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Autore: Jecky Ru    05/08/2014    0 recensioni
Poggiai le mani sul coperchio spesso e pesante, intenzionata a rimuoverlo. Non appena ebbi iniziato a scostarlo, però, una strana sensazione mi fece titubare. Un brivido, o qualcosa di simile. Un pensiero fastidioso mi suggerì di scappare. Non sarei dovuta essere lì. Me ne accorgevo troppo tardi, quando ormai la pesante pietra era rimossa e il suo contenuto mi mozzava il respiro.
Un ragazzo di massimo vent'anni giaceva in un letto di petali di rosa, secchi ma comunque profumati. Le sue carni erano perfettamente conservate, i suoi lineamenti androgini rimasti inalterati. I capelli erano lisci e lunghi fino al petto, candidi come la neve, bianchi come i petali di un giglio. Dapprima temetti di trovarmi dinanzi ad un mio simile o comunque una creatura maligna. Ma non c’erano dubbi, era morto e privo di vita. E poi quelle forme erano così delicate, così perfettamente messe insieme per creare qualcosa di bello e aggraziato. Impossibile pensare anche per un solo istante che tutta quella apparente purezza nascondesse qualcosa di torbido e nefasto. Impossibile. Impossibile!
Troppo bello per essere vero, troppo bello per esistere.
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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DOVE SORGE IL SOLE

 

Se credi che questo sarà l’ennesimo trastullo con cui poterti sollazzare, in attesa che passi del tempo altrimenti inutilizzato, sappi che ti sbagli. Non mi interessa ciò che pensano gli altri, non sono qui per il loro piacere. Se mi trovo qui a scrivere del mio passato lo devo solo alle insistenti richieste di Rilke che ogni sera, puntualmente, mi prega di raccontagli questa storia. Ho pensato che se l’avessi scritta da qualche parte avrebbe smesso di lagnarsi e di farmi ripetere sempre le stesse cose. Inoltre gli altri miei due compagni di vita ora non sono qui, perciò ne approfitterò per rievocare dei bei momenti. Premetto che sono passati tanti anni dal tempo di quest’esperienza, e mi scuso se a volte le descrizioni saranno superficiali ed imparziali. Durante il racconto parlerò al passato, in quanto sono cambiate molte da cose da quando la mia avventura ebbe inizio. L’unica cosa che è rimasta uguale, oltre i miei riccioli color cioccolato ed i miei occhi blu elettrico, è il mio nome.

Mi chiamo Iscah e all’epoca facevo parte di quella razza che gli uomini chiamano vampiri. Essere un angelo caduto, un diverso, un immortale, schiavo della notte e delle tentazioni. Succube di un futuro destinato a svolgersi nel buio, in cambio di una forza senza pari. Una cosa grandiosa, senza dubbio.
In realtà, far parte di loro mi lasciava totalmente indifferente. La mia nuova vita, la vita nella morte, non era dipesa dalla mia volontà.
In quegli anni si sentiva parlare dei vampiri come esseri immortali, con molti secoli di vita alle spalle. Di mostri invincibili che usavano uccidere senza pietà le loro prede, dissanguandole. Alcuni sostenevano che fossero persone dannate, che bramavano di conquistare il mondo e di distruggere tutto e tutti quelli che si imbattevano nel loro cammino. Questi grandi esseri, così malvagi, alla sola vista del crocifisso si sarebbero consumati nel fuoco, ardendo nei loro stessi peccati, e non v’era miglior repellente dell’aglio per tenerli lontani. Giravano voci che narravano di sanguinose e brutali guerre della razza vampirica contro quella degli Uomini Lupo. Altre, invece, si limitavano ad affermare che molto tempo prima fosse esistito un certo conte Dracula, il vampiro per eccellenza, terribile e spietato, amante della lussuria e del vizio.
Bene, io non ero nulla di tutto ciò.
Immortale? Forse, ma ero una vampira da circa un anno e non vantavo alcun tipo di esperienza al riguardo.
Invincibile? Magari.
Bramosa di sangue? No. Classificata nelle schiere dei succhia sangue pusillanimi, innocenti, o per qualcuno considerati buoni, non avevo mai recato danno a un essere umano. E questo non era affatto un bene, per me.
Per quanto concerne il crocifisso e l’aglio… tuttora il primo figura nella maggior parte dei miei monili d’oro e caucciù, mentre il solo effetto del secondo consiste nell’olezzo insopportabile.
Riconosco, a mio malgrado, che al tempo non ero in possesso di un carattere semplice, ma bensì complicato e assai difficile da sopportare. La mia intelligenza si univa alla testardaggine, il narcisismo all’insicurezza. La tendenza all’autodistruzione rendeva vani i miei periodi brillanti e socievoli. Tuttavia avevo imparato a cavarmela da sola fin da piccola, crescendo senza l’aiuto di nessuno. Ma questa è un’altra storia, che presto o tardi aggiungerò al mio elenco di memorie da riportare scritte.
In quest’occasione ho deciso di narrare una delle mie vicende preferite, e guarda caso anche di Rilke: quella del mio sbarco a Tokyo, in una notte di metà ottobre. Tutto ciò che mi ero portata per il viaggio era una valigia nera, nella quale avevo ficcato in fretta e furia tutti i miei effetti personali.
Tralasciando tutto quello che ne deriverà, credo proprio che mi divertirò a scribacchiare qualcosa qua e là, richiamando alla mente dei pensieri ormai rimossi e desideri cancellati dal tempo. Chissà, magari un giorno qualcuno li leggerà ed io sarò ricordata.
Appena il vampiro mezzosangue di nome Mark mi annunciò dell’imminente attracco della nave mercantile di cui era il capitano, mi precipitai a radunare le poche cose che mi ero portata per il viaggio.

« Arriveremo alle undici e mezza della sera, e per allora il sole sarà già calato » disse, sedendosi vicino a me. Lo guardai speranzosa. « E dopo che farò? Voi quanto rimarrete qui? »
« Non ti preoccupare per questo, ho già pianificato tutto, dalla prima all’ultima cosa! »
« Cosa intendi? »
« Adesso ti spiego… » cominciò, mentre si stendeva sopra ad un ammasso di vecchie coperte. « Quando scenderemo la prima cosa che faremo è trovarti un posto tranquillo dove potrai riposare durante il giorno! ».
« Tsk… per esempio il cimitero? » lo interruppi.
« Sì, per esempio il cimitero » ripeté con aria assente fissando il soffitto. « Dopo di ché ti procurerò un corso di lingua giapponese, hai presente le registrazioni Mp3? ».
Io annuii, e lui continuò: « Bene, i vampiri imparano subito un’altra lingua, una manciata di ascolti in successione del file ti dovrebbero bastare! ».
« Ma come farò a comprare le cose? Voglio dire, qui si usa lo Yen… »
« Ho pensato anche a questo! » aggiunse con aria da saputello. « Mentre tu sarai al cimitero a sceglierti la tomba, io andrò a cambiare tutti i tuoi soldi in Yen! »
« Grazie, Mark » dissi tra me e me.
« Ah! Quasi dimenticavo, ho una cosa per te… tieni, questo libricino potrebbe aiutarti a capire cosa c’è che non va nella tua trasformazione… era di un famoso ricercatore e studioso dell’occulto. Marino Serafino, ti dice niente? Te lo regalo, tanto a me non serve più! »
Marino Serafino. Ancora quel nome!
La mia intera vicenda si era svolta a causa di quell’uomo!
Marino Serafino era un famoso cacciatore di creature inumane, il quale si era fatto una fama non indifferente tra di loro, che ora si volevano vendicare su di me, sua unica discendente.
Serafino era il portatore di tutte le mie disgrazie, iniziate quasi due anni fa nel mio paese natale, l’Italia, e poi passate in Francia, da dove il battello mercantile era salpato, in rotta verso il Giappone.
A dire la verità possedevo già un altro libro del mio vetusto parente: era un grande tomo con una copertina di spesso cuoio marrone, contenente più di mille pagine. Lo possedevo fin dalla nascita, ed era la sola cosa che mi legasse alla mia famiglia, dato che ero cresciuta in un orfanotrofio. Il problema principale legato al libro in questione era che le sue estremità erano legate assieme con una preziosa catena d’oro ed un lucchetto, che nei mesi passati avevo tentato in tutti i modi di aprire, ma senza successo.
Altri ci avevano provato, umani e non, ma tutti quanti avevano fallito. Questo lasciava intendere che sul libro c’era una qualche sorta di incantesimo, che si poteva rompere solamente inserendo la chiave giusta all’interno del lucchetto.
Purtroppo, a distanza di diciassette anni dalla mia nascita, la chiave non si era ancora trovata, perciò il contenuto del vecchio tomo era rimasto sconosciuto.

« Allora? Qualcosa? » ripeté Mark, in attesa di una risposta.
« No… » dissi timidamente, distogliendo lo sguardo: nel corso degli ultimi mesi avevo imparato a mie spese a dire la verità sul mio legame col cacciatore. E poi, anche se la cosa non influiva, Mark era un mezzo vampiro, e per evitare qualsiasi inconveniente decisi di mentire.
« Cavolo! » esclamai, afferrando il sottile rilegato di fogli. « Ma è leggerissimo! Questo Marino Serafino non ci avrà messo tanto a scriverlo! ». Mark sbuffò con aria insofferente. « Se non lo vuoi puoi ridarmelo… »
« Non volevo dire questo! »
« Tanto ormai non so che farmene, invece a te potrebbe essere utile… magari ci trovi qualcosa che possa spiegare i tuoi misteriosi ritorni ad essere umana! Be’, buon riposo! » concluse, girandosi da un lato e dandomi le spalle.
Già, un’altra gatta da pelare!
Non contenta di tutto quello che mi era successo, la dea Sfortuna mi aveva fatto dono di un altro problema: non ero una vampira normale, ma ogni tanto, per ragioni allora sconosciute, tornavo ad essere un’umana. Debole, pallida ed anemica, ma umana.
« Grazie ancora… » sussurrai, per poi guardare l’orologio: erano le sei e un quarto di mattina, l’alba ormai era prossima, così mi stesi di fianco al mio amico e m’addormentai profondamente.

 

Mi svegliai la notte dopo, o meglio, fu Mark che lo fece.
« Coraggio, siamo arrivati! Alzati, preparati, lavati, dammi l’oro… sbrigati! » diceva, assestandomi schiaffi in faccia per svegliarmi. Feci come aveva detto: mi lavai, raccolsi le ultime cose, mi truccai, bevvi le due bottiglie di sangue di mucca che mi aveva portato, presi la mia valigia, gli consegnai tutte le cose di valore che avevo e lo seguii sul ponte della nave. Vidi molti uomini faticare cercando di scaricare le grosse casse di merci che in precedenza avevo visto caricare. Poi Mark mi prese per la vita e disse in tono soddisfatto:
« Ecco! Siamo arrivati… questo è il porto di Yakohama! ».
Il mio fiato si mozzò di fronte al desiderio di raggiungere l’oriente finalmente realizzato. Sospirai profondamente, deglutii e aprii la bocca, ma da essa non uscì alcun suono. Sentii la mano calda di Mark afferrare la mia. « Resteremo a Yakohama solo poche ore, poi ci dirigeremo verso Tokyo… è lì che dobbiamo portare la merce, quindi ora vieni con me! », e detto questo mi condusse verso i suoi subordinati che stavano ancora faticosamente scaricando vari scatoloni e pacchi dalla nave alla terra ferma.
« Dovrei fare come questi uomini? » chiesi stupita a Mark, che per tutta risposta annuì.
« Sei una vampira, no? Puoi scaricare la mercanzia molto più velocemente di tutti loro messi insieme! ».
Ma la sua richiesta fu messa in dubbio dal mio sguardo indolente.
« Mark » dissi quasi indignata. « Ma come puoi chiedermi una cosa del genere? ».
Lui mi scrutò con i suoi occhi marroni e aggiunse in tono mesto: « Perché non dovrei chiederti di farmi questo favore? »
« Non ne ho voglia… » replicai pigramente, ma lui insistette: « Non mi sembra di chiederti molto! »
« Ma… »
« Niente ma! Sei una scansafatiche! Ed io che ti ho accettata sulla mia nave in maniera totalmente gratuita e nutrita, protetta senza riserve fin’ora… » disse con un’aria delusa che non mi dette altra possibilità che rispondere…
« D’accordo, mi hai convinta… cosa devo fare? ».
Mark riprese subito il buon umore e mi guidò davanti ad un container aperto. « Guarda, Iscah, qui ci sono delle scatole. Prendile e portale dentro a quel camion bianco che vedi parcheggiato di fronte al magazzino numero sei. Tutto chiaro? Ah, e stai attenta a non rovesciare nulla, è roba delicata! ».
« Sissignore… » sbuffai a bassa voce vedendo il capitano della nave mercantile allontanarsi a passo veloce per rimproverare un paio di suoi sottoposti che avevano appena lasciato cadere a terra uno scatolone. Afferrai con forza il pacco di cartone avvolto da una busta protettiva, quasi a voler disobbedire all’ordine di Mark che m’aveva appena detto di trattare quella roba con delicatezza, lo sollevai e cominciai il tragitto dal container fino al furgone che mi aveva indicato l’uomo di mezza età. Sentivo la noia crescere ad ogni viavai che facevo, in quanto i miei compiti erano assai monotoni: prendi, solleva, trascina e scarica, poi ricominciavo da capo. E così feci finché le scatole nel primo container furono esaurite, cosicché potei andare da Mark per avvertirlo che avevo fatto il mio dovere.
E cosa mi rispose lui?

« Bene, ora puoi cominciare con il secondo. Per te ce ne sono dieci in tutto, ho organizzato il tempo… e non fare quella faccia, non hai mica visto un fantasma! ».
Impossibile! Altri dieci grandi container da svuotare ed altri dieci T.I.R. da riempire! Ma dovevo farlo, in fondo lui mi aveva fatto il grande favore di ospitarmi gratuitamente nella sua nave per tutto il viaggio…
Ero appena riuscita a riempire il sesto furgone, quando, tra l’assordante suono delle sirene e a bordo delle loro macchine bianche, comparvero quattro volanti della polizia. Immediatamente tutti gli uomini presenti smisero di lavorare, guardando insospettiti le facce minacciose dei poliziotti scesi dalle loro vetture.
« Cosa sta succedendo qui? » chiese con la sua voce squillante quello che doveva essere l’ispettore ad uno dei marinai, che però non seppe come rispondere.
« Sento puzza di guai » minacciò l’uomo, saltando con lo sguardo di volto in volto e passeggiando in mezzo agli uomini con gli scatoloni ancora in mano. Ma dov’era Mark?
All’improvviso l’uomo baffuto, accanendosi contro un altro alla sua destra, gli strappò la scatola di cartone dalle mani, la poggiò con foga in terra e la aprì, sicuro di trovarci della merce proibita. Rimase deluso, però, dal vedere che nel contenitore vi erano solo farmaci e strumenti per le cure mediche. Proprio in quel momento vidi Mark apparire di corsa in scena.
« Signore! Cosa sta facendo? » chiese allarmato cercando di riprendendo fiato, ma il suo interlocutore non si scompose minimamente e, tendendogli la mano, disse in tono impeccabile:
« Sono l’ispettore Egao Mitsurugi… è lei il capitano qui? »
« Sì, sono io, Mark Swantowich! Mi spieghi cosa sta succedendo per favore! » ribatté il cinquantenne, quasi irritato dal comportamento brusco dell’ispettore.
« Ci scusi, pensavamo che in questi scatoloni ci fosse roba… », l’uomo fece una pausa e si guardò intorno. « Be’… in questi giorni abbiamo arrestato dei trafficanti di droga che ci hanno confessato che tra ‘sta sera e domani sarebbe arrivata una nave per rifornirli di cocaina! ».

Naturalmente io riuscivo a sentire tutto pur essendo nascosta dietro al sesto container, sia per via del mio finissimo udito, sia perché la risposta di Mark fu molto, ma molto decisa:
« Ma come si permette lei, anche se è un poliziotto, di venire qui a sirene spianate, maltrattare i miei dipendenti e addirittura di aprire gli scatoloni? » ringhiò in faccia all’ispettore, che freddamente gli porse le sue dovute scuse.
« Comunque sia », riprese Mitsurugi. « Per essere in regola deve mostrarmi i documenti per scaricare questa merce ».
A quelle parole percepii chiaramente il corpo di Mark irrigidirsi. « Ehm, stavamo appunto cercando di contattare il ministero mercantile estero di Tokyo per farceli avere… »
« Quindi questa è una manovra pirata a tutti gli effetti! » concluse il commissario, incrociando le braccia e fissando il capitano con aria di sfida.
« Cosa sta dicendo? » rispose inquietato il capitato, ma l’ispettore propose una soluzione: « Io non l’arresterò… »
« E ci mancherebbe altro! »
« Ma andrò di persona al ministero di Tokyo per assicurarmi che dice la verità, signor Swantowich! »
« Non c’è bisogno che ci vada lei… stavo per andarci io di persona! »
« Bene, allora ci andremo insieme! » concluse Mitsurugi, facendo segno ai propri uomini di rilassarsi. Ormai quasi tutta la merce era stata caricata sui venticinque furgoni. Mark restò in compagnia del commissario per alcune ore a chiarire il motivo per il quale si trovavano lì e senza documenti, per giunta. Poi si arrivò ad un accordo: la polizia avrebbe chiuso un occhio su quella faccenda, a patto che Mark facesse avere i documenti per l’importazione dei medicinali al signor Mitsurugi entro uno giorno e mezzo. E così, com’erano venute, le volanti della polizia giapponese si dileguarono.
Tutti gli uomini si guardavano reciprocamente con delle espressioni veramente scioccate e dubitanti: non capitava tutti i giorni di venir minacciati d’essere arrestati dalle forze dell’ordine solo per fare il proprio lavoro. Mark stava ancora scuotendo il capo, quando decisi di uscire dal mio nascondiglio ed avvicinarmi. « Mark, perché… »
« Non dire… nulla… » sbuffò, massaggiandosi con la mano destra entrambe le tempie. « È successo un casino! ». Mi raccontò quello che aveva intenzione di fare, mentre gli altri avevano ormai finito di caricare tutti gli scatoloni sui T.I.R..
« Cosa? » chiesi incredula. « Vuoi veramente andare a Tokyo senza di me? » gli ripetevo camminando tre passi dietro di lui verso un taxi. L’uomo però continuava ad ignorarmi, finché, presa dalla rabbia, non lo afferrai per il colletto della camicia. « Adesso mi dici perché! » ringhiai.
Lui mi guardò tristemente. « Tu resterai qui… dormirai dentro uno dei magazzini che vedi, lì sarai al sicuro… i miei uomini sanno cosa fare. Ovvero aspetteranno tutti il mio ritorno, e anche tu lo farai… io mi devo occupare di questa faccenda. Appena avrò ottenuto il permesso di scaricare questa roba, passerò alla centrale e mostrerò all’ispettore Mitsurugi i documenti, infine tornerò e potremmo finalmente proseguire il viaggio insieme… perché non leggi il libro che ti ho dato? » e detto questo chiuse lo sportello del taxi, che vidi sparire dietro una curva.

Sbuffai contrariata: non mi aveva neanche dato il tempo di protestare. Guardai l’orologio e notai che era piuttosto tardi, così decisi che per una volta avrei potuto dare retta a Mark e starmene lì buona, buona in attesa del suo ritorno. Anche se la cosa mi stizziva da morire. Tornai sul ponte della nave a prendere la mia fedele valigia, poi, visto che il cielo cominciava già ad imbiancare, mi introdussi di nascosto nel magazzino numero sei, riuscendo rompere il vetro di una finestra. Il posto era completamente buio. Persino io che ero una vampira faticavo a mettere a fuoco le immagini: c’era della paia raccolta dentro grandissimi contenitori di legno e anche qualche attrezzo di ferro per coltivare l’orto. Al centro del magazzino vi era un grande spazio sgombro, illuminato solamente dalla fioca luce delle prime luci dell’alba che penetravano dalla piccola e rotonda finestra sul soffitto rotondeggiante. Decisi che per quel giorno il mio letto sarebbe stato un grande contenitore pieno di fieno.
Mi sdraiai: pur non essendo il massimo della comodità, l’erba secca era sicuramente più comoda del pavimento. Non presi subito sonno, così ne approfittai per leggere alcune pagine del piccolo libro di Marino Serafino. Modestamente ero la nipote del cacciatore più in gamba degli ultimi due secoli. Sarebbe stato un piacere sfruttare ed assimilare altre delle sue conoscenze nel campo delle creature della notte. Magari avrei anche imparato qualcosa su di me, in quanto vampira. Girai la prima pagina, trovando l’indice: era una specie di catalogo mostruoso, dove figuravano più di un centinaio di creature differenti. Sfogliai e sfogliai le pagine, affamata di conoscenza. Vidi moltissime specie diverse, come i Pisaca, Lesci, Har Po Crod e molti altri. Lessi della differenza tra Licantropi e Lycas: la prima era la vera e proprio razza di uomini lupo, mentre i secondi erano degli ibridi nati dall’incrocio tra un licantropo e altre specie. Appresi che la croce, per fare effetto sui vampiri, doveva soddisfare due condizioni: la prima era che il vampiro in questione fosse cristiano e che quindi riconoscesse l’autorità dell’oggetto e che, in secondo luogo, egli avesse compiuto o pensato cose contro la sua religione. Ecco spiegato il motivo per la quale a me faceva solo piacere osservare il crocifisso. Sfortunatamente non c’era scritto nulla che potesse assomigliare alla spiegazione dei miei ritorni ad essere una ragazza umana.
Logico… pensai. Infondo, per quanto abile potesse essere il mio antenato, non era di sicuro onnisciente! Andai avanti nella lettura, arrivando agli Zombie e le creature non morte. Streghe, Banshee, Folletti, Demoni… c’era di tutto e di più! Passai, però, alla lettura approfondita le volte successive.

Le notti che Mark mi fece passare prima di rifarsi vivo furono ben quattro. Alla fine, allo scoccare della quinta, precisamente alle due e un quarto, sentii il motore di un furgoncino avvicinarsi e parcheggiare di fronte al magazzino a destra del mio. Arrabbiata come la Furia della quale stavo leggendo a pagina centouno del libro, m’avviai a passo spedito in quella direzione, portando la valigia in spalle. Vidi da lontano Mark scendere di fretta e furia dal veicolo, sbattere lo sportello con forza e precipitarsi a trasportare delle scatole piene di roba dai container al portabagagli del furgoncino. Lo raggiunsi immediatamente e mi fermai a braccia conserte con un’espressione truce in faccia, mentre accomodava il secondo scatolone di cartone a bordo.
Adesso si gira, e appena mi chiede scusa lo concio per le feste!
Ma quando l’uomo si voltò l’unica cosa che sentii fu il suono dei suoi passi allontanarsi di nuovo verso il container.
« Questo è troppo! » scoppiai, afferrandolo per la spalla e costringendolo a voltarsi contro la sua volontà con la mia presa di ferro.
« Che cavolo stai facendo? Sei impazzita? » esclamò, cercando di riavviarsi.
« Ascoltami bene! » ululai. « Parti per Tokyo senza portarmi con te e dici di tornare la notte dopo… ebbene, sono quattro notti che t’aspetto. Vergognati! » e dicendo questo gli mollai un cazzotto.
Ora, di solito quando una donna picchiava un uomo più grande di lei non era solita fargli del male. Questo non valeva per me e la mia forza innaturale. I vampiri erano famosi per la loro potenza distruttrice. Infatti vidi Mark rotolare tre metri più avanti.
Si rialzò immediatamente, infuriato, e per poco non mi venne addosso. « Cosa pensi di fare, eh? Ragazzina che non sa nulla della vita! Lasciami in pace e togliti dai piedi! Devo caricare un po’ di merce e partire di nuovo per Tokyo! »
« Non parlarmi così, Mark! E poi questa volta voglio venire anche io! » ribattei un po’ più calma, pedinandolo avanti e indietro. « Assolutamente no! No e no!»
« Invece sì, sì e sì! »
« Senti » mi disse a bassa voce, guardandomi negli occhi e fermandosi per la prima volta. « Ti prometto che tornerò prestissimo… ma ora ho una gran fretta! »
« Tornerai prestissimo? » ripetei tranquillizzata.
« Sì, questione di… due o tre giorni! » concluse, riprendendo il ritmo frenetico.
« Due o tre cosa? » esclamai. « Ma è un’eternità! L’altra volta dovevi rimanere via un giorno e mezzo e ne sono passati quattro… ora non oso immaginare quanto dovrò realmente aspettarti per due o tre giorni, come li chiami tu! »
« Non vieni e basta! » affermò con aria conclusiva mentre chiudeva la terza porta del furgoncino.
Rimasi zitta. Non mi voleva, era questa la verità.
« Ora vai pure… » mi congedò.
Misi la valigia a cavallo di entrambe le spalle e annuii. « Va bene, se è così che vuoi… obbedirò » dissi in un sussurro, prima di avviarmi verso il magazzino numero sei. Ma lungo il tragitto un sorriso beffardo mi comparve in volto: sarei salita di nascosto. Infatti, appena Mark salì un attimo sulla nave a prendere non so cosa, corsi verso il furgoncino, aprii il bagagliaio e mi ci infilai dentro.

Buio.

Le scatole occupavano quasi tutto il posto. C’era appena lo spazio per mettermi seduta con la valigia sulle ginocchia. Poi, essendo la posizione molto vicina alla porta, non mi sarei potuta neanche nascondere nel caso fosse stata aperta. Così mi ammutolii ed aspettai. Mark e l’autista non si fecero aspettare. Dopo soli cinque minuti arrivarono, salirono, misero in moto e partirono. Non avrei dovuto fare il minimo rumore, anche se avevo una voglia incontenibile di ridere per la mia malefatta. Per i primi dieci minuti di strada, né l’uomo alla guida, né Mark parlarono, ma fu solo dopo una serie di depressioni dell’asfalto che proferirono parola. « Che schifo queste strade… » affermò il capitano.
« Già » confermò l’altro.
« Speriamo che la roba stia a posto, se no Yaku mi uccide… » disse con ironia Mark.
« Senti, quanta ne hai portata ‘sta volta, Mark? »
« Fammi pensare… dovrebbero essere circa centotrenta chili ».
A quell’affermazione l’automobilista rise. « Dannazione, Mark Swantowich, sei il più maledetto fornitore di cocaina del mondo! ».

Silenzio.

Quella frase mi sconvolse a tal punto da farmi sfuggire un gemito.
« Hai sentito qualcosa? » chiese dubbiosamente il guidatore.
« No » rispose Mark con indifferenza.

Droga. Cocaina. Ecco cosa c’era di tanto urgente da consegnare! Sentii un senso di nausea pervadermi il corpo: Mark, il mio amico Mark, era il trafficante di droga dalla quale ci aveva messi in guardia il commissario Mitsurugi!
« E poi come hai fatto per quel poliziotto? » iniziò tranquillamente l’altro. « Sei davvero riuscito a ricevere i documenti dalla prefettura di Tokyo? »
« Macché » sbuffò. « L’ho ammazzato! ». Così dicendo risero insieme.
Quindi Mark non era il vecchio e paziente uomo di buon cuore che credevo! A nulla erano valse le notti passate a conoscerci lungo il tragitto della sua nave. Un conato di vomito mi risalì sul per lo stomaco, insieme alla voglia smodata di andarmene, allontanarmi da lui.
Passò un’altra mezz’ora di discorsi dettagliati su cosa aveva fatto questi quattro giorni e come era riuscito a far ricadere la colpa dell’omicidio del commissario su una matricola. Ad un tratto, però, il discorso capitombolò sulla sottoscritta. « E quella ragazzina? Iscah, se non sbaglio… che ci fa con noi? »
« Lascia perdere, la cosa non ti riguarda »

« Hai intenzione di uccidere anche lei? »
« In realtà è complicato da spiegare. Ho scoperto delle cose inopportune sul suo conto che mi costringeranno a prendere provvedimenti… » concluse il capitano.
Portai ambedue le mani alla faccia come segno di disperazione. Non potendo sfogare le mie emozioni, e mi trovavo in una situazione veramente critica. Ma essa peggiorò ancora di più quando, dopo un grande cratere in mezzo alla strada, preso in pieno dal furgoncino, i due uomini decisero di sostare per vedere se gli scatoloni avessero ricevuto qualche danno. Sentii il veicolo fermarsi in un parcheggio. Da fuori venivano anche molti altri rumori, tutti quelli che si possono trovare di notte in una città grande come Tokyo. Vidi Mark assieme al suo amico scendere e venire verso la porta posteriore, aprirla e… Tadaaan!
Un sorriso imbarazzato a trentadue denti comparve ai loro occhi. Sicché Mark, quasi come se lo fosse aspettato, disse: « Oh, sei qui ». Scesi dal furgone sotto lo sguardo allibito del secondo uomo.

« Ehm, ciao Mark! Bella nottata, vero? » dissi impacciata.
« Proprio bella. Peccato che stia per finire… » ribatté tranquillamente avvicinandosi a me, che feci un passo indietro. « Perché sta per finire? » domandai sconcertata.
« Guarda… » sibilò. « Guarda l’orologio! È quasi mattina! ».
Effettivamente erano quasi le cinque e mezza, ma in quel momento non era l’orario al centro dei miei pensieri. Una domanda seguita da un presentimento mi ronzava in testa: perché Mark appariva così calmo?
Mi guardai intorno. Eravamo a lato di uno stradone principale: a quell’ora le strade erano stranamente affollate. C’era un gruppo centauri in sella alle proprie moto al lato della strada intenti a sorseggiare alcune bottiglie di birra, diverse ragazze camminavano a passo veloce chissà dove vestite in maniera molto appariscente e qualche uomo si sbrigava a tornare a casa. Fui distratta da Mark che mi mise improvvisamente un pezzo di carta arrotolato in mano.

« Ora non c’è tempo, prendi questa cartina e corri a scegliere una posto dove riposare in pace! Chiedi del cimitero di Kojima. Ti cambierò il tuo denaro in yen… » disse frettolosamente.
Ma perché non mi dice niente?
Pensai preoccupata, spifferando in tono incerto: « D’accordo, ci vediamo dopo… ».
E così ci separammo.
Srotolai velocemente la cartina, e la osservai. Centinaia di strade, svincoli e scritte incomprensibili comparvero ai miei occhi. Nessuno punto Tu sei qui e nessun Devi andare qui. Solo l’interezza della grande città palesata sotto i miei occhi. Maledizione!
Ruggii mentalmente, scorrendo con lo sguardo la mappa da cima a fondo. Come diavolo faccio a…
D’un tratto la mia attenzione fu attirata da un puntino nero, a fianco del quale c’era una piccola croce. Osservai la zona d’intorno e notai quello che doveva essere un fiume; poi un grande tempio; dopo ancora un parco. Ma il tempo stringeva. Non potevo mettermi a ragionare su dove mi trovassi o che strada dovessi imboccare. Cominciai a camminare dritto, verso un gruppo di adolescenti che se ne stavano seduti su alcune panchine ai lati della strada, dietro alla fermata di un autobus.
Le bottiglie di birra intorno a loro mi suggerirono che probabilmente erano anche ubriachi. Ma dovevo tentare, dannazione!
Mi fermai bruscamente dinanzi al gruppo, e vidi le loro espressioni di sorpresa nel vedere qualcuno arrivare con cosiffatta determinazione. Cercai tra di loro colui che mi sembrava più sobrio, poi socchiusi le labbra per pronunciare la domanda fatidica. Un momento. Io non parlavo giapponese
Tentai in inglese.
« Mi scusi » balbettai, vedendo l’espressione maliziosa dipintisi sul volto del ragazzo. « Sto cercando un… ».
Solo allora mi resi davvero conto di quanto poteva suonare strana la mia richiesta. « Un cimitero » conclusi in un sospiro.
A quelle parole il gruppo si voltò verso di me, attonito.
Un sorrisetto imbarazzo mi increspò le labbra, mentre attendevo il loro verdetto. « Pe-per favore, è importante… » aggiunsi con un filo di voce. Loro continuarono a scrutarmi con occhi allibiti, senza muovere un muscolo.
Passò una manciata di secondi, ma niente. Realizzai in fretta che stavo perdendo del tempo prezioso, così feci un piccolo inchino di scuse e mi voltai, pensando già a chi avrei potuto chiedere successivamente. Proprio in quel momento, una delle ragazze si alzò in piedi e mi chiamò. « Ehi, tu! ».
Mi voltai speranzosa verso di lei, che con voce diffidente mi chiese: « Quale cimitero stai cercando di preciso? ».
Tornai indietro di qualche passo e mi sbrigai a mettere insieme le parole giuste. « Il più vicino! Credo sia il cimitero di Kojima! ».
A quell’intendimento un comune gemito di stupore si levò dal gruppo. La ragazza parve disorientata e guardò i suoi amici in cerca di sostegno.
« Perché proprio quello? » chiese in tono incerto un altro ragazzo seduto sul marciapiede. Gli altri tacquero, vogliosi di conoscere la risposta. Risposta che per me non aveva alcunché di strano, ma ora, vedendo la loro reazione inaspettata, mi inquietava di esplicitare.
« Veramente… devo incontrare una persona e… quindi… » blaterai in modo impacciato, senza riuscire a mettere su una fandonia decente. Di norma avrei risposto che non erano affari loro, ma dovevo cercare di non incattivirli, altrimenti non mi avrebbero mai aiutata.

Dopo alcuni secondi di riflessione, la ragazza di prima venne verso di me. Me la ritrovai a meno di un metro di distanza, che mi osservava dal basso verso l’alto, costretta a tenere la testa inclinata all’indietro per guardarmi negli occhi. Certo che era davvero bassa! Con i suoi occhi a mandorla e il viso tondo sembrava una specie di grande bambola.

Io, del resto, dal mio metro e settantotto, non ero affatto bassa.
« Il cimitero di Kojima è un luogo infausto per molti » iniziò col tono di chi la sa lunga. « Perché mai dovreste incontrarvi proprio lì? Ci sono molti altri posti dove… »
« Ti prego » la interruppi, unendo i palmi delle mani davanti alla fronte, in segno di disperazione. « Ti prego, dimmi dov’è questo cimitero. È una questione di vitale importanza! Non ho molto tempo… ».
Fu allora che tutto il gruppo tacque e la ragazza sospirò, indicandomi una via con la mano aperta.
Mi spiegò che quel posto non era molto lontano da lì e che potevo arrivarci in venti minuti di camminata a passo veloce. In seguito mi diede le indicazioni e mi mostrò sulla mappa le strade da percorrere.
La ringraziai con un gesto del capo, diedi un’ultima, fuggevole occhiata al gruppo e me ne andai rincuorata. Grazie al cielo mi erano stati d’aiuto.
Camminai a passo normale per alcuni metri, ma dovetti aspettare di svoltare il primo angolo per correre. La velocità di una come me non era esattamente quella che chiunque si sarebbe aspettato. Venti minuti di corsa umana per me non erano altro che venti istanti di pura celerità, scanditi da pochi ed energici balzi. Stavo ancora seguendo le strade sulla cartina, quando mi ritrovai di fronte ad un cancello. Alzai lo sguardo e lo vidi: oltre le sbarre di ferro arrugginito si estendevano metri di terra incolta, avvolta in un sottile strato di nebbia cinerea. Il posto era solingo, isolato dalle case lì intorno. Ora che me ne rendevo conto, uno strano senso di turbamento mi sorgeva nell’animo. Alzai gli occhi verso le mura che racchiudevano il camposanto, e vidi dei rami scheletrici sporgere di qualche metro oltre la sommità. Assottigliai lo sguardo per vedere oltre la sottile nebbiolina, e scorsi delle lapidi incastonate nel terreno. Terrificante, sicuramente, ma non sembrava niente di speciale.

Un telo di tessuto era avvolto sul ferro del cancello, recante degli ideogrammi completamente sconosciuti. Una targhetta d’oro sistemata sul muro recava la scritta:

 

Kojima Cemetery.
Stay out.

 

Fantastico. Davvero fantastico. Mark mi aveva indirizzata in un posto proibito. Forse lo aveva fatto per punirmi del mio gesto avventato, tuttavia non avevo tempo per pensarci.
Nel cielo blu reale della notte, cominciava già ad apparire qualche brillante venatura di turchese.
L’enorme lucchetto di metallo che chiudeva le porte del cancello mi fece pensare ad un modo alternativo di entrare. Guardai a sinistra, dove dei grandi bidoni della spazzatura se ne stavano in disparte, proprio sotto alcuni dei rami secchi che sporgevano dall’interno delle mura. Non esitai oltre e mi avviai in quella direzione. Saltai sul coperchio dei bidoni, stando attenta a non lasciar cadere a terra la mia preziosa valigia. Me la legai sulle spalle, avendo così entrambe le mani libere per aggrapparmi al legno morto.
In ultimo mi gettai nel vuoto, atterrando con un tonfo sonoro sul terreno umido del cimitero. Mi alzai in piedi, scostando con le mani gli steli d’erba rimasti appigliati alle mie vesti. Sbuffai contrariata alla mia goffaggine. Ero un vampiro, e nonostante ciò chiunque sarebbe atterrato meglio di me.
Poco male, poiché nessuno era lì a giudicarmi. Nessuno tranne la mia fastidiosa consapevolezza di aver potuto fare un atterraggio migliore. Battei il palmo della mano sulla fronte: che diavolo stavo pensando? Tra pochi minuti l’alba avrebbe travolto quella zona, ed io dovevo cercarmi un nascondiglio.

Mossi dei passi guardinghi, assicurandomi che fossi davvero sola.
Appurato ciò mi incamminai verso la strada principale, facendo molto attenzione a dove mettevo i piedi.
Non era un cimitero grande. Le mura delimitavano un grande rettangolo di terra bagnata, dalla quale spuntavano pietre sepolcrali lunghe e piuttosto fine, recanti epitaffi in lingue sconosciute.
Passeggiai tra di esse per alcuni minuti, mentre un dubbio atroce mi corrodeva lo spirito. Quello era un cimitero senza sepolcri. Senza un luogo nel quale mi sarei potuta nascondere dalla luce! Solo lapidi e lapidi a non finire. Ormai ero arrivata nel lato opposto all’entrata, e mi tenevo le mani tra i capelli, cercando con sguardo disperato un posto nel quale rifugiarmi. Il cielo era sempre più chiaro, la nebbia sempre più fine. D’un tratto ebbi la sensazione che qualcosa dietro di me si muovesse. Non mi voltai subito, ma rimasi in ascolto. Una forza mistica si stava impastando alle mie spalle. Potevo benissimo percepirla con le mie particolari facoltà.
Pian piano cominciai a girarmi, temendo quello che avrei potuto trovare. Lo strato di nebbia alle mie spalle era ancora denso, ma potei comunque intravedere un insieme di bianchi e piatti scalini che conducevano in un lato del cimitero che non avevo ancora esplorato. Soppesai per un instante l’idea di andarmene e lasciare in pace qualunque forza mi stesse chiamando, ma prima che me ne rendessi conto stavo già avanzando in quella direzione. Attraversai la foschia con passo lento ma sicuro, pensando che se ci fossero stati pericoli i miei sensi da vampiro mi avrebbero sicuramente avvertita in tempo.
Improvvisamente i gradini terminarono e mi ritrovai di fronte a una piccola costruzione in quello che doveva essere marmo. Per il poco che potevo vedere era alto su per giù un paio di metri e ne contava una manciata per larghezza. L’entrata era costituita da due porte scintillanti d’oro legate assieme da un altro lucchetto, anch’esso di materiale prezioso. Le incisioni erano eleganti e fatte con particolare attenzione. Inoltre non v’erano solamente ideogrammi nipponici, ma anche versetti in altre lingue. Riconobbi la lingua tedesca e quella spagnola, anche se ne ignorassi il significato. Ero ancora alla ricerca di frasi in inglese quando un paio di iscrizioni mi colpirono. Una era in latino e diceva:

 

Impia tortotum longos hic turba furores sanguis innocui, non satatia, aluit.

Sospite nunc patria, fracto nunc funeris antro. Mors ubi dira fuit vita salusque tenet.

 

Me la ricordo perché l’avevo già studiata anni fa durante il periodo scolastico. Una frase strana da riportare scritta il bella grafia, con inchiostro dorato. Una frase adatta ad un poema di guerre antiche, piuttosto che a un epitaffio elegante e commemorativo. Ma il secondo versetto, che trovai lontano dal primo, proprio nel angolo basso della porta, mi incuriosì molto di più. Lo fece perché era nella mia lingua natia, l’italiano. Le parole erano alquanto scolorite e qualche lettera mancante, come se chi le avesse scritte lo avesse fatto di fretta, trascurandone l’apparenza estetica.

 

Infine giungi, destino fatale,

sul brillante poeta che ti ha soddisfatto,

rendilo nella sua stessa morte immortale.

Prendi questo come mio ultimo atto.

 

Che la tua anima riposi in pace, nei secoli dei secoli. Amen.

 

Rimasi allibita dalla bellezza di quelle parole. Semplici, ma eloquenti. Chiunque giacesse in quel sepolcro, doveva essere stato un uomo di grande importanza. D’altronde anche l’interezza della costruzione stessa lo indicava chiaramente. Le mura in marmo, le scritte dorate. Il tetto nel tipico stile giapponese, ripido ma con gli angoli rialzati. Sì, avevo deciso: quello sarebbe stato il mio nascondiglio.
La tomba di una personalità così importante sarebbe stata l’ideale. Agii in velocità: presi il lucchetto tra le mani e lo fracassai con un colpo ben assestato. Troppo facile? Non importava.
Spalancai le porte e mi immisi all’interno del sepolcro, proprio mentre i primi raggi del sole illuminavano il cielo sopra di me.

Richiusi immediatamente l’entrata, bloccandola con una trave di legno che trovai in terra. Poggiai la valigia sul pavimento e mi voltai ad osservare l’interno della piccola costruzione funeraria. Esattamente come mi aspettavo aveva un contenuto e delle forme molto eleganti. Senza perdermi in inutili contemplazioni o vagheggiamenti, mi diressi verso il sarcofago in pietra che troneggiava al centro della stanzetta. Poggiai le mani sul coperchio spesso e pesante, intenzionata a rimuoverlo. Non appena ebbi iniziato a scostarlo, però, una strana sensazione mi fece titubare. Un brivido, o qualcosa di simile. Un pensiero fastidioso mi suggerì di scappare. Non sarei dovuta essere lì. Me ne accorgevo troppo tardi, quando ormai la pesante pietra era rimossa e il suo contenuto mi mozzava il respiro.
Un ragazzo di massimo vent’anni giaceva in un letto di petali di rosa, secchi ma comunque profumati. Le sue carni erano perfettamente conservate, i suoi lineamenti androgini rimasti inalterati. I capelli erano lisci e lunghi fino al petto, candidi come la neve, bianchi come i petali di un giglio. Dapprima temetti di trovarmi dinanzi ad un mio simile o comunque una creatura maligna. Ma non c’erano dubbi, era morto e privo di vita. E poi quelle forme erano così delicate, così perfettamente messe insieme per creare qualcosa di bello e aggraziato. Impossibile pensare anche per un solo istante che tutta quella apparente purezza nascondesse qualcosa di torbido e nefasto. Impossibile. Impossibile!
Troppo bello per essere vero, troppo bello per esistere. Rimasi incantata da quel corpo disteso sotto il mio sguardo, così inerme ed immobile. Ma dovevo farlo, dovevo privarlo del suo giaciglio floreale e riporlo da qualche parte, prima che il sole fosse passato completamente attraverso i vetri colorati della costruzione. Mi piangeva il cuore, mentre allungavo le mani verso di lui. Era il ritratto della purezza. Mi sentivo un verme abietto, ma dovevo farlo!
Presi fiato ed andai. Lo afferrai per le spalle, cozzando i miei palmi freddi e bianchissimi contro le spalline della sua armatura leggera. Fu solo questione di attimi.
In un interminabile istante, egli spalancò gli occhi. Si levò dal sarcofago e mi guardò con occhi iniettati di sangue. Sentii la sua mano chiudersi intorno al mio polso, solo per tirarmi nella sua direzione e poi, prima di perdere i sensi, ricevetti sulle labbra quello che sembrò essere un bacio.

 

Mi risvegliai due notti dopo come se avessi fatto un brutto sogno, ma nel destarmi così bruscamente sbattei la testa contro qualcosa di freddo e duro sopra di me. Dov’ero?
Riconobbi il posto grazie al mio olfatto. Infatti, il profumo di rose era inconfondibile: mi trovavo nel sarcofago che avevo sognato!
Cercai di non lasciarmi perdere dal panico, ora dovevo solo capire cosa mi fosse successo.
Ripensai all’accaduto, ma non riuscivo a spiegarmi come mai avevo preso il posto di quella creatura.
Non ci capisco niente… quando l’ho toccato era freddo, ma era morto, e poi ha aperto gli occhi… ragionai massaggiandomi la testa. Che razza di essere è contemporaneamente morto, bello e sessualmente attivo? Sicuramente sarà una specie di strano vampiro, non devo preoccuparmi. L’importante è che io sia viva…conclusi sdraiandomi nuovamente sul letto di petali. Ma non feci in tempo a muovermi che un'altra preoccupazione spuntò fuori: la mia valigia!

Ricordavo d’averla lasciata vicino all’ingresso della costruzione. Così decisi di uscire per andare a vedere che fine aveva fatto, ma sentii dei forti colpi provenienti dalla porta di legno: qualcuno stava cercando di sfondarla a forza di calci e pugni!
Alla fine ci riuscì, proprio nel momento in cui mi levavo dal sarcofago. Rimasi immobile fissando la figura che stava entrando, aspettandomi di rivedere il bellissimo essere che avevo incontrato, ma restai quasi delusa nel vedere che invece era lo spacciatore di cocaina, Mark.
Rimasi seduta sul bordo in pietra, mentre lui si affrettava ad entrare e richiudere la porta dietro di sé.
« Ti ho trovata finalmente ».
Qualcosa di strano regnava nella sua voce, come una scintilla di mestizia malamente nascosta. Restai immobile a guardarlo, cercando di capire le sue intenzioni.
Lui colse la mia riluttanza e parve rasserenarsi.

« Conosco questo cimitero. So che vi è solamente un sepolcro del genere, mentre tutte le altre tombe sono sepolte nella terra. Non mi è stato difficile capire che fossi entrata qui. Tuttavia, proprio perché sei qui, i miei dubbi trovano conferma… ». L’ultima frase la disse sottovoce, parlando tra sé e sé.
« Ehi, cosa vuoi dire? » feci con uno sprint di curiosità, ma Mark cambiò discorso.
« Scusa se ci ho impiegato due giorni » aggiunse in tono grave. « Ma ora devo dirti alcune cose »
« Ah… » feci intimidita, rassegnandomi ormai all’idea di una scenata.
« Tieni, questo è il tuo sacchetto di yen, dentro c’è pure il file Mp3 per imparare la lingua giapponese, ma non credere, non ti serviranno a molto… » disse, lanciandomi un sacchetto abbastanza pesante.
« Grazie! Ma qual è il problema? » domandai, con aria falsamente ingenua.

Lui si avvicinò a me e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni alcuni fogli di carta che a prima vista sembravano essere stati strappati dal piccolo libro di Marino Serafino. « Ho scoperto cosa c’è che non va in te! ».

Quelle parole mi tolsero ancora una volta il respiro, ma dissi con aria più che gelida: « Avanti allora, sputa il rospo! ».

L’uomo non esitò e cominciò a farmi tutto il sermone con l’aria di chi è rimasto veramente deluso.

« Ti ho mentito. Esaminando nuovamente il libricino ho trovato alcune pagine che spiegavano esattamente il tuo caso… »
« Sì, mi ero accorta che mancavano le ultime pagine, ma non pensavo fossi stato tu a prenderle » lo interruppi.
« Non togliermi la parola! » gridò pieno di rabbia repressa. Rimasi basita.
Cosa era successo di tanto grave da farlo infuriare in quel modo? Pensai che fosse in quello stato per via della mia enorme disubbidienza, ma mi stavo sbagliando.
« Leggendo questi fogli, che sono le confessioni personali di Serafino, c’è un pezzo dove dice chiaramente che i suoi discendenti sono le uniche persone al mondo a non potersi trasformare in nessuna maniera né in licantropi, né in vampiri, né in qualunque altra cosa! Anzi, ti leggerò direttamente cosa ha scritto, così capirai meglio… ». Fece una piccola pausa, aprì un foglio di quelli che mi aveva mostrato e cominciò al leggere con aria invasata.

 

8 Giugno 1874.

Oggi è una bella nottata senza nuvole, il momento ideale per mettere in atto il mio esperimento. Se riuscirà sia io che tutta la mia discendenza sarà al sicuro da ogni male, così facendo assicurerò un futuro prospero all’umanità. Ma se invece dovesse fallire morirò e il mondo dovrà vedersela con le schiere oscure senza il sottoscritto. Tra due ore, quando la luna sarà alta nel cielo, mi inietterò endovena un liquido da me creato, del quale nessun altro ne conosce la composizione. Questo segreto morirà con me, ma rimarrà vivo nel sangue dei miei discendenti, che saranno immuni da qualsiasi forma di contagio. Secondo la mia teoria, prevista ma non testata, l’antidoto non dovrebbe essere subito attivo, ma consentirà alla persona di tornare normale entro un certo lasso di tempo. Questo dipende dalla persona stessa e dalla sua volontà di tornare normale. Con il passare degli anni i difetti paranormali si attenueranno fino a scomparire del tutto; il modo in cui questo avverrà, dipenderà soprattutto dalla tipologia del contagio. Con questo termino il Post Scrittum del libro, spero vivamente che capiti nelle mani giuste.

 

Appena Mark ebbe finito levò gli occhi dal foglio e li posò su di me. « Da questo ho dedotto che tu sei la discendente di Marino Serafino, il famoso cacciatore. E dopo tutto, sei riuscita ad entrare in questa tomba… ciò mi toglie ogni dubbio! ».
Non capii cosa c’entrasse il fatto di essere riuscita ad entrare in quel sepolcro, ma comunque avevo intuito che qualcosa di brutto stava per succedere. Lo guardai intensamente, confermando in un sospiro. « Ebbene, sì… ».
Il mezzo vampiro si girò di spalle come se avesse qualcosa da nascondere, ma non disse niente.
« Che c’è, adesso vorresti uccidermi solo perché sono la sua discendente? Non sarebbe la prima volta che mi capita, sai? » dissi in modo sarcastico, non pensando minimamente che avevo proprio colto nel segno.
« Sì » rispose Mark girandosi lentamente verso di me con un pugnale stretto in mano. Rimasi di stucco.
« Come sì? » domandai stupita. « Io l’ho detto perché pensavo che m’avresti risposto il contrario! »
« Ormai è deciso. Preparati »
« Ehi, ehi, ehi aspetta un attimo! Dì un po’, ma perché vuoi farlo? Cosa ti ha fatto di tanto grave Marino Serafino? Spiegamelo! » chiesi, alzandomi in piedi.
« Te lo dirò. Il tuo vigliacchissimo parente ha sterminato la mia la famiglia da parte di mio padre, e insieme all’aiuto di una strega che in seguito ha ucciso, ha gettato un malocchio sulla mia famiglia, quindi è doppiamente colpevole! » urlò, fissandomi negli occhi.

Vigliacco, colpevole. Come osava parlare in quel modo del mio parente? Gli serviva una lezione!

« Doppiamente colpevole, eh? Ti sbagli. Lui è centomila volte colpevole! ».
Con quella risposta l’uomo sembrò indugiare. « Sempre se sia un crimine togliere di mezzo degli inetti bevitori di sangue come quelli della tua famiglia! ».

Il suo viso divenne paonazzo. « Come ti permetti di dire una cosa simile, ragazzina? »
« Lui proteggeva l’umanità. Era un brav’uomo! Tu non hai il diritto di insultarlo, e per quanto riguarda tuo padre o chi che sia, sono sicura che ebbe un motivo ben preciso per farlo fuori »
« Tu non puoi sapere! » ruggì Mark in preda all’ira. « Se è vero quello che hai detto, allora anche tu dovresti morire, non ho forze ragione? Sei un vampiro, devi uccidere per vivere! E comunque sai troppe cose ora… mi riferisco alla cocaina! ».
Scossi la testa. « Dammi pure della codarda, della sentimentale, dell’ingenua creatura, ma io non ho ancora ucciso nessuno! Sei stato un bugiardo a fingere bontà per tutto questo tempo! » risposi, preparandomi psicologicamente ad uno scontro.
« Per quanto non ti piaccia l’idea, dovrai farlo prima o poi! Dovrai privare della vita… ma infondo hai ragione, non succederà. Spirerai prima! » concluse, facendo scricchiolare le nocche delle mani.
« Così anche il mio ultimo amico mi tradisce… si vede che quando è destino, è destino! » dissi sotto voce prima di evitare il suo primo affondo.
Anche lui era agile, fulmineo oserei dire! Ma io ero un vampiro completo, e in quella stanza non c’era nessuno più veloce di me!
« E tu vorresti uccidermi con quel pugnale poco affilato? Ma andiamo… » lo provocai. Pensandoci bene, era un po’ di tempo che non mi impelagavo in qualche zuffa, e, in nome dei tempi passati chiusa in una palestra a picchiare un sacco da Box, quella notte gliene avrei date di santa ragione.

Una cosa, però, era sicura: se fossi ne fossi uscita io vincitrice, non l’avrei ucciso.

Ricordo d’essere stata a combattere contro Mark per non meno di un ora e mezza, quando finalmente lui fece la mossa falsa: nel vano tentativo di infilzarmi col coltello, perse l’equilibrio e finì a bocca in avanti sul pavimento. Io sfruttai l’occasione in un modo che ancora adesso ricordo fu essere terribilmente istintivo: gli saltai al collo e lo morsi. Subito il sangue caldo della mia preda mi scese in gola e, affamata com’ero, succhiavo sempre più forte. Era come se il vampiro celato fino ad allora dentro di me si fosse risvegliato, e per un istante mi abbandonai completamente al suo volere.

Ma prima che potessi dissanguarlo, la parte razionale della mia mente tornò attiva. No! pensai, lasciando andare la presa. Non lo farò!
Mi alzai in piedi guardando il corpo del capitano dall’alto verso il basso e, pulendomi la bocca con il dorso della mano, gli sferrai un calcio nel costato per vedere se era ancora vivo.
Per fortuna lo era e come!
Non ostante gli avessi succhiato molto sangue, cercò di rimettersi in piedi per attaccarmi nuovamente, ma lo colpii un’altra volta facendolo stramazzare a terra privo di sensi.
« Mi spiace, ma hai iniziato tu per primo, Mark » dissi tristemente, prima di prendere gli yen e l’Mp3 che avevo lasciato sul pavimento accanto al sarcofago. Guardando bene, vidi anche la mia valigia: fortunatamente nessuna l’aveva toccata, era rimasta dove l’avevo lasciata.
Più tardi decisi che me ne sarei andata da quel posto. Avrei girovagato un po’ per le strade della grande capitale ascoltando con il lettore Mp3 il corso di giapponese e in seguito avrei trovato un nuovo posto dove passare il giorno.

 

Anche quella notte c’erano moltissime persone fuori di casa, e gruppi di mercanti si radunavano ai lati della strada mostrando alla gente la loro merce. Passeggiavo in mezzo a loro, tranquilla e serena. Era come se la lotta con Mark mi avesse liberata da ogni pensiero e preoccupazione, e mentre ero al mio terzo ascolto dell’Mp3, mi accorsi di ricordare già tutte le frasi a memoria.
Incredibile, mi ricordo tutto, ma sarà meglio risentirlo almeno per altre tre volte! pensavo, continuando a camminare a testa alta, facendomi spazio tra la gente orientale di fronte a me. Passarono le ore, e, quando finalmente mi ricordai di guardare l’orologio, erano le cinque e mezza. Un orario assai pericoloso per un vampiro che non ha un posto dove rifugiarsi. Passai davanti ad un altro cimitero, ma purtroppo quest’ultimo non aveva sepolcri, essendone uno scintoista.

Maledizione, mi sa che qui ci lascio le penne!

Lessi il nome scritto in inglese del cimitero: Asakusa Cemetery. Guardai all’orizzonte: i primi bagliori del sole già rischiaravano il cielo notturno. Era tardi.
Cosciente che se non avessi trovato un posto dove dormire da lì a dieci minuti la mia vita sarebbe finita, cominciai a correre all’impazzata, fin quando arrivai davanti ad un vecchio ed abbandonato ristorante cinese. Senza pensarci due volte entrai. Sfondando l’entrata in legno, mi diressi velocemente verso quella che pensavo fosse la cantina. Aprii la porta e vidi il buio: avevo indovinato, quella era di sicuro il luogo più oscuro del ristorante. L’ideale per me, che dopo aver sistemato in un angolo valigia e lettore Mp3, mi coprii con dei vecchi stracci trovati sul pavimento per poi addormentarmi profondamente.
Sognai un melo in mezzo ad un prato. Dai suoi rami pendevano belle e grosse mele, rotondeggianti e profumate, un invito irresistibile per la sottoscritta che aveva la sensazione di non mangiare da giorni. Ma fu proprio prima di afferrare il frutto che sentii una voce femminile dietro di me.
« E tu chi sei? » mi chiese in tono infantile.
« Nessuno… » risposi staccando il frutto con il minimo sforzo.
« I vampiri non possono mangiare frutta, lo sai! » ammonì la donna.
« Rompipalle. Io non sono un vampiro normale, guarda! » conclusi dando un morso alla bellissima mela.
Appena l’ebbi fatto però, il cielo si oscurò e cominciò a tuonare. « Hai rovinato tutto! » urlò la donna in preda al panico. « Adesso moriremo tutti! ».
« No, non morirete affatto! » dissi a bocca piena. « Questo è uno stupido sogno, e se mi sveglio in tempo nessuno ci rimetterà le penne! » conclusi, buttando a terra ciò che rimaneva del frutto. Ma prima che potessi fare qualcosa un fulmine mi colpì in pieno, ed allora sì che mi svegliai sul serio!
Aprii gli occhi: sopra non c’era altro che l’umido e grigio soffitto del ristorante cinese abbandonato. Tirai un sospiro di sollievo, per fortuna era stato solo un sogno…
Mi alzai in piedi, scossi i vestiti e mi diressi verso l’interruttore della luce sulla parete dietro di me. Quando la lampadina si accese potei finalmente vedere la cantina del ristorante per bene: era un luogo che misurava non più di dieci metri per dieci; le pareti erano sporche e senza decorazioni, davanti a me si innalzavano i gradini in legno di una lunga scala che portava al pianoterra. A prima vista sembravano malridotte e cedevoli, ma quando l’altra notte c’ero passata sopra avevano resistito benissimo. Mi guardai attentamente intorno: l’unica cosa che assomigliasse lontanamente ad una decorazione era la mia valigia nera posta in un angolo. Pensandoci bene, non ricordavo neppure più cosa ci avessi infilato dentro, anche perché non avevo avuto molto tempo di prepararla la notte in cui ero partita per il Giappone con Mark: avevo arraffato tutte le cose che mi capitavano tra le mani, non dimenticando di certo biancheria intima, alcuni vestiti e, ad esseri sinceri, mi pareva che ci avessi ficcato anche un Cheongsam, abito tipico della Cina, completamente blu con dei fiorellini d’argento ricamati sopra. Veramente bello, soprattutto addosso a me, essendo in tinta con i miei occhi. Fu allora che decisi di cambiarmi: mi avvicinai alla valigia, l’aprii e tirai fuori sia quel vestito sia la sacca con dentro i trucchi. Mi tolsi la maglietta di pelle e i pantaloncini in jeans per poi mettermi addosso il capo di seta all’orientale, legai i capelli ricci in una coda alta ed infine passai al trucco: tracciai l’eye-liner sulle palpebre, misi la matita nera, un po’ di rimmel sulle ciglia e per finire, umidificai la bocca con del lucida labbra. Le scarpe erano dello stesso colore dei fiorellini ricamati sul vestito, il tutto condito con un piccolo rosario azzurro intorno al polso destro.
Sembra quasi che stia andando ad una festa… pensai saltellando sul posto per provare la comodità del vestito. Ammetto che era davvero molto corto, circa dieci centimetri al di sopra del ginocchio, ma, abbinato alle scarpe da ginnastica, era ugualmente molto agevole. Subito dopo essermi agghindata in quella maniera, rimisi nella valigia la roba che m’ero tolta e mi avviai verso il pianoterra.

Ma fu proprio appena uscita dallo scantinato che sentii dei rumori molto strani provenienti dai piani superiori. Probabilmente c’era qualcun altro, forse qualche ragazzo intento a procurarsi la temerarietà tra i suoi amici venendo ad esplorare il lugubre ristorante cinese abitato dai fantasmi.
Bene, sarei andata a fargli visita in un modo che non avrebbe scordato fino alla fine dei suoi giorni. Salii i vecchi scalini in marmo, uno dopo l’altro, sghignazzando tra me e me sulla reazione che avrebbe avuto la mia vittima. Come al solito mi sbagliavo.
Infatti rimasi scioccata dal vedere che, a parte i vetri rotti e consumati delle finestre, il primo piano era messo completamente a nuovo! Anche se da fuori, a luci spente, non si vedeva affatto. Mi resi conto che quel vecchio palazzo era già proprietà di qualcun’altro, e che io ero l’intrusa.
Pazienza, vorrà dire che nel spaventarlo ci metterò ancora più impegno, così sloggerà senza darmi tanti problemi… pensavo, avanzando velocemente verso il secondo piano. Mi fermai dietro la porta che lo collegava alle scale, posi l’orecchio sul freddo legno ed ascoltai: era proprio da lì che venivano i rumori che avevo sentito in precedenza. Sembravano suoni provenienti dallo sfregamento di oggetti metallici, acuti ma di breve durata. Rimasi in quella posizione finché i suoni non cessarono, poi guardai dal buco della serratura: l’intero secondo piano era una stanza immensa, completamente ristrutturata. Le luci del soffitto illuminavano quasi con la stessa intensità del sole, e il parquet sotto di esse era lucidissimo. Ma la cosa che mi colpì in assoluto di più furono gli attrezzi sportivi che arredavano al zona: tappetini per le flessioni, cyclette, pesi da cinquecento chili, sacchi da Box, macchine per addominali, dorsali, per i muscoli delle cosce e tanti altri ancora; c’era anche una parete zeppa di armi tipiche dell’oriente, quali spade dritte, lance, sciabole e bastoni.

Però, il ragazzino sa come difendersi da eventuali attacchi!

Ma dov’era colui che possedeva tutto questo? Voglio dire, fino ad un minuto fa avevo sentito i rumori striduli delle macchine in funzione, quindi ci doveva per forza essere qualcuno! Decisi di entrare.
Magari l’elemento sorpresa sarebbe andato a quel paese, ma almeno avrei capito dov’era la persona che avevo intenzione di spaventare a morte. Afferrai la maniglia della porta e spinsi. In una manciata di secondi mi ritrovai dentro la palestra: l’odore di sudore era inconfondibile. Mi guardai intorno, effettivamente c’era un’altra porta che sbirciando dalla serratura non avevo visto.

Quello dev’essere per forza il bagno… ragionai avvicinandomi lentamente ad esso. E scommetto che il tizio si sta lavando, si sente il suono della doccia aperta…

Povera me, non sapevo ancora cosa mi stava aspettando. Strinsi la maniglia della porta del bagno, ma fui bloccata da una voce di ragazzo alle mie spalle, schietta ma contemporaneamente matura.
« Non ti hanno insegnato a bussare prima di entrare? » chiese in tono misto tra il divertito ed il severo. Non risposi subito: ero rimasta letteralmente ghiacciata.
Mi girai di scatto verso il ragazzo. Probabilmente fu uno degli orientali più belli che fino ad allora avevo avuto il piacere di vedere: pur non essendo altissimo, aveva comunque un fisico perfettamente asciutto e muscoloso; i capelli lunghi una manciata di centimetri erano neri con dei riflessi blu, uniti in una cresta poco pronunciata e sparata all’indietro; inoltre aveva una frangetta sfoltita lungo tutta la fronte che terminava ai lati con due lunghe ciocche di cappelli, proprio nel punto che separa la tempia con l’orecchio; le sopracciglia erano fine e ben delineate, mentre la forma allungata degli occhi metteva in risalto le iridi di un colore molto simile a quello dell’oro; le labbra erano mediamente carnose e i denti bianchissimi. I suoi lineamenti erano duri ma allo stesso tempo aggraziati, e gli donavano un aspetto quasi principesco.
Vestiva pantaloni larghi e comodi da ginnastica, le scarpe nere e molto aderenti al piede, tipiche di chi pratica arti marziali. Stava a torso nudo.
Mi guardava senza espressività, mentre nella mano destra faceva roteare minacciosamente una lancia cinese.
« Allora, hai perso la lingua? » mi domandò spazientito.
Deglutii rumorosamente, non riuscivo a capire come mai quel giovane mi mettesse così tanta soggezione.
« Io… io… stavo… » balbettai con indecisione, ma lui m’interruppe: « Faccio quest’effetto a molti spettri, sai? ».
Lo guardai disorientata: come faceva a sapere ero non un essere umano? A quelle parole tornai in me, cacciando via la timidezza. « Perché dici questo? Cosa te lo fa credere? ».
« Suppongo che tu sia un vampiro » rispose lui con tono sufficiente. « Be’ sarebbe il colmo per un cacciatore non riconoscerne uno a prima vista! ».
Fatto! Mi ero cacciata nuovamente nei guai.
« Sei un cacciatore? Dannazione! Ti informo che… »

« Risparmia il fiato, ti servirà a dire le tue preghiere una volta che avremo finito di combattere! »
« Vuoi combattere? Ma io… te lo dico, non mi tratterrò solo perché… sei carino! ».
Avevo dato fiato alla bocca senza prima accendere il cervello, cosa che mi capitava spesso. Ma lui, accennando ad un sorrisetto malizioso, concluse: « Neppure io! ».

  
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