Nella Nebbia
- HAJIME -
* Sotto l’albero del Gelso *
Esco dal
portone con la cartella a tracolla, attraversando a passi lenti il cortile,
diretta verso la palazzina dal lato opposto. Un passo, uno sbadiglio, un altro
passo, un altro sbadiglio…tiro su col naso, maledicendo il solito raffreddore
invernale e, stringendomi nel bomber, mi guardo le scarpe. Ecco, penso, l’ho
fatto di nuovo: ho messo gli scarponcini con il bomber. Quante volte dovrò
sentire mia madre gridarmi dietro, prima di capire che le scarpe eleganti vanno
con vestiti eleganti e i giubbotti sportivi si usano solo con le scarpe da
ginnastica? Forse tante volte quante dovrò ricordarle che io, alla mattina,
riesco benissimo a scambiare i doposci con le scarpe da basket e gli
scarponcini con le scarpe “da gonna”, quelle della messa della domenica. Come
se ci andassimo, alla messa della domenica. Sono circa otto anni che mi sono
allontanata dal cattolicesimo e dalle ostie dal sapore di bugie e pane
raffermo, e quelle scarpe restano chiuse a marcire sul fondo dell’armadio,
usate solo ai matrimoni o ad altre ed eventuali. Ma sono cose a cui, se
si sta nella mia famiglia, ci si deve abituare.
È una
folata di aria gelida che mi sale lungo la schiena a risvegliarmi dal torpore
dei miei pensieri. È una tipica mattina lombarda, dalle mie parti non è strano
vedere la nebbia mattutina, anche se vedere è un termine improprio da
usare, particolarmente oggi. Non che sia più fitta di altri giorni, anzi, ma
c’è qualche cosa di strano, nell’aria, qualcosa che non riesco a non
identificare. Qualcosa che è da tanto, troppo tempo, che non avvertivo più.
Citofono
al mio amico, quello della palazzina di fronte alla mia, che mi avvisa di
essere pronto e che arriverà fra due minuti. Appoggio la cartella per terra, la
mia spalla me lo supplica, e mi preparo alla lunga attesa: so bene quando
durino i suoi due minuti, sicuramente è ancora in mutande. Ieri sera avrà
certamente fatto tardi, intento come al solito a provare e riprovare la sua canzone,
per tentare di entrare nella scuola di canto. Non sono sicura che il suo sogno
si avvererà, ma ci spero lo stesso: in fondo, anche se è insopportabile il suo
modo da non-mi-merito-meno-di-otto e i suoi ripetuti commenti sugli insegnanti
incompetenti, gli voglio bene. In fondo gli voglio bene, l’ho
detto sul serio? Allora direi di aggiungerci molto prima di “in fondo”.
Volgo lo sguardo oltre la recinzione del cortile, osservando le cartelle che
trascinano gli studenti assonnati per strada: che ci facciamo Noi, in mezzo a
tutta questa gente? Noi che siamo soliti rintanarci nel nostro antro buio
leccandoci inesistenti ferite sanguinanti e maledicendo persone mai nate. Noi,
il vecchio gruppo dell’albero del Gelso, lo storto e strabico padrone al centro
del cortile, dove siamo finiti? Dispersi negli anni, portando solo il ricordo
di quello che, con tanta felicità, eravamo un tempo. In questo cortile siamo
rimasti solo in tre, noi superstiti: io, il mio amico che ora, vestito,
sarà passato alla fase gel – e questo occupa altri due suoi minuti – e
il mio protettore, quello della portineria B. Quello che, anche se non l’ho mai
ammesso, era il mio migliore amico. L’Attore, il Cantante, e la Lettrice.
Così ci chiamavamo, in quei gloriosi giorni. Ma l’età avanza, me ne accorgo
ogni attimo di più: un tempo non mi sarei permessa certi ricordi, ne tanto meno
la debolezza di ammettere un ti voglio bene o un migliore amico.
Un tempo sarei stata ferma per ore a ricevere gli insulti del solito gruppo di
ragazzi, con la testa bassa ed evitando di parlare, per non far vedere che
sotto la spessa coltre di capelli arruffati spuntava un sorriso che già
pregustava ciò che sarebbe successo dopo il mio ritorno a casa. Per certi versi
le loro offese erano divertenti: buffo come dei ragazzotti grandi e grossi
assalissero con tanta foga uno scricciolo di un solo metro e venti, spaventati
da una semplice occhiata. È sempre stato un nostro vizio, una brutta cosa,
quello di guardare dall’alto in basso la gente, ma che ci potevamo fare?
Eravamo giovani, felici, stolti e convinti che il mondo ci appartenesse,
sentendoci superiori agli altri. Non era la prima volta che succedeva, non
sarebbe stata di certo l’ultima. A volte la situazione si risolveva prima della
riunione pomeridiana sotto il Gelso, perché arrivava lui, l’Attore. Dai
racconti che poi riportavo alle altre ragazze del gruppo il suo intervento
veniva immaginato come il salvataggio del principe azzurro che, sul suo cavallo
bianco, solleva la bella e la porta al castello, sconfiggendo i cattivi, ma la
realtà era ben diversa: non ho mai capito se ero io, a incentivare quelle
immagini, o solo il fatto che tutte loro, piccole e in balia delle fantasie
adolescenziali, fossero innamorate di lui, ma fatto sta che il suo, più che un
intervento principesco, era un uragano vero e proprio. Più simile al famigerato
cavaliere nero sul suo sbuffante cavallo scuro dalle narici dilatate. Dopo che
era passato lui, sia sul campo emotivo che su quello reale, i poveri sventurati
si ritrovavano a terra, demoralizzati e con parecchie macchie bluastre. E io,
nella mia sporca innocenza di ragazzina stupida, ridevo sguaiatamente di quelli
che, fino ad un attimo prima, ridicolizzavo senza darlo a vedere. Lui non era
il principe azzurro, sotto nessun aspetto. Lui era il mio protettore, la mia
fedele guardia del corpo. Il mio più caro amico. Ecco, ci sono cascata di
nuovo.
“Treccina
Bionda!” mi volto al buffo richiamo e vedo la mia amica venire verso di me.
“Priviet, Cappucetto Rosso…”. Ridacchia quando sente il nomignolo
che le ho affibbiato e per cui lei, in risposta, mi ha battezzato Treccina
Bionda. Ma se sapesse perché lei è Cappuccetto Rosso, penso non
riderebbe poi così tanto. Quando l’ho conosciuta mi sentivo sporca: il gruppo
del Gelso si era appena diviso, ognuno per la sua strada, perché noi più grandi
entravamo per la prima volta alle superiori, ma in me erano ancora profonde le
abitudini, le idee di superiorità del mio passato. Le nostre Azioni. Ero sempre
in silenzio, in quella classe chiassosa piena di idioti, credo di averli
definiti il primo giorno, seduta vicino alla finestra al primo banco. Era lei
che mi stava affianco, sperduta come un uccellino appena uscito dall’uovo e
caduto dall’albero che pigolava per richiamare la madre, ma a bassa voce per
non farsi udire dai predatori. Non sarei stata io, a rimetterla nel nido,
pensavo, e non mi sbagliavo: fu lei a insegnarmi a volare. Non fu difficile, la
parola silenzio non è contemplata nel suo vocabolario, e così, volente o
nolente, dovetti iniziare a parlare con lei. Fu un’esperienza interessante: una
ragazzina tanto chiassosa, ma dai modi tanto gentili, innamorata dell’amore e
profondamente convinta nella religione che veniva a contatto con me, ciarliera
solo per nascondere le proprie emozioni, scorbutica e non curante delle buone
maniere, chiusa, convinta nella sua superiorità e aberrante di qualsiasi dio o
simile. Fu allora che, anche se era stata così forte e in gamba da riuscire a
far rompere la ragnatela del passato non solo a me, ma anche al Cantante,
che la vidi fragile ed indifesa ed iniziai a chiamarla Cappuccetto Rosso e a
difenderla dai pericoli della vita scolastica. Anche se, come spesso penso
quando la vedo agire, è una Cappucceto che ha trovato il modo di convincere il
Lupo Cattivo ad aiutarla a raccogliere i fiori: picchiandolo con il cestino del
pranzo.
Finalmente
il portone dietro di noi si apre ed il Cantante ci degna della sua
presenza. È sempre stato legato alla sua immagine esteriore, in questo neanche
Cappuccetto è riuscita a cambiarlo, ma ora, almeno, ci risparmia le sue
paturnie e non si specchia in pubblico. Riafferro la cartella mentre
Cappuccetto comincia a parlare del compito in classe che dobbiamo affrontare
alla prima ora e, con quel fiume di parole che si riversa nelle mie orecchie e
nella mia testa, non c’è più posto per altri ricordi. Poi, improvvisamente, si
interrompe: “Certo che oggi c’è proprio una bella nebbia. Non si vedono che i
fanali posteriori delle auto…”. Sento ancora quello strano brivido risalirmi la
schiena e mi volto di scatto verso il cortile dall’altro lato della strada. È
solo l’albero di Gelso che riesce a sollevarsi oltre la coltre di nebbia,
cattivo nel ricordarmi che lui è sempre lì. Quasi senza pensarci mi volto verso
il Cantante: anche lui guarda l’albero, con uno sguardo strano, poi si
volta verso di me e muove le labbra come a voler dirmi silenziosamente
qualcosa. Non c’è bisogno che lo faccia, ho già capito: anche lui ha sentito
quello che ho sentito io, anche lui si è ormai rassegnato. Non riusciremo mai a
liberarci del nostro passato, è sempre lì che preme sul collo, e che,
dispettoso, slaccia le fibbie della mia cartella per far riaffiorare ricordi
per troppo tempo felicemente dimenticati. Ma lo sapevamo, tutti noi del gruppo
dell’albero del Gelso, che ciò che eravamo era annidato ancora nel nostro petto
ed aspettava solo il momento giusto per riaffiorare. Ed ora so per certo che
aspettava questa giornata di nebbia, simile a quelle in cui si rifugiavano le
nostre Azioni, per far venire fuori la parte più schifosa del nostro spirito.
Senza
che me ne accorga una lacrima viene scaraventata sul marciapiede, rifiutata dai
miei occhi: questa notte il gruppo del Gelso si riunirà. Per l’ultima volta.
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