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Autore: MarchesaVanzetta    18/08/2014    1 recensioni
Una fatale attesa notturna rischiarata da una fulgida candela.
[1192]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La mia candela brucia da entrambi i lati, non durerà tutta la notte. Ma amici miei, e miei nemici, com’è splendente la sua luce.
-Edna Saint Vincent Millay.
 
 
 
San Leonardo in Passiria, 10 agosto 1903
Ho appena finito di consumare una gradevole cena in compagnia della famiglia che mi ospita, gli Hofer; dovrò mandare un biglietto di ringraziamento ad Hans, che mi ha tanto raccomandato questa sistemazione. Ma prima devo assolutamente annotare un fatto straordinario accadutomi questo pomeriggio, sulla via del ritorno da una malinconica passeggiata nei boschi che circondano questo incantevole paesino. Mentre percorrevo le strade del paese, diretto qui, ho avvertito la netta sensazione che quel sole che stava calando, tingendo di arancione la neve poco lontana, sarebbe stato l’ultimo che avrei visto. Insomma, ho capito che questo è il Giorno, che le mie pene stanno finalmente giungendo al termine: entro la prossima alba sarò morto.
Intendo scrivere fino all'ultimo momento, ma prima devo sistemare alcune cose; in mezz'ora al massimo sarò di ritorno.
 
Ebbene, sono nuovamente qui. Ho sistemato i conti e scritto a chi di dovere biglietti di ringraziamento. L'ultima faccenda da sbrigare è decidere quando morire... come si sceglie una cosa del genere? Non avrei proprio idea, e la mia stanza è priva di qualsiasi ispirazione, come per altro lo è la mia vita: attorno a me ho solo fogli, penna, calamaio… la candela! È una candela di ottima qualità, di cera d’api locali, la sua luce illumina assai ma di certo non vedrà l’alba, come non farò io: sarà la perfetta compagna di questa mia ultima notte.
Mi trovo a fare i conti con la mia vita per l’ultima volta, a tirare le somme di un’esistenza inutile  trascorsa all’insegna della banalità. Nessuna donna ha infuocato la mia vita, nessun dei miei cari mi è stato sottratto anzitempo, nessun successo lavorativo ha incoronato i miei anni. Sono vissuto nella bambagia e così morirò, con un veleno che prima ti assopisce e poi ti uccide: così pavido da non saper affrontare nemmeno il proprio suicidio. Alla fin fine, però, non posso dirmi insoddisfatto della mia esistenza, benché così ordinaria; non mi è mancato nulla e scelgo di togliermi la vita in piena libertà, per una mia autonoma decisione.
Ma perché ho deciso di farlo? Medito quest’atto da ormai un anno e mezzo, dal giorno in cui, svegliandomi, ho sentito nelle mie viscere che la mia vita avrebbe dovuto avere termine. Da quel momento ho aspettato un segno che mi indicasse quando sottrarmi al mondo, continuando intanto a condurre la mia scialba vita. Anche in questi mesi, che pensavo avrei ricordato in punto di morte, non è successo nulla di notevole; i giorni si sono dipanati pigramente l’uno dopo l’altro, fino a portarmi a questo fatidico giorno.
E pensare che ero restio a quella passeggiata, mi sono fatto convincere da un altro avventore che mi aveva decantato la serenità del bosco. Qui, come a casa, tutti mi hanno trattato come un malato, incluso quell’uomo.
Il mio medico, primo dei modesti nemici di questo modesto uomo, mi ritiene malato, e gravemente. Malato di mente. Incapace di condurre una vita normale a causa di certi umori dai valori fuori dalla norma. Follie. Tutta questa malinconia è dovuta all’indole, al carattere: mio padre descrive d’altronde così mia madre, morta di parto nel dare alla luce la mia sorella minore. È evidentemente qualcosa di familiare, ma nulla che possa essere curato con salassi e intrugli.
(La rugosa faccia del mio medico mi si è stampata nella mente, vorrei sottrarmene al più presto: seguo i giochi di ombre che crea la candela, mentre la penna scrive da sola, con gesti ormai automatici, e cerco di capire quanto resti ancora da vivere a questa bizzarra accoppiata, io e la candela. Non ne ho la più pallida idea, come non so da quanto sto scrivendo e pensando, preparandomi a lasciare questo mondo. Probabilmente sono queste le particolari condizioni in cui un uomo perfettamente sano e presente a se stesso –checché ne dica il dottor Schmidt- perde completamente il senso dello scorrere del tempo. Certo, potrei rischiarare l’angolo in cui è appesa la pendola, ma spezzerei l’incantesimo dato dall’ondeggiare della candela e dal mio progressivo allontanamento dalla vita. In fondo, quando non si ha nulla da aspettarsi, che senso ha il tempo?)
Dopo questa digressione, cerco di riprendere il discorso. Ah, già, Schmidt. Beh, della scarsa efficacia dei suoi rimedi ne sono persuasi  i miei pochi amici, che continuano a cercare per me svaghi e intrallazzi, non comprendendo che così facendo non ottengono nulla se non, a volte, l’aggravarsi di questo mio stato. Tuttavia, so che sono mossi da buone intenzioni e perlopiù fingo gioia e divertimento per non dar loro dei dispiaceri. Mi rammarico di non aver potuto salutarli personalmente, prima della mia dipartita; ma credo che in fondo tutti si aspettino un tale gesto da me, e abbiano già preso congedo in modi personali e segreti. Sono in fondo loro grato per ogni momento trascorso insieme, della loro fiducia e del loro affetto.
La mia famiglia, infine: anch’essi hanno rinunciato a vedermi felice, ma non mi rammarico di ciò, perché tutti ne erano sicuri fin dalla mia infanzia; non rattristano le cose note. Altre parole per loro non ne ho da spendere: ho sempre avuto la sensazione di vivere nella stessa casa con degli estranei casualmente interessati a me, nulla di più.
Ebbene, sono riuscito a riassumere la mia vita in poco meno di due facciate di questo taccuino: la prova evidente e cartacea della mia tristezza.
La candela a cui ho affidato il mio destino splende ancora, sfidando il cielo stellato che si intravede dalla finestrella; il suo tempo sembra ancora lontano. E se accorciassi il mio? Che altro ho da fare, se non morire? No, no, una promessa è una promessa: al morire della fiamma, solo allora potrò morire anche io.
Attesa, attesa… la vita è solo l’attesa della morte e la maggior parte degli uomini non se ne rende conto. Io l’ho sempre saputo e ora che potrei smettere di logorarmi in questa attesa, devo ancora fermare la mia mano per una sciocca promessa fatta a me stesso. Che scemenza.
Forse, la salvezza: un refolo d’aria piega la fiamma che balla, si abbassa…  e poi si rialza. Com’è resistente, questa candela, e come splende la sua fiamma; mi sembra la candela più bella che abbia mai acceso, migliore addirittura di tutti i grandi ceri da cerimonia che rischiarano il buio delle chiese.
La mia vita, la vita di tutto il mondo, è racchiusa in questa fiammella che lotta intrepida contro il fato; persino una candela è decisamente più coraggiosa di me nell’affrontare il suo destino.
Altri spifferi la mettono alla prova, la mia mano scrive da sola perché gli occhi sono incatenati a quel fuoco fatale.
Finalmente, quando il cielo notturno inizia finalmente a rischiararsi verso est, il tremolio conclusivo: di nuovo la fiamma trema e si piega una, dieci, cento volte, è una vela che lotta contro una tempesta in alto mare. E, come sempre, la morte vince. La candela si è spenta. La mia vita la seguirà in un lampo.
Ho appena ingoiato questa amara pasticca e con fatica vergo le ultime parole: addio, amici miei, e miei nemici; che la vostra vita splenda come questa candela.
Addio.
 
 Questa storia partecipa al contest Indovina la Citazione indetto da Il_Genio_del_Male su facebook. Il prompt utilizzato è il 3 del sabato.
 Questa storia ha ricevuto la Menzione Speciale al contest Indovina la Citazione.
  
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