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Autore: northerntrash    21/08/2014    4 recensioni
"Grazie per aver ascoltato" disse Thorin, alzandosi in piedi. "Spero di poter ricambiare il favore, un giorno."
L'uomo nel letto non rispose, ma dato il fatto che era in coma da più tempo di quanto Thorin lo conoscesse, non fu del tutto sorpreso.
Bagginshield Modern AU | SlowBurn | Not a somnophilia story | Storia originale su Archive of Our Own | 38 capitoli
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Bilbo, Dìs, Fili, Thorin Scudodiquercia
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note della Traduttrice
Ciao a tutti di nuovo! :) Nulla di importante da dire oggi, tranne i miei ringraziamenti per il supporto a Missing23, Leila91 e LiliacLilium che hanno commentato il capitolo precedente. Grazie del supporto, ragazze ♥
Come sempre, non esitate a farmi notare eventuali errori!
Buona lettura!



Capitolo 3
 
 

Tornò dopo tre giorni, settantadue lunghe, lente ore passate ad aspettare all'infinito e stare seduti e provare ad essere pazienti; si era ritrovato di nuovo nella stanza dell'uomo quando Dis era finalmente riuscita a mettersi in piedi e andare al reparto di terapia intensiva neonatale per vedere suo figlio - la mano di Vivi serrata così stretta nelle sue che era bianca quando Dis l'aveva infine lasciata andare. Si era seduta con fatica di fianco all'incubatrice, le mani strette ai bracci della sedia come se avesse avuto paura di cadere; Thorin aveva guardato attraverso la finestra sul reparto, aggrappandosi al davanzale, volendo aiutare ma sapendo che gli infermieri non avrebbero permesso a così tante persone di entrare tutte insieme.

Vivi era stata lì comunque, i corti capelli biondi infilati dietro le orecchie mentre le indugiava alle spalle, in caso Dis avesse avuto bisogno di lei, spostando gli occhi tra corpicino nell'incubatrice e la donna al suo fianco, indecisa su quale dei due avesse più bisogno delle sue attenzioni.

Poi Dis aveva sorriso appoggiando la fronte sul vetro, lo straziante sorriso pieno di gioia di una madre che vedeva il figlio per la prima volta, e qualcosa nel petto di Thorin si strinse e si rilassò allo stesso tempo.

Frerin, di fianco a lui, gli aveva dato una gomitata.

"Smettila di preoccuparti, mamma."

Thorin aveva emesso qualcosa di simile ad una risata e si era passato una mano tra i capelli.

Frerin poteva prenderlo in giro quanto voleva, ma non avrebbe mai fatto cessare l'onnipresente agitazione che attanagliava il suo cuore quando si trattava della sua famiglia; anche quando non c'era niente che non andava, c'era sempre un filo di paura, come se sapesse che qualcosa sarebbe comunque successo.

Aveva progettato di andare a casa, dopo, per farsi una doccia e cambiarsi i vestiti, ma quando aveva superato l'imbocco del corridoio aveva di nuovo pensato a quella porta, quella stanza tranquilla, la luce del sole che diventava un grigio bagliore sulle lenzuola pallide, quell'espressione senza pretese, e si infilò di nuovo dentro, solo per un momento, solo per dirgli la notizia, anche se sapeva che l'uomo non poteva sentirlo.

"Vogliono chiamarlo Kili," aveva detto, indugiando un po', incerto se dovesse sedersi o rimanere in piedi. "Fili è al settimo cielo, a quanto pare è stata una sua idea."

Aveva scosso la testa allora, e se ne era andato, perché non c'era ragione per lui di continuare a fare questa cosa.

Ma da allora fu come se si fosse rotto un argine; Thorin non era mai stato il tipo da sfogarsi con le persone di sua conoscenza, men che meno con degli sconosciuti, ma c'era qualcosa nel silenzio della stanza che gli faceva tirare tutto fuori, qualcosa nella strana esperienza di parlare con qualcuno che non poteva né sentire né rispondere che rendeva il tutto molto più facile di quanto non fosse mai stato.

Non lo faceva ogni giorno, anche se si ritrovava all'ospedale tanto spesso, nonostante il suo lavoro e il badare a Fili, così che entrambe le sue madri potessero riposare o aspettare insieme nel reparto di maternità, ma due o tre volte a settimana si ritrovava a fermarsi sulla porta, ancora una volta chiedendosi se sarebbe dovuto entrare o no, prima di inevitabilmente entrare nella stanza immutata, scivolare sulla sedia al fianco del letto, e parlare.

"Ho tenuto mio nipote per la prima volta oggi" poteva dire all'uomo, sistemandosi sulla sedia. "Io… beh, non proprio tenuto, non in braccio, ancora non ci è permesso di farlo. Ma possiamo toccarlo ora, lo chiamano contatto di conforto. Così il bambino sa che ci sono persone intorno. Ancora non apre gli occhi."

Aveva la sensazione che chiunque lo conoscesse bene si sarebbe terrorizzato a sentirlo parlare in questo modo, così liberamente e apertamente, con un totale sconosciuto.

Non sapeva perché lo faceva.

Sapeva solo che lo faceva sentire immensamente confortato, come non aveva mai fatto da quando era un bambino, al sicuro tra le braccia di sua madre o al fianco di suo padre. C'era qualcosa di terapeutico nel silenzio, qualcosa di bello nell'avere la possibilità di parlare senza che nessuno ascoltasse realmente, senza che nessuno gli ponesse domande o si aspettasse determinate risposte, o che gli dicesse di sfogarsi o che sarebbe andato tutto bene.

Thorin gli parlò della sua famiglia, di come era stato diventare il sostituto di un genitore per una dodicenne difficile e un quindicenne chiuso in sé stesso quando lui stesso non aveva neanche vent'anni, e come odiava quando la gente gli diceva che bel lavoro avesse fatto, perché non sentiva di aver fatto nulla. Frerin era uscito dal guscio quando se ne era andato via in un anno sabbatico prima dell'università e Dis aveva smussato gli angoli col tempo, in particolare dopo aver incontrato Vivi nel suo anno da matricola (in un'università all'altro lato del Paese rispetto a quella di Frerin, e che cosa fantastica era stata andarli a riprendere entrambi alla fine del semestre). Aveva avuto poco a che fare con lui; dopo tutto, non era mai davvero riuscito a fare nulla di ciò, non avendo mai superato la sensazione adolescenziale di essere fuori posto e la scocciatura che gli provocavano i rapporti sociali.

Ammise quanto quello da solo lo infastidisse a volte.  

Thorin spiegò quanto aveva odiato il fatto che chiunque sembrasse provare a dargli il merito di come i suoi fratelli erano "venuti su", parlando di loro come se fossero macchie che Thorin aveva strofinato via e non persone reali che erano cresciute e si erano sviluppate a modo loro; facevano cenni di rispetto nei suoi confronti e parlavano di sacrificio e quanto orgogliosi sarebbero i tuoi genitori, e dopo un lungo, silenzioso pomeriggio aveva perfino ammesso, la voce bassa e tranquilla, quanto ciò lo infastidisse, perché non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che suo padre sarebbe stato solo deluso dal fatto che non aveva continuato gli studi, avendo cominciato un apprendistato per far quadrare i conti così che non dovesse attingere alle eredità di Dis e Frerin (le sue erano state completamente utilizzate per finire di pagare l'ipoteca sulla loro casa, così che non si sarebbero dovuti trasferire).

Raramente incontrava infermieri o medici nella stanza dell'uomo, cosa per la quale era immensamente grato, anche se a giudicare dai cenni familiari che cominciava a ricevere sospettava  fossero al corrente del suo via vai.

Thorin parlò anche del suo lavoro di gioielliere, come avesse cominciato in un negozio di catenelle ma come le giornate tutte uguali piene di vendite di collanine dall'aria economica e pendenti pacchiani lo stessero facendo impazzire, e come avesse avviato la sua attività con un prestito che era stato davvero troppo alto per essere gestito da un uomo di poco più di vent'anni (ovviamente non se ne era reso conto allora), con i ghirigori intricati dei gioielli personalizzati che erano diventati la sua specialità.

Spiegò che nonostante il pensiero di quello che avrebbe detto suo padre, amava farlo.

Ammise che c'erano poche cose che gli davano tanta pace e soddisfazione quanto vendere qualcosa nel quale aveva riversato cuore e anima, sapendo che la persona che lo comprava ci tenesse quanto lui.

A volte si chiedeva se avesse dovuto chiedere a l'uomo di parlare di sé, di chi fosse e cosa facesse e come fosse finito in questa piccola, luminosa stanza, ma si fermava sempre. Per quanto l'uomo non avrebbe risposto, per quanto non avrebbe ricevuto risposta se l'avesse fatto, gli sembrava comunque che sarebbe stato invadente. L'uomo non stava steso lì aspettando di essere interrogato sulla sua vita, e meritava di avere privacy anche ora, in questo sonno profondo.

Thorin riuscì ad ignorare l'ironia della, considerando le sue azioni, semplicemente togliendoselo dalla testa.

Erano passate tre settimane da quando aveva conosciuto il signor Baggins, anche se "conoscere" implicava un qualche livello di reciprocità nei loro incontri, e non ce n'era proprio, e malgrado ciò si ritrovava lì un paio di pomeriggi a settimana, seduto sulla sedia scomoda, a guardare un volto sul quale non c'erano segni di movimento.

Deglutì.

"Sono sempre lì in giro, gli infermieri. Non li biasimo, tutti i bambini nel reparto neonatale sono così… piccoli. Anche lui lo è, mio nipote. Sta crescendo però."

Thorin si schiarì la gola, e si mosse un po' nella sedia.

"Te lo potrei portare, se vuoi."

Perché l'ho detto? Si chiese. Cosa ci guadagno di buono a pensarlo?

Parlare all'uomo aveva lasciato notevoli effetti collaterali, comunque: riversare fuori quelli che, Thorin cominciava a realizzare, erano anni di emozioni represse lo lasciava più leggero, con più posto nella mente per un supporto di tipo diverso da quello che riusciva a dare nel passato.

Frerin gli aveva lanciato un'occhiata strana - probabilmente meritata - solo il giorno prima, dopo aver ammesso di aver saltato la sua visita di controllo per badare a Fili (Dis si era addormentata in ospedale e non era tornata a casa all'orario stabilito, e Thorin era al lavoro; Vivi era seduta all'incubatore e aveva completamente perso la cognizione del tempo).

Normalmente Thorin avrebbe ringhiato qualche rimbecco irritato a Frerin, chiamandolo idiota irresponsabile o qualcosa del genere, ma il senso di scocciatura che normalmente gli saliva velocemente non era arrivato; invece, lo aveva guardato con esasperazione poco convinta, e gli aveva lanciato il suo telefono, ricordandogli di riprogrammare l'incontro.

"Stai bene, Thorin?" Frerin aveva chiesto dopo aver riposto il telefono. "Non sembri... te stesso."

"Sto bene" aveva risposto, in un modo un po' più brusco del solito.

Frerin lo guardò in un modo che affermava chiaramente che non credeva ad una parola, ma lo lasciò in pace.

Non aveva detto a nessuno delle sue visite al paziente in coma, anche se non avrebbe saputo spiegare perché sentisse il bisogno di tenerlo segreto: forse aveva qualcosa a che fare con il senso di colpa che ancora sentiva a sfogarsi con uno sconosciuto.

Cosa che comunque non lo fermava.

Volendo, doveva trattenersi dall'andare a sedersi al capezzale dell'uomo più spesso di quanto non facesse già.
Era stano, pensò tra sé e sé quando arrivò ancora una volta all'ospedale, un borsone di provviste per Dis e Vivi in un braccio, quanto parlare un po' facesse per alleviare il peso che premeva sulle sue spalle da più anni di quanto potesse ricordare. Dis era stata dimessa più di una settimana prima, ma le due avevano passato così tanto tempo nel reparto di maternità che Thorin e Frerin avevano cominciato a portar loro cose, libri, snack, bottiglie d'acqua, così che si ricordassero di badare anche a loro stesse.

Si fermò un momento davanti al negozio dell'ospedale, il profumo di decine di bouquet di fiori tutti mischiati insieme, e pensò di nuovo a quei fiori di stoffa sul davanzale.

Gli davano ancora fastidio, anche se non avrebbe saputo dire il motivo neanche se la sua vita ne dipendesse.

Scosse la testa, e andò avanti per trovare la sua famiglia.   

---------------

Quattro settimane dopo -  

Bilbo si ritrovò a fissare ancora una volta i fiori sul comodino. Aveva presunto che li avesse portati un parente o un amico, ma non era venuto fuori nessun colpevole dalla moltitudine di visitatori che aveva ricevuto nel paio di giorni da quando si era svegliato: di fatto, un sacco di persone erano sembrate un po' vergognate quando lo aveva chiesto, il che lo portò a domandarsi se lo erano davvero andati a trovare tanto spesso quanto dicevano.

Ora aveva uno schieramento di bouquet sparso sul davanzale, alcuni costosi e un sacco davvero eccessivi, ma aveva chiesto agli infermieri di lasciare solo questi vicino al letto.

Tulipani, la sua mente fornì, incastrando al suo posto la parola per i fiori. Vari- c'era un termine, per i tulipani di questo tipo, con più di un colore sui petali. Vagri-qualcosa. Variegati? Tulipani variegati.

Fece ricadere la testa sui cuscini, esausto.

Continuava a succedere, momenti di sconcerto nei quali la sua mente e la sua memoria continuavano a riavviarsi, lasciandolo stremato. A stento realizzava cosa si fosse dimenticato finché non gli riveniva in mente, lasciandogli una strana inquietudine nel petto alla realizzazione di quanto male era stato.

"Sai chi ha lasciato questi fiori?" gracchiò ad un infermiere, le parole ancora incerte.

"Il tuo amico-" cominciò li, prima di interrompersi con una breve risata fragorosa. "Non è strano, è venuto qui così spesso di recente e non so il suo nome. Ha l'aria un po' severa, circa un metro e ottanta, capelli scuri sale e pepe, piuttosto attraente nel suo modo austero, scolpito?"

Si tamburellò l'angolo della bocca con la penna.

"Il naso un po' grande?"

Bilbo scosse la testa, assaporando il dolore che gli invase il collo per il movimento; non per il dolore in sé, ma per il fatto che fosse in grado di provarlo. Il paio di giorni dopo essersi svegliato del tutti erano stati terrificanti all'inizio, quando era stato a stento in grado di muovere il corpo, ma molto lentamente stava tornando tutto.

"Non… non conosco nessuno così," disse, accigliandosi. "Sei sicuro?"

L'infermiere annuì.

"Affermativo. Posso controllare se c'è un nome sul libro degli ospiti, se vuoi? Ero di turno l'ultima volta che è venuto, non dovrebbe essere difficile da trovare."

Bilbo annuì, lasciando che l'infermiere gli mettesse la cannuccia in bocca così che potesse bere un po' d'acqua. Gli mancava il cibo; a quanto pare si sarebbe dovuto riabituare a pasti solidi, perché il suo corpo non avrebbe reagito bene se fosse ritornato subito a mangiare cibo vero dopo tanto tempo attaccato ad una flebo.

Il che era un peccato, avrebbe ucciso per una frittura.

Andò a controllare, e Bilbo osservò i delicati giochi di arancio e oro sui petali mentre aspettava, serrando le dita ritmicamente - per nessuna ragione oltre al fatto che poteva.

L'infermiere ritornò, la fronte aggrottata.

"Non ha firmato, mi dispiace. Ma sono sicuro che tornerà presto! Viene ogni pochi giorni, ed era qui tre giorni fa."

Bilbo annuì, già mezzo addormentato, guardando ancora i fiori.

Continua...
 
 
   
 
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