in modo molto poco proficuo. Quindi la mia proposta è di lasciarle una somma di denaro pattuita e lei mi dirà i spostamenti e lo seguirà il più spesso che le è possibile.»

«No.»

«No? Ma non le ho ancora detto la cifra di partenza.»

John lo guarda e il suo viso si contrae per poi rilassarsi, come se avesse fatto un enorme sforzo.

«Non mi serve sapere la cifra. La mia risposta è no.»

L'uomo in completo lo guarda e stende le labbra fini in un sorriso che ha tutto tranne che l'aria di essere un buon auspicio.

«I miei ossequi dottore, ci rivedremo molto presto.» e detto questo gli volta le spalle, incurante del fatto che John potrebbe metterlo fuori combattimento come nulla fosse, e si incammina verso l’uscita ma John, sentito lo scattare della maniglia, si riprende da quella specie di trance e lo raggiunge.

«Lei chi è comunque? Non mi piace non essere a conoscenza della persona che ho davanti, né di non essere al livello di chi mi parla.»

L’uomo ferma il passo sul primo scalino.

«Oh, mi creda, non lo sarebbe comunque.» volta appena il viso per incrociare lo sguardo del dottore «Mycroft Holmes, fratello del suo coinquilino, molto lieto.» John rimane basito per diversi secondi e fissa la nuca della persona che ha davanti a sé. Non si somigliano per nulla, quest’uomo e Sherlock, a parte per il modo di dedurre e forse per una certa dose di arroganza.

Quando il cellulare di Mycroft Holmes inizia a squillare, l’uomo torna a scendere gli scalini non degnando John di un’altra parola, almeno finché non arriva al pianerottolo, sussurrando qualcosa al telefono che poi chiude e rimette nella tasca della giacca.

«Dottor Watson.» John alza il viso e lo fissa, rimanendo fermo, appoggiato allo stipite della porta «Stia attento con mio fratello, lo dico per il suo bene. Per quanto il brivido della caccia per lei sia di vitale importanza, la sua vita non sarà mai importante per quella di mio fratello. Non faccia l’errore di affezionarsi e sacrificarsi, mio fratello non ha cuore, quindi cerchi di tenerlo bene a mente.»

John osserva l'uomo che afferma di essere il fratello di Sherlock lasciare l'appartamento e si chiede che diavolo sia appena successo.

Mio fratello non ha cuore, beh, non sembra che lui ne possegga uno a parlare in quei termini di un suo familiare così stretto: lui non lo avrebbe mai fatto con Harry, nemmeno dopo la fase che aveva passato la sorella e i litigi che finivano con Harry in lacrime e lui che si sentiva terribilmente in colpa e, alla fine, con entrambi che si scusavano vicendevolmente.

Poi cos’è quella storia? Non ha preso parte a nessun indagine con Sherlock, il fatto che si fosse momentaneamente ritrovato in quella catapecchia dove si era svolto un crimine e che Sherlock fosse lì non voleva di certo dire partecipare ad un indagine.

E poi può vedere da solo che Sherlock non sembra la persona più socievole sulla faccia della Terra ma, diavolo, gli ha offerto un tetto sopra la testa e una sistemazione a quanto pare permanente nonostante gli avesse mentito sul fatto che la signora Hudson gliel'avesse già proposto e che gli avesse rotto le palle sul fumo e quindi: grazie tante, ma sicuramente Sherlock aveva un cuore e dell'umanità.

Se un giorno, invece, sarebbero mai diventati amici, era un altro paio di maniche.

 

 

John rientra dal lavoro che Sherlock non è ancora tornato, guarda l'orologio appeso al muro e si chiede se l'altro sia ancora sulla scena del crimine con Greg o se abbia già risolto il caso e sia sparito da qualche parte senza dire una parola ma del resto: “detesto i ficcanaso” pensa con la voce saccente del consulente e si butta sul divano, telecomando alla mano, facendo zapping. La giornata è stata monotona -tediosamente monotona- e questo sembra stancarlo molto più di quando doveva stare sveglio per quarantotto ore consecutive a curare feriti o entrare direttamente in azione sul campo da battaglia. Ripensa ai suoi commilitoni, ai suoi compagni e amici e si massaggia la spalla di riflesso.

Beh, quel Mycrfot Holmes ha ragione in fin dei conti, ma lui lo sapeva già da prima, ha fatto determinate scelte che gli hanno fatto capire quale vita fosse effettivamente fatta per lui. Peccato che si ritrovasse nuovamente punto e a capo.

Si passa le mani sulla faccia ed inizia a strofinarsi gli occhi, perdendosi poi sui pensieri che non lo avevano abbandonato per tutto il pomeriggio: il fratello del suo coinquilino e il suo dannato discorso.

Quando il suo cellulare squilla, John tira un sospiro di sollievo -contento di potersi distrarre un attimo- e afferra l'apparecchio dalla tasca dei jeans, ma il sollievo svanisce non appena legge il nome della persona che lo sta chiamando .

«Pronto...» la voce è bassa, la tristezza è tanta.

«Ciao John.» un attimo di silenzio teso «Come stai?»

John sorride alla voce della donna e chiude di nuovo gli occhi, adesso sente una specie di nausea invadergli lo stomaco.

L'importante è mentire.

«Bene, e tu?»

 

Sherlock risolve il caso brillantemente in meno di mezza giornata e la noia lo assale prepotente. Ogni tanto si chiede perché quella è l'unica cosa che riesce a provare: noia. O almeno, lui crede che di questo si tratti, perché non è che non provi assolutamente nulla, trova tutto e tutti indifferenti, trova indifferente il pericolo, trova indifferente la propria vita, trova indifferente stare al mondo, ma quello che prova sempre è un costante sentirsi annoiato subito finito un caso. In realtà, l'unica cosa che lo tiene in vita oltre la droga sono proprio i casi. I casi che fanno vedere il peggio delle persone -perché quindi qualcuno di peggiore di lui al mondo c'è, e lo sta dimostrando-, i casi che fanno lavorare la sua mente iperattiva che sennò si contorcerebbe su se stessa, i casi che gli permettono di fare quello che vuole quando e come vuole. Anche drogarsi, perché, checché ne dica Lestrade, hanno bisogno del suo aiuto discreto (ovvero non comparire su tutti i giornali nazionali) molto più di quanto importi loro tenerlo fuori dai circoli viziosi. E poi la droga è un ottimo modo per spegnere la mente per qualche ora. Ma oltre la droga c’è anche la musica. La musica che lo fa distrarre per un paio d’ore da tutto, per questo non può rinunciare ad un concerto per uno stupido mal di testa, per questo rinuncerebbe anche alla droga se dovessero obbligarlo a scegliere tra la cocaina e il violino ma, come aveva detto al dottor Watson, l’orchestra sinfonica di Vienna non passa per Londra tutte le settimane.

 

Trova uno spacciatore grazie ad uno dei senzatetto che gli è più fedele e quando il pusher gli dice la cifra Sherlock si ritrova ad alzare un sopracciglio e a protendere una mano in avanti, curioso di osservare da vicino quel microscopico panetto bianco.

Appena lo fa, un lato della bocca gli si solleva con fare annoiato.

«Questa roba non vale nemmeno la metà di quello che mi hai chiesto e mi dispiace informarti che io non sono così disperato.» gliela lancia addosso di malagrazia, gli volta le spalle, dà una mancia al senzatetto almeno per averci provato e si incammina, mani nelle tasche, verso casa. Mycroft non potrà tenergli lontano ogni spacciatore della città ancora a lungo e per ora non è davvero così tanto disperato. Quei mesi di rehab gli hanno fatto capire quanto tempo si riesce a sprecare dietro il proprio corpo voglioso di sostanze tossiche e ha deciso di non buttare più tempo in quella maniera. Fortunatamente non si fa così spesso da ricascare nuovamente nella spirale dell’astinenza, ha capito qual è il suo limite e sa esattamente come sfruttarlo. Checché ne dica Mycroft lui non si autodistrugge. Lui distrugge gli altri e poi finalmente può pensare a se stesso, ma dopo Moriarty –che è riuscito a farlo divertire, è riuscito a farlo ragionare più del solito, è riuscito a fargli usare il suo cervello ogni giorno per stare sempre un passo davanti a lui. Lo adorava- e i mesi di vuoto totale, i mesi di casi talmente noiosi e stupidi e talmente facili da essere potuti risolvere persino da sua madre in quella specie di coma perenne in cui è caduta, finalmente è arrivato Moran. E questa volta ha intenzione che il gioco duri molto a lungo, o di morire nel tentativo.

 

Sherlock torna a casa, appoggia malamente il suo cappotto all’appendiabiti e avanza verso il soggiorno, dove trova John comodamente appoggiato alla poltrona verde mentre legge uno dei suoi testi di medicina. Il dottore ha il viso contratto in un’espressione non troppo felice e quindi dev’essere successo qualcosa. Qualcosa che non ha a che fare con lui siccome non è stato in giro per casa tutto il giorno e non l’ha nemmeno sentito, quindi qualcosa con un suo conoscente o amico.

Sinceramente non gliene frega niente.

Saluta per educazione e John gli fa un sorriso caloroso (perché mai?) e gli indica la cucina, informandolo di aver lasciato del tè nel bollitore nemmeno dieci minuti fa e che, se vuole, può prenderlo perché doveva essere ancora caldo.

Francamente non riesce a capire se John sia servizievole o se sia davvero un animo così gentile.

Si va a servire del tè e non dice nulla, è John a spezzare il silenzio.

«Lo so che non sono affari miei…»

Sherlock appoggia il bollitore in malo modo sui fornelli e rotea gli occhi.

«Se lo sai perché chiedi, allora?»

«Ma com’è andato il caso?»

Sherlock aggiunge dello zucchero al tè (e non vede l’espressione disgustata di John nel vederlo compiere quel gesto) e lo sorseggia, pensando se rispondergli o meno.

«Lo metterai nel blog?»

John appoggia il libro per terra dopo aver fatto una piccola piega sulla pagina per tenere il segno e si volta a guardarlo.

«Se posso lo farei volentieri, sì.»

Sherlock ci pensa per qualche istante.

«Anzi, mi farebbe piacere avere informazioni di prima mano da poter diffondere prima degli altri.»

Sherlock accetta.

Si siede sulla poltrona davanti a John e inizia a spiegare la banalità del caso, la deduzione per aver capito chi è stato, come e perché e John prende appunti (scrivendoli prima a penna su un block notes perché Sherlock va troppo veloce e non ha nemmeno intenzione di fermarsi) e si meraviglia davvero per come Sherlock ha scoperto determinati elementi da bazzecole da cui nessuno avrebbe rilevato assolutamente nulla.
 

E Sherlock vede John sbalordirsi per ciò che dice e ridere sommessamente per le battute contro tutta la squadra di Scotland Yard. E rincara la dose. Non sa perché, ma lo fa. Forse perché nessuno ha mai davvero riso a qualcosa che ha detto, forse perché nessuno lo ha mai davvero ascoltato a quel mondo, ma Sherlock parla a ruota libera e un’ora dopo sono ancora lì che discutono di quanto possa essere inefficiente la polizia.

John non menziona Mycroft.

 

John si stupisce di quante volte Sherlock venga chiamato per un caso e si chiede se la polizia sia davvero inefficiente come Sherlock la descrive (ed è l'ipotesi che gli sembra più probabile) o se semplicemente gli assassini e i rapinatori abbiano deciso tutti insieme di seguire un corso per migliorare le proprie abilità e far ammattire tutti quanti.

Sherlock, comunque, pare sia felice che annoiato della cosa, ma John preferisce vederlo uscire di casa che continuamente disteso sul divano o intento a fare esperimenti (senza nemmeno protezioni come guanti e occhiali) o a tormentare il violino o sparare al muro (e davvero, la prima volta che l'ha visto fare una cosa del genere per poco non lo ammazzava).

È un giorno come un altro -Sherlock seduto sulla poltrona col portatile sulle ginocchia- quando la porta d'ingresso si apre e il fratello di Sherlock fa la sua comparsa sulla soglia. Odia quanto quell'uomo riesca ad essere silenzioso.

Prima che il fratello apra bocca, Sherlock parla.

«No.» è la sua semplice negazione a qualcosa che non è ancora stato detto.

Mycroft getta il pesante fascicolo sul tavolo nel soggiorno e non rivolge nemmeno un'occhiata a John, come se non esistesse, come se non avessero parlato solo alcuni giorni prima.

«Non hai niente da fare. Il caso è d'importanza Nazionale. Io ho da fare.»

Sherlock smette per qualche secondo di leggere qualcosa sulla schermata del pc e alza momentaneamente gli occhi, portandoli prima al fratello e dopo al fascicolo scuro sul tavolo.

«No.» e di nuovo la sua semplice risposta e John, che davvero non riesce a farsi gli affari suoi e -ehi!- quel fascicolo è lì sul tavolo e nessuno gli ha detto che non può guardare, si avvicina, passando davanti a Mycroft che non gli nega l'accesso al tavolo e quindi lo prende per un faccia ciò che vuole.

John afferra il caso che il fratello di Sherlock ha portato e sfoglia le pagine, leggendo il nome di un ricercato di fama internazionale e le imputazioni che lo riguardano. All'ennesima descrizione di una famiglia brutalmente assassinata e torturata per favori economici e politici chiude il fascicolo e si rivolge a Sherlock.

«Perché no?»

Incredibilmente pare che nessuno dei due Holmes presenti nella stanza si aspettasse quella domanda.

«Come conosci Mycroft?» è invece la domanda di Sherlock.

John alza un lato della bocca e osserva l'uomo in completo scuro e ombrello nero rimanere in piedi accanto a lui a fissarlo, sembra quasi lo voglia avvertire di rimanere in silenzio.

John sorride maggiormente.

«Oh, è venuto qui un po’ di tempo fa, mi ha offerto dei soldi per spiarti.»

Sherlock rotea gli occhi con fare annoiato.

«Hai almeno accettato?»

John pare soppesare a domanda.

«Beh, no.»

«Avremmo potuto pagarci l'affitto. Pensaci meglio la prossima volta.» e Sherlock sembra estremamente serio, cosa che fa divertire ancora di più il dottore e lo fa ridere dissimulando il tutto con un colpo di tosse.

«Vorrei farvi presente che sono assieme a voi nella stanza e vi sto ascoltando.» Mycroft alza entrambe le sopracciglia e guarda entrambi con aria scettica. Sherlock capisce perfettamente che sia annoiato dall'intera situazione, ma non lo sarà mai quanto lui e infastidirlo almeno gli provoca sollievo.
John, comunque, torna all'attacco.
Non è che la loro convivenza sia migliorata molto dai primi giorni ma Sherlock perlomeno condivide i suoi casi con lui cosicché li possa mettere sul blog, e pensa di poter dire la sua sul fatto se un caso sia buono o meno. In realtà non sa quanto si sbaglia.

«Questo comunque sembra un caso che potrebbe interessarti. E soprattutto è molto più interessante ed urgente degli ultimi che ti ha proposto Scotland Yard.»

Sherlock non apre bocca e continua a guardare il portatile su cui sta cercando evidentemente qualcos'altro.

Mycroft scuote la testa e fa leva sull’ombrello per appoggiarcisi sopra con tutto il peso del corpo, annoiato e stufo di dover sempre ripetere le stesse identiche cose. «Sempre lo stesso discorso, Sherlock? Vedi di crescere e fare qualcosa di buono.»

E Sherlock a quelle parole fulmina il fratello con un'occhiataccia ma non ha il tempo di replicare perché il fratello gli volta le spalle, lascia il fascicolo nelle mani di John e se ne va salutando il dottore con un cenno della testa.
John rimane a guardarlo andarsene.

«Fai sempre così con lui? Cos'è? Una specie di rivalità tra fratelli?»

Sherlock non gli risponde ma allunga una mano verso di lui.
Ooh, adesso il caso lo vuoi però.

John si avvicina di un paio di passi e gli sbatte il fascicolo sul palmo aperto. Chiaramente Sherlock non dice nulla (come ad esempio grazie), ma semplicemente lo apre e scorre con gli occhi alle prime righe, voltando poi pagina per pagina e leggendo informazioni ad un velocità che John non crede umana, poi si alza, lascia il portatile chiuso a terra e si avvia alla porta prendendo il cappotto sotto braccio. Ed è un attimo, John lo chiede senza nemmeno pensarci.

«Posso venire?»

Sherlock si blocca oltre la porta col cappotto ancora tra le mani pronto per essere indossato e si volta a guardarlo: l’occhiata tagliente e concentrata su John probabilmente per la prima volta da quando si sono conosciuti. Molto diversa dalla prima volta in cui ha dedotto qualcosa su di lui.

Sherlock torna nella stanza con passo lento, si infila finalmente il cappotto e inizia a mettersi anche i guanti con una cura minuziosa, probabilmente ancora concentrato su ciò che John gli ha chiesto.

«Ci saranno dei cadaveri.» è infine la sua risposta. E John si chiede se stia scherzando o meno.

«Cadaveri? Sulla scena del crimine di un triplice omicidio? Non mi dire, non lo avrei mai detto.»

«Cadaveri e sangue e corpi deturpati o mutilati. Non sarà la buona azione del salvare uno sconosciuto di cui, tra parentesi e ribadisco, potevi proprio fare a meno. Non ci saranno congratulazioni. E non mi ritengo responsabile di tuoi futuri incubi a riguardo.»

John ammutolisce per qualche istante alla menzione degli incubi perché quello proprio non se lo aspettava.
E in realtà un po’ fa male.
E alla fine gli è passata quasi tutta la voglia e il suo orgoglio si sente ferito.
Non li ha voluti lui gli incubi, non li ha chiesti a nessuno e se potesse eviterebbe di averli e di svegliarsi nel letto sudato dal terrore.
Eviterebbe volentieri di sentirsi così inetto e di sentirselo anche ribadire dopo aver fatto una semplice richiesta, grazie tante.

«Non ha importanza, se sono d’intralcio è meglio lasciar perdere.» dice, raddrizzando le spalle e facendo il muso duro, voltandosi e andandosi a sedere in poltrona, raccogliendo il giornale della mattina che Sherlock ha gettato a terra.
Ma prima che si possa sedere Sherlock parla.

«Non ho detto questo. Se vuoi venire sei liberissimo di farlo. Direi che un aiuto in campo medico può sempre essere utile, soprattutto perché quelli della scientifica sono degli incompetenti e io mi intendo molto più di chimica e fisica. Eri bravo nel tuo lavoro?»

John alza gli occhi a guardarlo, stringe il giornale tra le mani e solleva il mento in atteggiamento fiero.

«Veramente bravo. Sì.»

Sherlock solleva un lato della bocca e alza le sopracciglia con aria quasi scettica.

«Beh, allora vedi di dimostrarlo.» detto questo sparisce oltre la porta e John mastica delle imprecazioni tra i denti, correndo a prendere il giubbotto e scendendo le scale dietro all’unico consulente investigativo –vivo ancora per poco, se continuava così- al mondo.

John comunque, appena lo raggiunge, si prende una piccola vendetta mentre Sherlock tenta di fermare un taxi.

«Sai, quello studio sul tuo blog, quello sulle ceneri…» Sherlock si volta in minima parte col busto mentre allunga nuovamente il braccio per fermare un taxi che si è appena liberato «È inutile.» conclude.
Sherlock a quel punto si volta totalmente e la macchina accosta vicino al loro marciapiede.

«Quando risolveremo un caso grazie ai duecentoquarantatré tipi differenti di ceneri dovrai ricrederti.»

«Ah, non ne hai ancora risolto nessuno?»

Sherlock apre la portiera ed entra senza nemmeno guardarlo, affermando risolutamente che no, non ne ha risolto per ora nessuno grazie a quello studio.

«Dicevo io: inutile.»

La portiera si richiude e il taxi parte, Sherlock non parla per tutto il viaggio mentre John si domanda a cosa dovrà davvero assistere.

 

 

John chiude il laptop e si massaggia gli occhi stanchi. Ci ha messo quasi un’ora e mezza a trascrivere tutto ciò che Sherlock gli ha detto (tralasciando l’incapacità dei servizi segreti e tralasciando anche gran parte dei dettagli. Sicurezza nazionale dottor Watson.) e adesso non ne può più di leggere e scrivere parole e di avere la luce del pc in faccia. Sposta il computer sul proprio comodino, si sgranchisce la schiena intorpidita –scrivere a letto non è stata la sua idea più geniale e i colpi che ha preso durante l’indagine a causa di un assassino che non aveva troppa voglia di farsi arrestare non hanno aiutato- e poi si distende, pensando a quanto Sherlock avesse parlato tutto quel tempo e non fosse nemmeno stanco dopo quasi una settimana di notti in bianco e corse a perdifiato e strategie da utilizzare e viaggi da fare (ai quali ovviamente causa lavoro John non ha potuto partecipare) e ore di sonno da recuperare. Ha visto per la prima volta Sherlock Holmes in azione ed è stato emozionante.

È stato emozionante vederlo correre per tutta la città, saltando e correndo nemmeno fosse un maratoneta olimpionico, è stato emozionante seguire i suoi schemi mentali e vedere da vicino come lavora, è stato emozionante trovare il primo tassello del puzzle che li ha fatti arrivare fino alla cima della piramide e così riuscire a prendere un pericoloso criminale, è stato emozionante persino vederlo escogitare un piano, cosa che, di solito, era la parte più noiosa dell’intera faccenda.

E il suo cuore –l’altro cuore- non si emozionava così in quella maniera da anni.

Dall’Afghanistan, quasi. Quando gli hanno detto che doveva assolutamente andarsene o sarebbe morto e lui un po’ morto si è sentito lo stesso. Quando è tornato a casa e la vita è tornata a scorrere esattamente come prima che partisse. Quando ha rimesso piede a Londra e non aveva assolutamente voglia di tornare perché gli sembrava di aver fallito in qualcosa e perché era come tornare a quella situazione che già prima di partire gli era estranea.

Non si è mai trovato bene a non fare niente, gli è sempre piaciuto dare una mano, fare qualcosa che avesse un senso, un significato. Ha sempre voluto fare qualcosa per gli altri e sua madre ne è sempre stata orgogliosa. Ma tornare a Londra gli è sembrato una specie di punizione che non si meritava, non aveva fatto nulla di male, almeno finché non ha letto le lettere S.H. in una mattina uggiosa, mentre beveva caffè che non sapeva di niente nella sua casetta a schiera e leggeva un giornale credendo riportasse notizie come qualsiasi altro quotidiano e la sua giornata sarebbe continuata come al solito.

Non sapeva all’epoca quanto poteva sbagliarsi.

John non conosce Sherlock–sinceramente, non può dire di conoscerlo- eppure ormai, dopo un po’ di tempo, lo decifra. Sa quando Sherlock ha voglia di una tazza di tè, sa quando sta cercando un libro o quando non ricorda dove ha posato l’archetto del violino. Sa che lo sentirà uscire a degli orari improponibile e no, non perché Greg lo sta cercando ma per il semplice fatto che esce e va a cercare qualcosa. Cosa sia quel ‘qualcosa’ John ha deciso di non scoprirlo perché sa che non gli andrebbe a genio e hanno già parecchi motivi di tensione. Uno dei quali è proprio il fratello di colui che si definisce un sociopatico iperattivo, che continua a guardarlo in maniera strana e John non riesce ad interpretare cosa voglia da lui.

E Sherlock è molto diverso da come John se l’è immaginato in quei giorni solitari chiuso in casa. Innanzitutto non si aspettava un uomo più giovane di lui ma qualcuno con qualche anno in più alle spalle, magari i capelli brizzolati e un aria da so tutto io (che Sherlock ha, ma John si è sempre immaginato un’aria da so tutto io simpatica) e, soprattutto, non una persona così… così. Sinceramente non ha molte parole con cui poterlo definire. Straordinario comunque sarebbe sicuramente una di esse, seguita subito a ruota da grande bastardo e subdolo manipolatore ma, per continuare con una convivenza serena e pacifica, forse sarebbe meglio fargli notare solo il primo aspetto.

Lo ha seguito in silenzio per molto tempo. Lo ha seguito praticamente dal terzo caso che Sherlock ha risolto in poi, solo che il consulente non ne ha idea o, perlomeno così spera, anche se non si può mai dire con lui.

È successo tutto per pura fortuna (o sfortuna, al momento non sa bene come definirla questa cosa), un giorno ha aperto il giornale e ha letto che un caso era stato risolto grazie ad un certo S.H. di cui non si sapeva altro se non le iniziale e il geniale acume. Ha chiuso quel giornale e lo ha gettato nella raccolta differenziata senza farci troppo caso.

La seconda volta quel S.H. gli è rimasto decisamente più impresso, portandolo a rileggersi la colonnina del giornale cercando di capire qualcosa in più, sia sul caso che sull’uomo, ma non era valso a nulla. S.H. rimaneva un uomo (o una donna) con semplicemente due iniziali e nessun volto. E una storia decisamente interessante dietro di sé a giudicare dal caso risolto.

La terza volta quasi vuole andare alla polizia e chiedergli chi diavolo sia questo S.H. che ha visto nominare nel giro di un mese già tre volte e che è stato coinvolto nei casi più bizzarri e spettacolari senza la quale, evidentemente, la polizia continuava a brancolare nel buio.

La verità –quella che non vuole dire a Sherlock- è che John ha aperto un blog su questo fantomatico S.H. perché la sua vita al ritorno dall’Afghanistan era tremendamente noiosa e lui non riusciva a stare fermo con le mani in mano. È andato in Afghanistan per un motivo e voleva rimanerci per lo stesso scopo. Invece è dovuto tornare a casa con una ferita alla spalla e una zoppia che va e viene, ma molto più spesso del dovuto resta. Una zoppia di cui si vergogna talmente tanto da evitare il bastone che gli hanno consegnato all’ospedale come la morte e appoggiarsi alle pareti molto più spesso di quanto vorrebbe.

S.H. è stato qualcosa che lo ha aiutato ad andare avanti, che gli ha fatto credere che c’era ancora qualcosa da fare, che lo ha aiutato a dimenticare per qualche ora il mondo monotono e la casetta a schiera in cui abitava e il fatto che si annoiasse a morte e che fuori di lì capitava comunque qualcosa d’interessante e che il mondo continuava a girare e che le persone continuavano a vivere. All’epoca si sentiva così male nonostante coloro che aveva intorno.

Ha aperto il blog –ascoltando per una volta la psicanalista da cui è andato una volta e poi mai più- e ha iniziato a scriverlo facendo notare semplicemente che questa fantomatica persona sembrava saperne sempre una più del diavolo, e aggiornava a seconda delle cose scritte sul giornale e, piano piano, con molta sacrosanta pazienza, la gente si è interessata e ha anche iniziato a mandargli qualche articolo ancora più vecchio, qualche notizia particolare. Qualcuno addirittura assumeva di averlo visto e gli inviava una descrizione particolareggiata di lui e del suo carattere. All’inizio credeva solo che scherzassero. Adesso invece può ben dire che tutte le ingiurie che gli hanno rivolto contro non potevano venir definite a vuoto: Sherlock Holmes è decisamente insopportabile (e questa è solo la definizione carina).

Però, perché c’è sempre un però, lo attrae come una falena viene attratta dalla luce e qualcosa gli fa pensare che ci sia del buono in lui. Veramente del buono. Nonostante i primi giorni di convivenza difficili e decisamente tesi e Sherlock che fa davvero tutto quello che vuole infischiandosene di qualsiasi altra cosa, nonostante le frasi acide e cattive che gli arrivano quando Sherlock è di pessimo umore per la mancanza di un caso o per solo Dio sa cosa, nonostante il fatto che lo ignori quando gli parla anche se è una discussione per affari urgenti, nonostante il fatto che –la maggior parte delle volte- John sembra solo infastidire Sherlock e farlo infuriare per non sa nemmeno lui bene quale motivo e molte volte ha dovuto assistere a delle vere e proprie sceneggiate senza capo né coda, nonostante il fratello di Sherlock gli abbia detto di stare attento, nonostante tutto: Sherlock Holmes gli piace.

E il fatto assurdo è che è stato dipendente da lui da quando è tornato e non se n’è nemmeno accorto.

E la cosa più assurda John non l’ha ancora capita.

 

 

Sono passati mesi da quando Sherlock ha accettato che John Watson diventasse il suo coinquilino e che lo seguisse addirittura sulle scene del crimine.

Ha dovuto ricredersi su quell’ometto basso con problemi di fiducia e una forza da non sottovalutare. Lo ha aiutato in diversi casi, si è reso utile molto più di quanto pensava e lo ha aiutato a dedurre ancora più velocemente del solito. Che questo dipenda dal fatto che John sbagli tutte le deduzioni e così lo porti a fare la deduzione giusta al momento giusto, è un altro paio di maniche.

John ha conosciuto quasi tutti quelli di Scotland Yard e ormai lo salutano quando arriva o gli danno qualche pacca sulla spalla, riescono ad essere addirittura quasi felici di vederlo e Sherlock si chiede il perché. Non fa nulla di particolare, sta semplicemente lì, in piedi, e quando lo chiama si accuccia vicino al cadavere e ne osserva quali potrebbero essere le cause della morte. Non fa nulla di più. Eppure John sta simpatico. Sherlock si chiede che genere di associazione faccia la gente per definire John in quella maniera. Forse dovrebbe condurre un esperimento sociologico al riguardo. Poi pensa che non gliene frega niente e scarta l’opzione, sollevando le spalle e girando la pagina del Times.

E, a proposito di John, dov’è finito? Stava parlando con lui fino a qualche attimo fa, ne è totalmente sicuro.

Si blocca un attimo a quel pensiero e volge lo sguardo verso il teschio appoggiato sulla mensola. Da quando gli è venuta l’abitudine di parlare con John e non col teschio proprio non lo sa. Sarà che John, perlomeno, ogni tanto risponde o gli passa gli oggetti che gli servono. A questo punto invece dovrà chiamare la signora Hudson perché davvero non ha voglia di alzarsi per prendere il computer sul tavolo della cucina.

Quando John serve non c’è mai, a che scopo l’ha lasciato convivere con lui a questo punto?

Sospira scuotendo la testa e torna al Times finendo di leggere la cronaca nera e accartocciando poi il giornale e gettandolo nel caminetto quando non trova assolutamente nulla che possa interessarlo.

Che cosa starà facendo Moran? Perché non lo intrattiene? Si sta dannatamente annoiando e non ne può più. Il caso che gli ha rifilato Mycroft non è riuscito a tenerlo tranquillo nemmeno una settimana (e John che affermava che la sua risoluzione fosse straordinaria era davvero senza senso) e ora Scotland Yard non ha nulla d’interessante per le mani.

Si annoia. Si annoia così dannatamente tanto.

Non c’è nulla per me, qui.

Quando sente il citofono squillare emette un gemito d’insofferenza. Non ha voglia di alzarsi, non ha voglia di far nulla, ben che meno ha voglia di un caso minore. Benché sia annoiato le cose banali lo annoiano ancora di più.

La signora Hudson pare avere prontezza di spirito perché va lei ad aprire e poi dei passi leggeri iniziano a salire i gradini.

Sherlock ha già sentito qual passo. Leggero, cadenzato, il passo così sottile da non far quasi risuonare il legno vecchio. Sorride, Sherlock, e chiude gli occhi, aspettando di vedere quella persona entrare in casa e capire che notizie abbia per lui. È stata decisamente provvidenziale.
Non appena volta il capo la porta si apre e un ghigno gli si forma in viso.

«Ti trovo bene.» dice.

«Amo quando menti così spudoratamente.» la persona gli risponde.

 

John ha lasciato Sherlock mentre parlava riguardo a qualcosa di molto poco sensato (almeno per lui) e lo ha salutato, uscendo per andare a fare la spesa siccome erano ormai settimane che la dispensa urlava pietà e non potevano approfittarsi della bontà della povera signora Hudson per andargli a rubare cibo dalla dispensa.
Fatto sta che dubita persino che Sherlock si sia accorto del fatto che se ne sia andato. Ormai ha imparato che quando entra nel suo palazzo mentale (signore Iddio, un palazzo mentale, non è proprio normale) non c’è niente da fare: a meno Greg non gli entri in casa enunciando di aver trovato un genio del crimine che nessuno riesce a scovare dubita fortemente Sherlock uscirebbe dalla propria testa. E John la trova una cosa incredibile. O forse incredibilmente stupida.

Fatto sta che ora se ne torna a casa con tre borse della spesa che, prega, gli durino almeno per le prossime due settimane perché proprio non ha il tempo materiale di andare al supermercato ogni giorno e Sherlock dovrà darsi una regolata coi propri esperimenti di origine vegetale o animale.

Incrocia la signora Hudson che se ne sta andando e la saluta mentre lei gli tiene aperto il portone e lo fa entrare così da non fargli tirare fuori le chiavi con le mani occupate.

«Grazie mille signora Hudson.»

La donna gli sorride e gli dà qualche pacca sulla spalle.

«Non ti preoccupare caro, vedrai che tutto andrà bene.»

John si ritrova ad alzare le sopracciglia e a chiedere spiegazioni, ma la donna se ne va senza dirgli altro e si allontana lungo la strada per andare chissà dove.

John rimane per un attimo sulla soglia (un piede che tiene aperta la porta) ma poi decide ai salire, lasciando perdere l'avvertimento della signora Hudson perché proprio non ha testa per stare dietro a certe cose al momento.

Sale le scale e dall'appartamento non esce alcun suono, quindi immagina che Sherlock o sia uscito o sia ancora rinchiuso nel suo palazzo mentale e francamente forse la prima ipotesi gli andrebbe meglio.

E così è quando apre la porta che quel qualcosa che gli cambierà per sempre la vita accade. Quel qualcosa che davvero non si aspettava. Quel qualcosa che gli fa stringere il cuore e spalancare gli occhi mentre appoggia le borse a terra.

«Ah John, sei tornato finalmente, ti stavo aspettando!»

La donna che rimane avvinghiata al collo di Sherlock sposta gli occhi azzurri verso di lui e le labbra rosse si sollevano in un sorriso canzonatorio e furbetto.

E questa chi è?!

La donna scioglie quella specie di abbraccio e si liscia il vestito bianco, rimanendo miracolosamente in piedi su dei tacchi stratosferici.

Sherlock rimane qualche secondo in silenzio e poi pare ricordarsi che è buona norma ed educazione presentare le persone.

«Lei è Irene Adler, una vecchia amica.»

La donna non smette di fissare il dottore e lui si sente incredibilmente in soggezione oltre che infastidito dalla sua presenza.

Vecchia amica un corno! pensa mentre la vede alzare una mano elegante e poggiarla delicatamente ma possessivamente sulla spalla di Sherlock.

«Purtroppo...» parla lei, finalmente, e John trova irritante persino la sua voce «Amici credo non sia il termine adatto. Mi sa che non arriviamo oltre la conoscenza, caro Sherlock. Peccato che non mi è concesso di più da questo bel visino.» e detto ciò si avvicina nuovamente a cingergli il collo. E ciò che spaventa maggiormente John non è il fatto che lei lo faccia, ma Sherlock che le permette di farlo.

A Sherlock non è mai interessato nulla di tutto questo. Ne è sicuro. Non ha mai dimostrato simpatia per nessuno, gli ha espresso molto chiaramente (ad una cena in un ristorantino italiano di cui aveva -per metà- salvato il buon nome del proprietario) il suo disgusto per le relazioni sentimentali e sociali in generale, quindi perché quella donna può mentre lui...?

La Adler si alza in punta di piedi e si avvicina al viso del detective ed è in quel preciso, esatto momento, che John avverte una scarica lungo la colonna vertebrale, il suo cervello gli dice di scattare avanti e il suo cuore urla mio.

 

 


 

NOTE:

John non gli poteva resistere ancora per molto, doveva solo capirlo in qualche modo. XD

   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: PapySanzo89