Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
Segui la storia  |       
Autore: TuttaColpaDelCielo    07/08/2014    0 recensioni
«Ho sbagliato qualcosa?» chiedesti, tremando nel fuoco.
«No. Non hai sbagliato nulla.» ti risposero «Non è colpa tua.»
Ti condannarono ugualmente.

Nata dalle proprie ceneri come l'araba fenice, si chiede Chi sono? e impazzisce lentamente, senza memoria di ciò che fu prima.
Senza passato non c'è futuro; se non eri, non sarai. Allora che senso ha essere?
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 35 – Fiore marcio





Aveva le unghie sporche – grumi neri sotto il bordo, sulla pelle. Un insulto al candore.
Si portò la mano alla bocca, ma lo sguardo disgustato del Guardiano sembrò bruciare su di lei. Lo ignorò. Li raschiò con i denti unghia per unghia, li sputò accanto alle proprie gambe raccolte, sul pavimento bianco.
Un insulto al candore.
L'avrebbe rifatto, se avesse trovato la forza di sollevare anche l'altra mano. La guardò, pelle sporca e unghie nere e dita torte ad angoli strani, abbandonate sulla coscia. Dolevano – Ramiel aveva stretto e piegato e strattonato per trascinarla, per farle male. Decise che ripulire le unghie non era così importante.
Spinse le ali a circondarle il busto – dolore. Erano troppo rigide per avvolgerla, e allora le abbandonò di nuovo contro il muro. Si abbracciò le ginocchia e vi appoggiò il capo, nascondendo il viso, ma lo sguardo del Guardiano continuò a bruciarle addosso. Sentì gli avambracci appiccicosi contro la fronte, acqua e terriccio impastati sulla pelle nuda. Doveva apparirgli così sporca, pensò, così miserabile, abbandonata contro la parete. Avrebbe voluto rannicchiarsi in un angolo, ma c'erano tracce rosse sul pavimento, sangue di demone che non era stato lavato. Chissà se erano stati lì, i demoni che era stata costretta ad attaccare. Non tutti, no – era una stanza troppo piccola, ogni lato non più di quattro, cinque passi. Ma alcuni. Se li immaginò ammassati, corpi dilaniati da cui colava sangue acido. Ringhi, chiostre di denti aguzzi, le unghie indurite in artigli. Il tormento dell'aria tiepida, della luce. Terrore. Avevano avuto anche loro un Guardiano a fissarli dall'alto, a farli sentire nudi e disgustosi? Essenze sconvolte che si scontravano contro le pareti, senza riuscire a oltrepassare quella pietra troppo densa.
Era la pietra che formava i templi, che custodiva il sonno dei Cherubini più maturi: una barriera impossibile da penetrare.
Prigionieri in una bolla di luce.
Era stanca. Quanto tempo era passato? Lì non arrivavano i richiami dei Fuochi a scandire i cicli, né il sole a dividere i giorni. Le mancava il tramonto. Lo guardava spesso un tempo, ricordò. Da umana – da Aenor. O da Ishild?
Scosse la testa, gemendo. Non capiva. Due vite si fondevano, colavano senza senso negli angoli della memoria, la menzogna confondeva ogni cosa. Dolore. Smise di pensarci.
Ma la voce di Eisheth era ancora lì, annidata tra i suoi pensieri a straziarla da dentro. Aenor. Ishild. Michael aveva voluto fingere che lei – l'umana, non Aenor, la seconda, la seconda... cercò nella memoria un nome. Davanti ai suoi occhi balenò il volto di un bambino in lacrime, la sua voce infantile risuonò stridula mentre tendeva le braccia e la chiamava. Morag. Si chiamava Morag, la seconda lei, e Michael aveva voluto fingere che Morag fosse Ishild. Sollevò il capo, rise, continuò anche quando lo sbatté contro la parete per la foga. Il Guardiano strinse le labbra in una smorfia. Poi ricordò Morag che si convinceva di esserlo, Ishild – notti insonni passate a bruciare, madre che nei sogni restava in silenzio a fissarla, ossessione, nausea, freddo, gli occhi di Michael sempre distanti. Non rise più.
Stupida, si disse. La testa sbatté di nuovo contro la parete. Stupida Morag. Colpo. Stupida Morag. Colpo. Stupida Morag. Colpo. Stupida Mo- sussulto. Il Guardiano le strinse i capelli, le strattonò la testa in avanti.
«Basta.» le ordinò, irritato. Lei restò immobile, il Guardiano le strattonò ancora i capelli. La fronte le sbatté contro le ginocchia.
«Sì.» mormorò. L'altro la lasciò e tornò al proprio posto, davanti alla porta chiusa. Si pulì la mano sui vestiti. Lei avvertì l'essenza del Guardiano arricciarsi, sfiorare la sua e subito ritrarsi. Era così disgustosa?
Latrò una risata. Oh, sì. Stupida, disgustosa Morag.
Colpo.

Fissò il Guardiano. Avrebbe dovuto essere lui a tormentarla, e invece eccolo, con le labbra strette e la fronte aggrottata, lo sguardo distolto troppo spesso. Cos'era quel lampo nei suoi occhi? Irritazione, fastidio? Disagio?
Il suo viso cambiava per l'angolazione, quando lei chinava il capo e di nuovo lo gettava all'indietro. A volte, appena dopo il colpo, le sembrava quasi assomigliare a Michael. C'era un piacere sottile nel tormentarlo così.
Stupida, disgustosa Morag. Colpo. Fronte contro le braccia. Attesa.
Stupida, disgustosa Morag. Colpo. Fronte contro le braccia. Attesa.
Stupida, disgustosa Morag. Colpo. Fronte contro le braccia. Attesa.
Era quella la misura del tempo, lì. Gli echi della sua umiliazione. Dovevano essere decine, ormai, ma il Guardiano non l'aveva più fermata. Gli faceva troppo schifo? Colpo. La testa urlò il proprio dolore, ma il dolore era buono, il dolore annichiliva i pensieri.
Stupida, disgustosa Morag. Che si era lasciata ingannare e sedurre.
Ma non era stata l'unica, vero? Sembrava un errore ricorrente, un meccanismo rotto dentro di lei che-
Colpo. Colpo. Colpo.
Che la spingeva ad aggrapparsi, a credere, a fremere sotto tocchi gelidi.
Colpo. Colpo. Colpo. Colpo. Colpo. Colpo. Il dolore non bastava più.
E davvero si era illusa di essere libera nel scegliere Sachiel, e invece-
Colpo. Colpo.
E invece si era solo piegata di nuovo ad un gioco perverso. Era sporca, infetta, marcia dentro. La ferita era un mostro che non l'avrebbe mai abbandonata, radicato in lei da troppo tempo – baratro nero in cui restava qualcosa di Aenor, qualcosa di Morag, ed era un qualcosa oscuro e guasto. Solitudine e dolore e ossessione. E dal baratro erano risalite parole a tormentarla nei sogni, e gli occhi di Michael, gli occhi di Sachiel. Sachiel. Sachiel. Quei desideri che Aenor aveva respinto nel ventre languido. Ricordava le labbra di Sachiel contro le proprie, il respiro ch'era passato di bocca in bocca, ed era stato un respiro corrotto, quello, un soffio di morte. L'aveva macchiata. L'aveva condannata.
Stupida, disgustosa Amitiel.
Abbandonò il capo tra le braccia.

Uno spiraglio – essenza che s'insinuava, riusciva a sfiorarla, la avvertiva, esisteva, il mondo chiuso delle pareti dense si era espanso all'improvviso. Sussurri. Sollevò lo sguardo. Porta chiusa – vuoto.
«Preparati.»
Il Guardiano le posò davanti una brocca d'acqua e si rialzò in fretta. Prese un straccio dal tessuto ripiegato che aveva tra le mani, glielo gettò. Lei appoggiò di nuovo la fronte contro le braccia.
«Devo costringerti, cherubino?»
Lo ignorò. Che la costringesse, sì. Che la toccasse, la spogliasse. Aveva importanza?
«È acqua delle terme. Non dovrebbero nemmeno concedertela, cherubino – non sprecarla.»
...acqua delle terme. Un ricordo guizzò sulla pelle e lei si mosse, piano, a occhi bassi. Si mise in ginocchio e sollevò la mano sinistra, guardò le dita piegate, strette troppo da Ramiel. Le immerse nell'acqua. Tepore. Il dolore si assopì in un fastidio lontano, ma tornò a morderle non appena riemersero. Non poteva curare, quell'acqua – solo lenire e ingannare, promettere che il peggio era passato.
Il peggio era presente, invece, e il passato Sachiel che le sciacquava gli occhi. Con la mano sana bagnò lo straccio e se lo portò al viso, premendolo contro le palpebre socchiuse. L'acqua scivolò lungo le guance come aveva fatto quella volta, infinito tempo prima, quando la sua vista si perdeva nel bianco e nel panico. Quando Sachiel era ancora un'estranea, occhi familiari oltre un velo di nebbia, mani sconosciute che l'avevano riportata al mondo con l'acqua lenitiva delle terme. Si passò lo straccio sulla fronte. Le labbra di Sachiel si erano posate lì, e c'erano state le sue braccia a circondarle le spalle, anche, e un sussurro morbido, non piangere, mentre lei annaspava tra le parole del Censore. Il tepore dell'acqua si spostò su uno zigomo, gota, labbra. Labbra. Ssssh, non ricordare. Abbassò lo straccio sul collo, lungo la spalla. Abbracci. Le mancava così tanto da far male.
Lo straccio era asciutto. Lo avvicinò alla brocca – esitazione. Mano a mezz'aria. Restò a guardare l'acqua limpida, il tessuto lercio di terra che ondeggiava incerto.
E ora?, si chiese con la voglia di urlare. E ora. E ora.
Ciò che è stato sporcato non si può ripulire.
Ciò che è stato sporcato non può tornare alla purezza, al candore, o la macchia della sua colpa gli si allargherà attorno come un fiore marcio.
Ciò che è stato sporcato non può tornare e no, non sarebbe tornato, mai più.
Mai più. Mai più.
Colpì la brocca, la gettò contro il pavimento. Cocci infranti. Acqua versata.
E ora.
Le labbra di Sachiel le mani di Michael una ciocca che non si allungava. La fascia della quinta classe le avvinghiava i fianchi e sembrava chiederle davvero? Davvero sei come quei Cherubini che non sanno e non sognano? E quella ciocca agonizzante sulla nuca, che non trovava più la forza di crescere, rispondeva con un sospiro esausto. Non ricordava neppure quando l'avesse tagliata – forse erano state le unghie di Michael, strattonando? Gli occhi di Sachiel, gli occhi di Sachiel quando le aveva toccato la nuca e aveva trovato quella ciocca spezzata. Quanto doveva essere esausta la sua essenza, se non riusciva più a darle vita?
Anane che le intrecciava i capelli e Ramiel che le porgeva un pettine prima della Venuta e Michael, Michael che accarezzava e stringeva e strattonava. I capelli pesavano sulle spalle e sussurravano no, bambina, non sei come loro. Non più. La fascia bruciava contro i fianchi. Il tocco di Michael sembrava essere ancora lì a sporcarla.
«Cherubino.»
Sollevò lo sguardo. Il Guardiano si era avvicinato, ma il suo viso era sfocato. Lacrime? Si sfiorò una guancia – sì, lacrime.
«Cambiati, cherubino.»
Il Guardiano lasciò cadere sulle sue cosce del tessuto ripiegato. Lei annuì piano e mormorò una richiesta.

«Non può presentarsi così.»
Amitiel ignorò il sibilo femminile alle sue spalle e avanzò nella sala circolare. Dopo la stanza minuscola e il corridoio stretto, quell'immensità la stordiva; chiuse gli occhi e trattenne l'essenza, con una morsa alle viscere che già minacciava di diventare malessere. Troppo spazio. Troppo bianco. Troppa luce.
«Non preoccupartene, Hagar. Che si presenti come preferisce.»
L'ingresso si chiuse e i due Guardiani le si affiancarono. Le venne da ridere – cosa temevano, che scappasse? Inspirò, ma l'aria le invase la gola troppo in fretta e la risata morì in un verso strozzato. Persino l'aria era stata più pesante, tra le mura soffocanti che l'avevano circondata.
Quanto poteva far male la libertà, dopo una prigionia troppo lunga?
Inspirò, espirò, si abituò piano al nuovo ambiente. Socchiuse le palpebre. Meglio.
«Chi...» si inumidì le labbra «chi arriverà? I Censori?»
La donna ebbe un fremito. L'altro Guardiano storse le labbra, come quando si era pulito la mano dopo averle toccato i capelli. Non le risposero.
Sistemò una spallina scivolata lungo il braccio. Non aveva mai avuto abiti del genere, che avvolgevano il busto e stringevano le spalle – un cherubino non avrebbe mai potuto indossarli. Gliel'avevano portato di proposito? Lei con la sua mano inerme che tentava di vestirsi e il Guardiano che dopo un'eternità di fallimenti umilianti l'aveva aiutata, aveva strappato il tessuto sulla schiena per far spazio alle ali, e ora i lembi pendevano scomposti, la veste non aderiva. Nessuna fascia le cingeva i fianchi.
«Quanto dovremo aspettare?»
Le essenze dei Guardiani s'incresparono, sconcertate. , ebbe voglia di urlare, sì, un'altra domanda, davvero. Chinò il capo per nascondere una smorfia, ma i capelli non scesero a coprirle il viso. Sentiva il sangue seccarsi sulla nuca, dove la lama le era sfuggita, e la cenere sporcarle le mani, le spalle, la veste bianca già lercia di sangue e terra. Aveva dovuto stringere i capelli con la mano ferita, tenderli con le dita sane e ignorare il dolore a quelle inermi. Nulla le avrebbe ricordato il tocco di Michael, ora che quelle ciocche si erano dissolte – era un'illusione, lo sapeva, ma per un attimo... per un attimo, solo per un attimo, era tornata a respirare.
«...sì.» mormorò «Sì, saranno di certo i Censori.»
Qualcosa tremò, in lei. Chiuse gli occhi e inghiottì il ricordo.
Era già avvelenata. Era già distrutta.
Non potevano farle più male di così.
Riaprì gli occhi. Attraversò la sala con lo sguardo, bianco bianco bianco, senza finestre, senza tregua, senza cielo, e lo fissò davanti a sé. Il portale era così bianco che riusciva a malapena a distinguerlo, e quando iniziò a schiudersi faticò a realizzarlo, perché dietro il portale bianco c'era solo altro bianco, altra luce, nessuna ombra a definire i contorni. Una macchia rossa, violenta – capelli. Un viso. Altre figure, essenze, passi. I Guardiani smisero di trattenere il portale, lo lasciarono a richiudersi piano alle loro spalle. Il Censore dai capelli rossi si fece avanti nella grande sala. Lei irrigidì le ali, impedì loro di tremare. Un altro Censore gli si affiancò, mentre i Guardiani restarono dietro di loro, sei figure bianche contro la parete bianca. I due accanto a lei avanzarono, l'uomo le calcò la mano contro i lombi perché li seguisse. Il Censore rosso sorrise, di un sorriso così dolce che le ricordò Eisheth. Le sue ali tremarono, il terrore le congelò le gambe. Il Guardiano la spinse avanti. Incespicò.
«Con gentilezza, Guardiano.» mormorò il Censore «Non c'è bisogno di essere bruschi.»
Amitiel si raddrizzò, ma si sentì all'improvviso piccola e sporca, lei con le piume rosse e il sangue e la terra e il vestito strappato, lei lì tra loro che avevano ali da arcangeli, ali da serafini, essenze maestose che la circondavano, lei insulto al candore. Strinse le braccia contro il ventre, riconoscendo l'effetto dei Censori – quella capacità di denudarla, strapparle ogni scheggia di sicurezza. Gli occhi verdi del mostro la osservavano quieti, l'essenza si tendeva a lambirla, e Amitiel avvertì la propria ritrarsi, tentare di sfuggire a quel tocco conosciuto. È come se ti entrassero dentro, aveva sussurrato a Ramiel nel dormitorio vuoto, nella testa, tra i pensieri, ma non rendevano folli, le aveva detto, no, i Censori non rendevano folli, perché chi erano i folli? Chi? La follia era già lì, ad accarezzarli nel sonno, a germogliare in silenzio dentro quel corpo ch'era stato umano, umano, umano, quello non era abbastanza da portare alla follia? Sospettarlo, saperlo, ricordarlo? Ammazzare una donna per sgusciarle tra le cosce? Folli, folli a saperlo, folli a non saperlo, a credere sempre, senza domande, ingoiando boli di dubbi e inquietudine. Ma l'avrebbero mai ammesso?
«Cherubino.» la chiamò il Guardiano, stringendole un gomito. Lei sussultò. Il Censore rosso non sorrideva più. Le aveva parlato? Schiuse le labbra, incerta, ma poi le serrò di nuovo. Il serafino avanzò di un passo, lasciandosi l'altro alle spalle, e la sua essenza agghiacciante sembrò violarla, affondarle dentro.
«Sei stata convocata per la seconda volta.»
Se lo sentiva dentro, dentro, oltre pelle muscoli ossa, dentro dove c'erano le memorie di Aenor e Morag e Ishild e gli incubi, le voci, lo squarcio che non si chiudeva mai.
Si morse il labbro. Inspirò. Espirò. Inspirò.
«Sì.»
«È inusuale, cherubino. Ti stai macchiando.»
Non rispose. Il Censore le sfiorò una guancia e continuò, con quella sua voce gentile che sembrava Eisheth, davvero, sembrava orrore e falsità.
«Stai macchiando chi ti attornia. I tuoi insegnanti, i tuoi compagni. I tuoi fratelli.»
«Non...» deglutì. Inspirò. Espirò. Inspirò. «Non è ciò che voglio.»
«È ciò che accade.»
Chiuse gli occhi. Ripensò all'acqua limpida, allo straccio lercio di terra che stava per immergere. Il fiore marcio della colpa che si allargava attorno.
«Eppure sei stata avvertita.» il Censore corrugò la fronte «Perché rifiuti di lasciarti proteggere, cherubino?»
Soffocata violata annegata. La sua essenza annaspava, stretta da quella del Censore, ma non poteva sottrarsi, costretta a dispiegarsi e schiudersi. Non riusciva a respirare.
«Non hai voluto comprendere. Perché, cherubino? L'altra. Anane. Perché hai rifiutato di separartene?»
Faceva male. Male. Male. Il rimpianto bruciava e urlava e le divorava il petto.
«Si è persa, cherubino, appena prima dello Sviluppo. Ha scelto di rendersi indegna.»
Anane. Anane Anane Anane Anane allegra solare meravigliosa Anane che l'aveva ingannata. Le dita del Censore bruciavano sulla guancia. Stupida, stupida Amitiel che le aveva creduto. E le risate gli abbracci le lacrime potevano morire nell'oblio, perché faceva solo male, ricordare. Male male male.
«L'allieva dell'Autorità, cherubino. Perché anche lei?»
Sussultò. No, non dovevano parlare di Sachiel. Non dovevano avvelenare anche quel ricordo. No. No. No.
«No.» mormorò «No.»
C'erano occhi azzurri, stagliati sul candore delle sue palpebre chiuse. E cenere grigia.
«Sì, cherubino. Si è persa. Perché anche lei, cherubino? Perché hai voluto corromperla?»
«No.»
«Era impura.»
«No.»
No? Davvero? Davvero non l'aveva corrotta, davvero non l'aveva avvelenata? Il calore che stringeva il bassoventre e la pelle che fremeva e le labbra, le labbra di Sachiel, quel respiro che era passato di bocca in bocca e le aveva condannate. Stupida, disgustosa Amitiel.
«L'hai corrotta, cherubino?»
«No. No.»
Il pollice del Censore si mosse lungo la guancia, raccolse le lacrime. Voleva singhiozzare, ma non riusciva a respirare, l'aria si bloccava in gola.
«O è stata lei?»
Spalancò le palpebre. Il Censore sorrideva.
«Lei ha corrotto te?»
«Non insultarla.»
«Cos'è successo, cherubino? Cos'è stato a spargere il marcio attorno a voi?»
Le ali tremavano. Male. Male. Marcio? Era stato così bello potersi abbandonare e parlare e stringersi le mani e sapere che c'era qualcuno a cui importava, era stato un balsamo e un veleno. I pensieri erano un vortice impazzito che impattava sempre contro quel muro, il rimorso e il disgusto e il rimpianto, e la certezza che non avrebbe più conosciuto quegli abbracci tiepidi.
«Chi è stato a corrompere entrambe?»
Attraverso il velo delle lacrime, il Censore era un sorriso falso e occhi freddi. Inspirò piano, tremando. Sapeva? O cercava solo qualcun altro da incolpare?
«Attorno a voi, cherubino, ci sono stati un Custode morto e due Cadute. Il Custode che ti ha aiutata è ancora dai Guaritori, e quando si sarà ripreso dovremo convocarlo. Un Guardiano ha rischiato di morire. Il Paradiso piange i suoi figli perduti. Perché, cherubino? Perché tradisci così i tuoi fratelli?»
Serrò di nuovo le palpebre. Le entrava dentro, nella testa, nei pensieri, e lei si sentiva così inerme e sporca, e c'era quell'essenza estranea a violarla e uccidere ogni logica. Le sfiorava la ferita. Il mondo era dolore e nausea e rimorso.
«Eri con un demone.» intervenne l'altro Censore. Aveva una voce meno morbida, più profonda, e un'essenza ferma che circondò la sua senza soffocarla. Il mostro smise di sfiorarle la guancia ma non ritirò la propria essenza, la lasciò annidata tra le pieghe, nell'intimo.
«Una femmina. Tua madre?»
Riaprì gli occhi e sollevò il capo di scatto. Fissò il secondo Censore senza capire. Quello rosso storse le labbra con uno sbuffo, come se non credesse nella sua incertezza, ma l'altro chiarì: «Ti ha promesso protezione? Ha stretto un patto?»
Non era un legame vero, realizzò – Anane non era davvero figlia di Eisheth, o sorella di Michael. Ovvio. Come aveva potuto non capirlo? Forse perché era assurdo, incomprensibile, che qualcuno scegliesse di legarsi a Eisheth. Quanto non sapeva, ancora? La nausea le strinse le viscere.
«No.» mormorò «No, nessun patto.»
«Chi è?» intervenne il Censore rosso «Lei ti ha corrotta, cherubino?»
«...Eisheth.»
Il Guardiano al suo fianco ebbe un fremito. Il Censore tornò a sorridere e le sfiorò di nuovo la guancia, gentilmente. La pressione delle essenze estranee aumentò, lei si morse le labbra per non gemere – dolore alle tempie. Dolore dentro.
«Si chiama Eisheth. Non so altro.»
«Come l'hai incontrata?» le chiese il secondo Censore.
Si sentì invadere ancora, più a fondo, e il dolore esplose nella sua testa insieme ai ricordi. Il respiro le tremò in gola.
«Chi te l'ha fatta incontrare, cherubino?» continuò l'altro serafino, accarezzandole il capo.
Si irrigidì – dita tra i capelli Michael ciocche che non crescevano più il terrore di Sachiel la lama cenere. L'essenza vibrò nello sforzo di ritrarsi, si richiuse su sé stessa come un grumo pulsante di dolore. Basta. Ricordò il terreno duro contro le ginocchia e il tocco gelido di Michael che l'aveva fatta urlare e anche Anane aveva urlato e la risata di Eisheth, e poi c'era stato ancora Michael, Michael, Michael a ingannarla e corromperla e far sbocciare il fiore marcio in lei. Basta. Basta. Non le avrebbero strappato anche quello – non avrebbero saputo come si era lasciata sporcare, come aveva sporcato Sachiel. Era un dolore solo suo.
«La virtù conosce il peccato per poterlo fuggire.» mormorò il Censore rosso. Le strinse il mento con gentilezza per alzarle il viso «Hai visto l'orrore – hai capito perché lo combattiamo. Ma ora torna tra i tuoi fratelli, riposa gli occhi nella luce del Paradiso. Sarai perdonata.»
Amitiel ricambiò il suo sguardo malinconico. Avvertiva l'essenza del serafino circondare la propria, premere tentando di penetrarvi ancora, ma non cedette.
E ora?
Sorrise.
«No, non credo.»
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni / Vai alla pagina dell'autore: TuttaColpaDelCielo