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Autore: Fannie Fiffi    22/08/2014    3 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buongiorno dolcezze!
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e inserito fra le seguite/ricordate/preferite. Grazie per il supporto, le bellissime parole, gli scleri insieme, le risate e le emozioni che mi provocate. Siete fantastici, tutti quanti.

Ho solo un avviso: per quanto riguarda ciò che ha a che fare con le cose poliziesche, le sezioni e gli argomenti al riguardo, sono frutto delle informazioni che riesco a ricavare da internet e dalle invenzioni della mia fantasia, perciò se in qualche modo qualcosa di tecnico dovesse risultarvi improbabile (spero di no, mi sembra di essere stata abbastanza realistica) vi prego di ricordare questo.
Ogni avvenimento nella storia è praticamente del tutto frutto della mia immaginazione, sebbene ispirato a procedimenti reali (Il Dipartimento di Polizia etc.)

Detto questo, vi lascio al capitolo e vi auguro buona lettura!


 
Is It Any Wonder?



 
« Spegni la luce. » Il tono di Bellamy divenne improvvisamente fermo e autoritario, mentre si voltava nuovamente verso di lei e i suoi lineamenti si indurivano sotto la pressione della consapevolezza.

« Cosa? » Clarke, invece, sembrava aver perso tutta la sicurezza di qualche attimo prima; spalancò gli occhi in un’espressione di terrore.

« Ho detto spegni la luce. »

« Perché? »

« Non posso. » Sibilò lui, passandosi stancamente una mano sul volto.

Si fidava di lei?  Ma cosa stava facendo?

Non conosceva nemmeno il significato della parola fiducia e ora pretendeva di poterne dispensare a destra e manca per la prima ragazza carina che incontrava.

Era avvenuto tutto così velocemente e inaspettatamente, lui non aveva avuto nemmeno il tempo di riflettere con attenzione e ora si ritrovava catapultato in una situazione che sentiva di non poter gestire.

Un po’, forse, era per l’improvvisa rivelazione che lei gli aveva fatto, un po’ perché aveva paura di infrangere la stabile monotonia in cui era lentamente scivolato.

« Perché? » Ripeté la bionda, questa volta riferendosi ai suoi segni di cedimento.

La sua voce si abbassava man mano che il compimento della sua paura la colpiva; sapeva che con quella mossa si era giocata tutto: non solo la  propria credibilità e l’aiuto di una persona che stimava, ma anche una reale opportunità di fare luce sul mistero che aveva ossessionato gli ultimi quattro anni della sua adolescenza.

Bellamy non poteva. Semplicemente non poteva. Lui aveva Octavia, la sua maggior responsabilità, e immischiarsi negli affari di una compagnia milionaria – per un caso di presunto omicidio, per di più – non era esattamente il tipo di rischio che poteva permettersi il lusso di correre.

Tre settimane prima non sarebbe nemmeno riuscito a concepire l’idea di trovarsi in un garage, nel bel mezzo della notte, con una ragazza che lanciava accuse pretenziose e non indifferenti contro quella dannata Ark Corporation.

A cosa stava pensando per tutto il tempo?

Che improvvisamente, solo perché una ragazzina gli aveva fatto gli occhi dolci, avrebbe messo in gioco praticamente tutto quello che amava? Che sarebbe riuscito a salvarla?

La parte fredda e calcolatrice di sé parve istantaneamente svegliarsi da un letargo della ragione; no, per quanto fosse dispiaciuto per la sua perdita e per quanto potesse sentirsi attratto da lei, non avrebbe potuto farlo.

« Non posso aiutarti, sono stato sospeso. Ora spegni la luce, ti riporto a casa. » Parlò con la voce che sua sorella odiava tanto: quella che non ammetteva alcun tipo di repliche.

La giovane Griffin, che fino a quel momento l’aveva osservato attentamente in cerca di qualsiasi segnale che potesse rivelarle la sua predisposizione ad aiutarla o meno, si prese il volto fra le mani e vi sprofondò completamente, lasciando che i suoi capelli ricadessero in avanti e ricoprissero la vergogna che sentiva in quel momento.

Si era tanto preoccupata di seppellire qualsiasi tipo di razionalità da non pensare che forse quello non fosse lo stesso desiderio di Bellamy.

« Sei stato sospeso? Perché? » Tentava in qualsiasi modo di trovare qualcosa di lui che potesse convincerlo ad aiutarla, ma non era in grado di dirsi certa di niente.

« Non ti riguarda. Ce ne andiamo. Ora. »

Ad un tratto una grande collera si impossessò di lei: credeva forse che fosse stato facile, aprirsi con lui e condurlo in quel luogo? Come poteva, ora che sapeva tutto quello che aveva dovuto affrontare, trattarla in quel modo?

Sollevando il viso e alzando il mento, gli lanciò un’occhiataccia.

« Ah, quindi io ti racconto tutto questo e tu non puoi dirmi perché sei stato sospeso, giusto? »

«  Sì, proprio così. » Bellamy le tenne testa, incrociando le braccia e gonfiando il petto, cercando con tutte le sue forze di non lasciar trasparire nemmeno la minima parte di dispiacere che stava provando in quel momento.

« E non credi che abbia il diritto di saperlo? »

« Non hai nessun diritto su di me. Non ti ho chiesto io di raccontarmi la tua storia, non ti ho chiesto io di portarmi qui. »

« Ma hai accettato. Sei qui perché volevi essere qui, non dare la colpa a me per le tue decisioni! »

Stavano entrambi alzando la voce e qualsiasi cosa fosse successa prima a casa sua, ora stava lentamente scivolando in secondo piano, oscurata da motivi ben più profondi e impellenti.

« Va bene. E ora decido che non posso aiutarti, non potrei nemmeno se lo volessi. Ok? »

Senza offrirgli alcun segno di assenso, Clarke si limitò a tirarsi su il cappuccio della felpa. Poi, prese dalla tasca posteriore dei jeans il mazzo di chiavi e fece scattare nuovamente la serratura, spegnendo la luce e sollevando la saracinesca.




Il viaggio di ritorno fu brutalmente silenzioso e nessuno dei due pronunciò una singola parola, il brusio basso della radio e i loro respiri come unici suoi ad accompagnarli.

Bellamy stringeva forte il volante con la mano sinistra, lasciando la destra appoggiata pigramente al cambio, mentre Clarke, come suo solito, teneva il capo abbandonato al finestrino e guardava le luci dei lampioni sfrecciare al suo fianco e disperdersi alle sue spalle.

Quando il maggiore dei Blake parcheggiò nel proprio vialetto, si voltò verso di lei e la osservò per qualche istante.

Fin dalla prima volta in cui l’aveva incontrata, aveva capito di non poter comprenderla davvero; l’aveva vista così fiera nell’evidente solitudine che le faceva le fusa come un gatto pigro e si era immediatamente reso conto di quanto apparisse camaleontica e sfuggevole.

Sapeva di averla ferita, di averle probabilmente negato l’unica concreta possibilità di fare luce su qualsiasi cosa fosse accaduta al padre, ma non poteva permettersi di fare l’eroe. Non questa volta.

« Tu sei una ragazza brillante, Clarke. Riprendi a studiare, laureati, diventa il medico che hai sempre voluto essere. Il passato non può fare altro che male, devi lasciartelo alle spalle. Fidati di me. »

Lei non ricambiò lo sguardo. Non si mosse minimamente, gli occhi persi in una qualche lontananza davanti a sé e la gamba sinistra lievemente tremante.

Le dita della sua mano destra si strinsero attorno alla maniglia dello sportello, poi: « Fottiti, Bellamy. » E scese dalla macchina.
 


 
Erano trascorsi più di dieci giorni dall’ultima volta in cui l’aveva vista.

Non c’era stata più occasione, nemmeno per sbaglio: era come se Clarke Griffin  si fosse di sorpresa rivelata semplicemente un frutto della sua immaginazione.

Octavia ed Atom avevano smesso di nominarla più o meno da quando, il giorno dopo la fatidica cena, Bellamy aveva perso la testa e gli aveva urlato contro di farsi gli affari loro – forse in modo lievemente meno educato – e lui non l’aveva più incontrata.

Nemmeno al The 100, dove aveva intravisto spesso quell’idiota di Finn, nemmeno nella via di casa loro.

Molte volte, quando usciva a correre, gettava uno sguardo verso quell’abitazione imponente e la trovava incredibilmente vuota, silenziosa. E non perché i suoi abitanti non ci fossero, quanto perché apparisse spoglia e fredda.

Non sapeva se Clarke si fosse perpetuamente rinchiusa lì o se invece non ci fosse proprio più tornata; certe notti, quando si fermava a fumare in veranda, se la immaginava ubriaca da qualche parte, come l’aveva vista la prima volta in cui avevano parlato davvero, e una parte di lui – quella che si era buttata a capofitto in qualsiasi cosa stesse nascendo fra di loro – si faceva assalire da un moto di preoccupazione e angoscia, tentandolo quasi a prendere la macchina e ad andare a cercarla.

Ma poi la sua razionalità vinceva ogni volta, ricordandogli che lui non aveva nessun diritto su di lei, rigirando le parole che le aveva detto in quello sgabuzzino, e che ormai si era tirato fuori da tutto quello, non lo riguardava più.

Non poteva, quindi, pretendere di sapere dove fosse o cosa stesse facendo: doveva lasciarle la libertà che lui stesso aveva rivendicato a qualsiasi costo.

Il lato positivo, però, era che, non avendo nulla da fare, fosse riuscito a sistemare gli ultimi scatoloni e a liberare qualsiasi angolo della propria abitazione da ogni segno del recente trasloco.

E infatti stava proprio finendo di fissare una mensola al muro della propria stanza, quando due colpi secchi alla porta lo interruppero.

Continuando il lavoro, parlò: « Avanti. »

La testa di Atom fece capolino da uno spiffero della porta, e il giovane osservò per qualche istante il suo migliore amico.

« Ti stai dando da fare, eh? »

Bellamy si limitò ad una scrollata di spalle.

« Posso entrare? »

Ancora una volta, ricevette solamente un vago cenno del capo.

Il giovane Ward si diresse verso il letto al centro della stanza e si accomodò, studiandosi attorno: l’amico era sempre stato molto devoto al pragmatismo, non aveva mai amato collezionare oggetti o conservare cianfrusaglie, perciò non fu sorpreso dall’arredamento minimalista della sua stanza.

« Che stai facendo? »


« Monto una mensola », rispose l’altro, aggrottando le sopracciglia, « mi pare ovvio. »

« Non mi riferisco a questo. Mi riferisco a questo », indicò la sua figura con un gesto della mano, « tu che te ne stai chiuso in camera tua, sempre silenzioso, col musone, che non esci se non ti trasciniamo noi. »

Il maggiore dei Blake era ben consapevole che il suo comportamento avesse attirato l’attenzione dei suoi due coinquilini, ma non aveva comunque intenzione di parlare di quello che era successo.

In parte, ovviamente, era dovuto al fatto che non sapesse proprio cosa dire.

« Non ho nemmeno più visto Clarke. È per lei? » Atom insistette, più deciso che mai a scoprire la verità e trovare un modo per aiutare il suo migliore amico.

L’altro scattò al sentir pronunciare quel nome, e serrò la mascella.

« Lasciala fuori, lei non c’entra niente. » Si sentiva terribilmente incerto fra il raccontargli tutto o fare finta di niente.

Da una parte sapeva che nulla avrebbe potuto aiutarlo e che non ci fosse soluzione, in fondo era stato lui a fare quella scelta.

Dall’altra, però, sentiva che, se non ne avesse parlato, presto o tardi sarebbe completamente esploso.

« Lo prendo come un sì. Senti, so che non ti piace discutere di queste cose e che probabilmente non potrei fare niente per risolvere la situazione in cui ti trovi, ma almeno posso ascoltarti. Non tenerti tutto dentro. »

L’amico si era sporto in avanti, guidato dalle proprie parole e dal tentativo di coinvolgerlo il più possibile.

Bellamy lo scrutò per un attimo con espressione concentrata, poi la sua maschera di neve si sciolse e alzò gli occhi al cielo, gettandosi di schiena sul letto, accanto all’amico.
 
 
 
*


 
Clarke si svegliò lentamente, percependo come prima cosa il lieve tremore della sua mano sinistra.

Sollevandosi la mascherina dagli occhi assonnati, si accorse che non era una vibrazione qualunque, ma il suo telefono che squillava.

Senza nemmeno guardare chi fosse, premette il tasto di rifiuto chiamata e spense lo smartphone, gettandolo da qualche parte fra le leggere lenzuola.

La bionda ricadde sulla schiena e osservò il soffitto per qualche istante, lasciando vagare lo sguardo sulle mensole piene di fumetti e manga che Monty amava tanto leggere.

Da quando si era praticamente trasferita nel suo garage, aveva iniziato ad apprezzare sinceramente la passione dell’amico per i libri di qualsiasi genere, trovando in loro una compagnia assai più piacevole di determinate persone.

Non appena sentì la porta contigua all’abitazione aprirsi, temette quasi che i coniugi Green fossero tornati in anticipo dalla loro vacanza alle Fiji e si prefigurò nella mente la scena di sua madre che dava di matto scoprendo che, in effetti, non era proprio partita in campeggio con i suoi amici.

« Credevo che non ci fosse imbarazzo per quello che è successo stanotte, non c’era bisogno di spegnere il telefono. » Scherzò Monty, rivelandosi agli occhi blu di lei e reggendo fra le mani un vassoio.

La giovane Griffin si abbandonò ad una lieve risata e si mise a sedere, passandosi una mano fra i ricci disordinati.

Quando l’amico si sedette sulla vecchia poltrona di pelle marrone alla sua sinistra e poggiò il portavivande sul tavolino da caffè fra loro due, Clarke parlò di nuovo: « Oh, Dio, dovrò sposarti. »

Davanti a lei si ergevano due grosse tazze di latte, una caffettiera, due brioche, due coltelli e un’innumerevole quantità di vaschette di plastica contenenti burro e marmellate di vario genere, simili a quelle preconfezionate degli hotel.

« Mettiti in fila, ragazza! »

I due cominciarono a fare colazione in un silenzio gradevole e nessuno dei due parve turbato dalla situazione.

Era questo che, con il tempo, la bionda aveva imparato ad apprezzare del ragazzo: non importava quanto la situazione fosse strana, ambigua o surreale, lui avrebbe supportato i suoi amici senza porre la più piccola domanda, senza crearsi il minimo dubbio.

« Non posso esprimere quanto ti sia grata per quello che stai facendo per me. So che è difficile, lo so, e mi dispiace così tanto. Odio mentire a Jasper, odio tutta questa situazione, ma non posso… » Azzardò una pausa, poi prese un respiro e continuò: « Non posso tornare a casa, ci sono tante cose che… »

« Clarke », la riprese l’altro con tono calmo e pacifico, « non devi dirmelo, se non vuoi. Non mi sei di alcun fastidio, anzi, tutt’altro. È come vivere in un episodio di Breaking Bad. »

Di nuovo, la giovane rise e l’atmosfera sembrò risollevarsi.

Una volta che ebbero finito di mangiare, l’unico figlio di casa Green riprese il vassoio fra le mani e si avviò verso la porta, voltandosi quando stava per andarsene: « Hai intenzione di uscire, oggi? »

Un’altra cosa che lei stimava era la sua ottima capacità di implicare significati reconditi in semplici frasi. Quello che le stava chiedendo ora, ad esempio, poteva con molta certezza essere interpretato come: Hai intenzione di parlare con Jazz, oggi?

« Credo di sì. » Rispose lei con un sospiro affranto e arreso.
 
 
 
 
*


 
« Sei un idiota. »

Atom, gli avambracci appoggiati alle cosce e la schiena piegata in avanti, gettò un’occhiataccia alla sua destra, dove il suo migliore amico se ne stava sdraiato e fissava fuori dalla finestra.

« Cos’altro avrei dovuto fare? » Rispose sulle difensive lui, sollevandosi sui gomiti e assumendo un’espressione confusa.

Gli aveva raccontato ciò che era successo con Clarke – omettendo, ovviamente, il motivo per cui lei gli avesse chiesto di aiutarla. Sentiva che, se l’avesse detto, sarebbe stato un po’ come tradirla – e l’aveva fatto tutto d’un fiato, iniziando dal principio, da come il suo modo di vederla si fosse vorticosamente rovesciato dopo la notte in cui si erano sfogati l’uno con l’altra e si erano raccontati i segreti più oscuri delle loro vite, finendo poi con il loro ultimo incontro, con le ultime parole che lei gli aveva rivolto.

« Il fatto che ti abbia mandato a farti fottere mi piace più del dovuto, devo ammetterlo, però… »

« Ehi! Tu dovresti stare dalla mia parte! »

« Però », Atom calcò nuovamente su quella parola, lanciandogli nuovamente uno sguardo di sbieco, « hai fatto quello che sentivi. Se non volevi aiutarla, non ti poteva costringere. »

« Ma io volevo aiutarla… » Commentò Bellamy a bassa voce, perdendosi nei propri pensieri.

« Cosa? »

« Io volevo aiutarla. » Ripeté con più fermezza, riportando lo sguardo in quello dell’amico.

« E allora cosa te lo ha impedito? » Il giovane Ward pareva sinceramente e profondamente desideroso di capire il motivo per cui avesse agito in quel modo, e ciò sorprese molto positivamente il maggiore dei Blake, che ormai si era scordato cosa significasse avere un amico pronto a risolvere insieme a lui i suoi problemi.

« È nei guai seri, e se qualcosa andasse storto… Non posso permettermi di perdere il lavoro, o di mettere Octavia in una brutta situazione. Lei ha bisogno di stabilità e certezze, non posso correre dei rischi. »

« E il problema è solamente questo? Non pensi a tutte le volte in cui hai avuto a che fare con gli arresti alla Narcotici, con i pericoli del tuo mestiere? Risolvere i guai seri è il tuo lavoro, amico.
Sai cosa penso? Penso che hai conosciuto questa ragazza e hai provato subito qualcosa, ma non hai il coraggio di affrontarlo e quindi ti stai tirando indietro, perché hai paura che per lei non sia lo stesso. E penso che stai usando questa scusa e ti stai mentendo, perché in realtà sai che per lei è lo stesso. »

Il moro si mise a sedere con un’espressione di timore ed esitazione sul volto, mentre l’amico annuiva e lo guardava in attesa che metabolizzasse quello che gli aveva appena detto.

Rimasero in silenzio per alcuni istanti, ognuno perso nelle proprie riflessioni, poi Bellamy si abbandonò ad una risata bassa, quasi isterica, ed Atom capì di aver centrato in pieno.
 
*



 
Jasper non aveva la minima idea di come superare la mancanza profonda e desolante che gli provocava il solo pensiero di Clarke.

Dall’ultima volta in cui si era diretto a casa sua col sincero proposito di mettere fine alla farsa che era divenuto il loro rapporto – ed effettivamente ci era riuscito – niente aveva avuto più senso.

Inizialmente si era detto che quella era la cosa migliore da fare, che forse lui non era mai stato abbastanza e non sarebbe mai riuscito a salvarla dai suoi demoni interiori, e ci aveva perfino creduto.

Ora, invece, che cercava di abituarsi a una vita del tutto nuova, una vita senza di lei, si sentiva come uno scherzo della natura: perennemente insoddisfatto, costantemente scontento.

 Non importava in che modo andassero le cose, la sua fine sarebbe sempre stata quella di soffrire.

Che lei gli fosse vicina e gli offrisse abbracci che non gli sarebbero mai stati sufficienti, o che fosse lontana e non avesse più la possibilità di parlarle, tutta quella situazione l’avrebbe condotto sempre e solo a un male che non avrebbe potuto sconfiggere.

Si sentiva come un animale braccato, sempre in fuga, nascosto nell’ombra, e non importava quale direzione prendesse, non importava quale sentiero scegliesse, non poteva fermarsi, perché in ogni caso la sua corsa sarebbe finita nel peggiore dei dolori.

Jasper si sentiva inesorabilmente perso, senza una rotta o un obiettivo da perseguire.

A volte la sua mente oscillava con pigrizia verso il pensiero che Clarke potesse essere la soluzione; altre volte, invece, si convinceva profondamente che fosse solamente il problema, trascinandolo in un baratro in cui la colpa finiva inesorabilmente per essere la propria.

Forse non era colpa sua se si era innamorato di lei, ma erano di certo colpa sua l’ostinazione e la sicurezza con cui aveva sperato che un giorno, magicamente, la sua migliore amica si accorgesse della sua più totale devozione.

Dopotutto, lui aveva preferito continuare a illudersi che gli abbracci e le parole significassero più del dovuto. Era stata una sua decisione quella di incaparbirsi e credere di poter essere di più.

L’aveva capito troppo tardi: ad un certo punto, continuare a soffrire diventa una scelta.

E più i suoi sentimenti si accumulavano al centro del petto, più un sentimento di straniamento e angoscia lo assaliva.

Voleva stare con qualcuno e smettere di pensare, ma, allo stesso tempo, credeva che nessuno fosse in grado di capirlo.

La verità, forse, era che aveva semplicemente bisogno del suo migliore amico.

Peccato che, da qualche giorno a quella parte, Monty si comportasse in modo piuttosto ambiguo. Ad esempio quando, due sere prima, Jasper gli aveva chiesto di uscire, ma l’amico aveva risposto che non si sentiva granché bene e che sarebbe rimasto a casa.

E sarebbe stato tutto normale, se poi non l’avesse visto al club prendere del cibo a portar via e affrettarsi verso l’uscita.

Fermandosi un attimo a pensare, il giovane Jordan arrivò ad una conclusione: praticamente quasi tutti i loro amici erano fuori città e i coniugi Green erano partiti per le Fiji, quindi c’era un’unica persona con cui Monty avrebbe potuto trascorrere la serata.

L’unica persona con cui Jasper non poteva parlare.

Dopo quello spiacevole evento, il ragazzo aveva riflettuto attentamente sul comportamento che avrebbe dovuto adottare, ed era arrivato alla conclusione che no, non avrebbe più fatto finta di niente.

Quel pomeriggio, perciò, si stava avviando verso la casa del suo migliore amico con l’intenzione di dirgli tutto quello che aveva visto e di rivelargli i suoi timori. Poi, solo dopo, avrebbe pensato alle conseguenze.

Una volta arrivato davanti alla facciata a due piani che ormai conosceva come se fosse la propria, si fermò solo per qualche istante ad osservarla: il prato ben curato, la cassetta della posta dipinta a mano, le persiane blu e le grandi vetrate che illuminavano gli interni nel più funzionale dei modi.

Jasper tirò fuori il proprio mazzo di chiavi e strinse immediatamente tra le dita quella della porta principale dell’abitazione del suo migliore amico. Si conoscevano praticamente da tutta la vita: i loro genitori si erano incontrati in viaggio di nozze in Tunisia e, quando avevano scoperto di vivere entrambi a Los Angeles e di aspettare entrambi un figlio, non avevano potuto fare a meno di scambiarsi i numeri di telefono e di promettersi di far incontrare al più presto la loro prole.

Non appena mise piede nella villa silenziosa, il giovane temette di essersi presentato al momento sbagliato.

Scrutò il salone – il primo ambiente in cui ci si ritrovava entrando in casa – ma non notò alcun segno che potesse indicargli o meno la presenza di Monty.

Stava quasi per fare dietrofront ed andarsene quando, sentendo dei rumori, fu insospettito e si diresse verso la cucina. La stanza era divisa dal salotto da un arco di pietra e, per metà, da un muretto che gli arrivava al fianco.

Lo stile era molto rustico, del tutto divergente dall’ordine orientale che ci si sarebbe potuti aspettare dalla famiglia Green.

Gettò uno sguardo alla porta che conduceva al garage, da cui credeva provenissero i suoni, e si guardò attorno, sfiorando con gli occhi ogni angolo di quell’ambiente così familiare.

Immaginò che il ragazzo potesse essere al piano di sopra, forse stava studiando in camera sua per il prossimo esame di farmaceutica, quindi si voltò per raggiungere le scale, situate nella parte est della sala da pranzo rispetto al punto in cui si trovava lui.

Non fu in grado di compiere un altro passo, però, perché percepì la porta alla sua destra aprirsi e una voce ben conosciuta giungergli dolcemente alle orecchie.

« Monty, quello non era assolutamente il rumore del nano da giardino che tuo padre sta dipingen… »

Clarke si interruppe bruscamente, notando chi si ritrovava davanti. I suoi occhi brillarono di stupore e per un attimo le sue labbra si socchiusero, ma, non appena Jasper distolse lo sguardo dal suo con fare seccato, si riprese.

« Jazz… » Sussurrò lei, sembrando per qualche istante la dodicenne di un tempo, quando lui e Monty scoprirono che aveva comprato il suo primo reggiseno.

Il volto dell’amico si trasformò immediatamente in una maschera di imperturbabilità, ma non le sfuggì il movimento della sua mascella che si serrava.

« Che ci fai qui? » Domandò dopo qualche attimo,  voltandole le spalle e appoggiandosi con la mano sinistra al bancone della cucina.

« Jazz », lo richiamò di nuovo, « sono felice di vederti. Ci sono tante cose che devo raccontarti… »

« Facciamo la prossima volta, eh? » Suggerì lui con tono aspro, continuando a darle le spalle. In un altro contesto, quel quadretto sarebbe potuto risultare perfino comico.

Le era mancata così tanto da sentir venire meno il respiro, e ora che se la trovava davanti non riusciva nemmeno a sopportare di vedere il suo volto.

La giovane Griffin non replicò, bensì si limitò a serrare le palpebre per qualche istante e maledirsi mentalmente.

Quando Jasper fece per allontanarsi, lei compì un passo avanti.

« Mi manchi. » Mormorò così piano da pensare di non aver nemmeno pronunciato quelle due parole, ma in qualche modo seppe di essere stata sentita.

L’altro rimase immobile per un paio di secondi, poi, senza voltarsi verso di lei, si diresse nuovamente verso l’uscita. Ancora una volta, un desiderio di scappare via da tutto quello lo investì, e lui lo assecondò.

L’ultima cosa che Jasper vide prima di richiudersi la porta d’ingresso alle spalle fu l’espressione di colpa e dispiacere negli occhi del suo migliore amico, in piedi in cima alle scale.

« Merda! » L’imprecazione di Clarke riecheggiò nella cucina silenziosa, e la bionda fu incredibilmente e paurosamente tentata di prendere a pugni qualsiasi cosa si ritrovasse davanti.

Monty scese i gradini e la raggiunse, posandole lievemente una mano sulla spalla destra.

« Andrà tutto bene, lo conosci. Gli passerà. »

« No! » Continuò lei, il tono di voce più alto del normale, « È tutta colpa mia. L’ho ferito, l’ho trascurato e ora l’ho perso. È tutta colpa mia… »

Ad un tratto tutta la rabbia e la collera che aveva percepito addensarsi dentro di lei si sciolsero, trasformandosi in desolante sofferenza.

Perché non era in grado di comportarsi come un dannato essere umano? Perché non riusciva a capire gli altri, a trovare un minimo di forza dentro di sé per lottare l’intorpidimento delle proprio emozioni?

Cosa doveva fare per riuscire di nuovo a sentire qualcosa?

Prima che l’amico potesse dire qualcos’altro, parlò nuovamente, questa volta con spaventosa calma: « Me ne vado. »

« Sai che non è necessario, puoi rimanere finché i miei non tornano. »

« No, Mon, non posso. Ti sono così grata per quello che hai fatto per me », e, così dicendo, sfiorò delicatamente la mano che ancora stringeva la sua spalla, « ma lui ha bisogno di te. Ha bisogno del suo migliore amico, soprattutto ora che io non sono più in grado di mantenere quel compito. »

« È di te che ha bisogno, Clarke. Solo di te. Va’ da lui. »
 
 
 
*



 
Il cellulare di Bellamy iniziò a squillare mentre lui era sotto la doccia, una, due, tre volte.

Infastidito dall’impellenza con cui l’apparecchio trillava da almeno dieci minuti, si avvolse un asciugamano attorno alla vita e, il più velocemente possibile, si avviò verso la propria scrivania.

Il presentimento che aveva avuto poco prima parve teatralmente realizzarsi quando si accorse che il telefono che squillava era quello di cui usufruiva esclusivamente per il lavoro, un numero che, però, non utilizzava da un mese e mezzo per ovvi motivi.

Senza attendere oltre, afferrò il telefono e rispose.

« Bellamy? Ehi, scusa se ti disturbo, sono Ben. »

Il moro riconobbe subito la voce dall’altra parte del telefono: era un suo conoscente della sezione Crimini Commerciali del Dipartimento, un ragazzo molto sveglio e soprattutto pratico, con cui s’era ritrovato a prendere un caffè ogni tanto.

« Nessun disturbo. Che succede? » Il suo tono non poteva essere definito in altro modo se non diffidente e inquieto. A cosa poteva essere dovuta quella chiamata?

« L’ho fatto solo perché ti conosco e so che sei un bravo ragazzo, nonostante tutto. Si tratta di tua sorella. »



« Un’auto rubata? Seriamente? »

Il maggiore dei Blake lanciò a sua sorella uno sguardo ardente di furia attraverso lo specchietto retrovisore.

Octavia si strinse nelle spalle con espressione turbata e accigliata.

« Non hai niente da dire? Bene. Sai che ti dico io? Che sei schifosamente fortunata. E se non fosse stato un mio amico a beccarti, eh? Se fosse stato qualcun altro? E se fosse stato il Capitano? Non solo hai compromesso te stessa, ma anche il mio lavoro. Sai cosa succede se io perdo il lavoro? Non riusciremo a pagare l’affitto. E sai che succede se non paghiamo l’affitto? La strada. È questo che vuoi? Dimmi, Octavia, è questo che vuoi? »

« Perché non la smetti di fare l’eroe? Nessuno ti ha chiesto di venirmi a prendere, avresti potuto lasciarmi lì. »

« Sì, certo, avrei potuto lasciarti lì, così saresti potuta finire in prigione. Non provarci nemmeno. »

« Come vuoi. »

Bellamy, troppo furioso per poter guidare con tranquillità, si accostò al lato della strada e tirò il freno a mano con irruenza.

Nell’abitacolo calò un silenzio tombale, tanto potente da fargli fischiare le orecchie. Poi, d’un tratto, il moro colpì il volante con un pugno tanto forte da far trillare il clacson.

« Ti rendi almeno conto di quanto hai rischiato? » Sibilò fra i denti, voltandosi verso il sedile posteriore su cui sedeva la minore dei Blake.

La bruna non rispose, limitandosi a congiungere più forte le braccia al petto e guardare fuori dal finestrino, la mascella serrata e le sopracciglia aggrottate.

« Sei troppo intelligente per stare dietro a quelle persone, Octavia. Quell’idiota del tuo ragazzo ha la mia età, dannazione! »

« Ti reputi molto migliore di loro? » Sputò fuori, spostando lo sguardo ostile verso suo fratello e sfidandolo.

« Sì! » Urlò lui con convinzione, alzando le braccia in aria.

« A quanto mi risulta sei tu che ti sei fatto sospendere per una stupida rissa. Sei tu che non sei stato in grado di controllarti. Vuoi sempre giocare a fare il grande fratellone, eh? Beh, indovina? Sei solo un coglione egoista. »

«L’ho fatto per te! Per proteggerti. Tutto quello che ho sempre fatto è stato per proteggerti, non lo capisci? »

Non c’era più rabbia nei suoi movimenti, solamente profonda amarezza e incontrollabile malinconia. Dov’erano finiti i giorni in cui tutto, fra loro, andava bene?

Bellamy scivolò nuovamente al posto del conducente e appoggiò stancamente la testa al sedile, chiudendo gli occhi e passandosi una mano sul volto sfiancato.

« Non uscirai finché non lo dirò io, chiaro? »

« Cosa? Ho diciannove anni, non puoi… » La più giovane scattò in avanti e cercò invano di protestare, interrotta subito dopo dalla voce profonda del moro.

« Chiaro? »

Lei si limitò a richiudere la bocca rimasta schiusa e a gettarsi un'altra volta contro lo schienale del sedile posteriore.
 
*



 
Due colpi secchi e sicuri contro la porta della propria stanza furono sufficienti a distrarre il giovane Jordan dalla lettura disinteressata e superficiale della termoregolazione fisica dei corpi.

« Ehi, Jasper, ci sei? » Quella voce. Non c’era modo che non riconoscesse quella voce.

« No. » Fu la sua breve risposta.

« Posso entrare? »

Clarke attese per qualche attimo, ma lui non parlò di nuovo, quindi entrò lo stesso.
La sua piccola e luminosa figura scivolò nella stanza silenziosamente, e subito i suoi occhi blu trovarono quelli del suo migliore amico.

« Mi ha aperto tua madre. Interrompo qualcosa? »

« Solo il mio attento e appassionato studio. » Replicò lui senza la minima inflessione nella voce.

« Posso sedermi? »

« Non sei mai stata così educata, nemmeno quando sei venuta da me e Monty per dirci che eravamo degli sfigati a non andare al ballo del terzo anno di liceo. Ti prego, non esserlo ora. » Il sarcasmo e l’acidità nella sua voce erano quasi palpabili nell’aria, ma la bionda decise di non prestargli troppa attenzione.

Invece, accennò un lieve sorriso e si strinse nelle spalle, colpevole, dirigendosi poi verso il letto su cui se ne stava sdraiato lui.

« Adesso voglio che mi ascolti attentamente. » Iniziò con sicurezza, la schiena dritta e lo sguardo deciso.

Sapeva che quella sarebbe stata la sua possibilità più consistente e concreta: se non fosse riuscita ad ottenere il suo perdono in quel momento, le cose si sarebbero solo complicate.

« Mi dispiace. Sono sinceramente e profondamente dispiaciuta. Il mio comportamento non ha scusanti, non ho giustificazioni. Hai ragione: non ti ho cercato, non mi sono interessata ai tuoi problemi, e di questo sono pentita. La colpa è solamente mia. Ma… », l’esitazione, in quel momento, si fece effettivamente sentire, « tu sei il mio migliore amico, sei il mio punto di riferimento, e non posso accettare di continuare senza di te. Quindi ti prego, perdonami… »

Jasper, che si era limitato ad ascoltarla attentamente, non sarebbe riuscito ad esprimere a parole il modo in cui si sentiva in quel momento.

Una parte di lui, quella che era intimamente consapevole del male che lei gli aveva inavvertitamente inflitto, lo mise in guardia, gli urlò di non cedere. Quella stessa parte sapeva che, prima o poi, Clarke lo avrebbe ferito di nuovo.

E la cosa peggiore era rendersi conto della sua inconsapevolezza, sapere che lei aveva il pieno potere di ferirlo e farlo sanguinare senza nemmeno accorgersene.

Un’altra parte, però, quella che era sempre stata innamorata di lei fin dal primo giorno in cui l’aveva vista, gli suggeriva dolcemente di annuire, semplicemente annuire e allargare le braccia, stringerla e fingere che tutto sarebbe andato bene.

Cosa avrebbe dovuto fare? Pensava che il loro rapporto fosse giunto al termine, ma ora che se la ritrovava davanti non poteva convincersene del tutto.

È questo il guaio dell’amore: ogni litigio sembra la fine e ogni sorriso sembra l’inizio. Peccato che spesso nessuna delle due sia corretta.

I secondi continuavano a passare e lo sguardo impaziente della giovane Griffin lo scrutava attentamente, perciò Jasper decise di arrendersi. Sì, smetteva di lottare e deponeva le armi.

« Vieni qui. » Mormorò.

Clarke, un sorriso dipinto sulle labbra perfette – un vero sorriso, non solo denti –, gattonò verso di lui e posò lievemente la testa sul suo petto, percependo le sue braccia avvolgersi attorno a lei e stringerla delicatamente.

« Grazie. » Bisbigliò quasi silenziosamente contro il tessuto della sua t-shirt.

« Non c’è di che. »


 
 
 
 
Il buio avvolgeva strade e angoli di case quando Clarke decise di lasciare l’appartamento del suo migliore amico.

Non avevano parlato molto, praticamente non avevano discusso di niente di quello che li aveva portati a smettere di rivolgersi la parola per quasi un mese, si erano semplicemente limitati a starsene stretti l’uno all’altra a guardare con disinteresse inutili programmi alla televisione.

Si sentiva finalmente più leggera, come se fosse stata liberata da tonnellate di cemento appese alle caviglie, e questo le aveva dato la sicurezza sufficiente per passare a prendere le proprie cose da Monty e decidere di tornare a casa.

Quando imboccò, a piedi, la via che conosceva a memoria, non poté trattenersi dal pensare a Bellamy.

Dal momento in cui lui si era categoricamente rifiutato di aiutarla, non aveva più voluto vederlo: in parte era dovuto alla vergogna che provava per avergli rivelato la sua debolezza più grande,  in parte, invece, era perché aveva creduto di poter essere davvero capita, di aver trovato qualcuno che le assomigliasse.

Con ogni sfortunata probabilità, si era completamente sbagliata.

Dopo quella sera in macchina, quindi, era stato facile voler scappare, scomparire: ci meditava su già da tempo, con Wells e sua madre e tutto quello che succedeva, ma sapere di esser considerata solo una pazza visionaria dalla prima persona a cui dopo molto tempo avesse concesso anche solo il beneficio del dubbio, beh, quello era stato il suo trampolino di lancio.

Era stato facile trasferirsi temporaneamente da Monty e accamparsi nel suo garage, sfuggire da tutti quei problemi e fare semplicemente finta che non esistessero.

Camminando nella più totale quiete notturna – era talmente stanca che non aveva nemmeno voglia di prendere le cuffiette dalla tasca posteriore dello zaino che portava sulle spalle – si guardò attorno e lasciò che tutte le preoccupazioni che le vorticavano in testa sparissero.

Le strade di notte sembrano delle grosse stanze illuminate, pensò Clarke. Ognuna con un proprio angolo personale, come delle gigantesche scatole di luce artificiale ed un soffitto infinito e stellato. Non c’è nulla di più intimo di questi corridoi solitari.

In un altro periodo dell’anno, non avrebbe mai pensato di poter camminare da sola a quell’ora per le strade della Città che Non Dorme Mai, ma durante quelle settimane, invece, era ben consapevole del fatto che il suo quartiere si fosse svuotato, che tutti fossero partiti per le loro incantevoli vacanze da quindici giorni in Egitto o aree tropicali che fossero, quindi si sentiva abbastanza sicura.





Vide la figura seduta sul proprio portico ancora prima di raggiungere la facciata della casa.

La luce era spenta e l’illuminazione del lampione a due metri da lei non era sufficiente, perciò non fu in grado di riconoscere di chi si trattasse. Poteva essere Wells, ma perché starsene al buio?

In un improvviso moto di adrenalina e inaspettato istinto di sopravvivenza, strinse con fermezza la chiave di casa, che teneva stretta nel pugno ficcato nella tasca sinistra della felpa.

Certo, non era un oggetto contundente o potenzialmente pericoloso, ma stringere quel pezzo di ferro le infuse una certa sicurezza.

Con passo lento e vigile si avvicinò di più, scrutando con gli occhi l’oscurità attorno alla figura.

Quando la percepì alzare il capo nella sua direzione, pensò bene di bloccarsi sul posto e mantenere una discutibile distanza.

« Ho picchiato un tipo. » La voce di Bellamy le giunse roca e bassa, e Clarke non poté trattenersi dall’abbandonarsi a un lieve sospiro. Lasciò cadere lo zaino ai suoi piedi.

« Che? »

« Ho picchiato un tipo », ripeté lui, « ecco perché sono stata sospeso. »

Trascorse un lunghissimo minuto prima che la risposta di lei si fece sentire: « E io che ti facevo un pacifista. »

Il sarcasmo nel suo tono non fu smorzato da alcun sorriso o segno di incoraggiamento, ma il maggiore dei Blake pensò di meritarselo.

La bionda se ne stava ancora in piedi, immobile, davanti ai tre scalini della sua veranda, mentre l’altro la osservava seduto sul divanetto in vimini con i cuscini bordeaux scuro. Chi diavolo mette dei cuscini su un divanetto da esterni?

« Non ti ho più vista. »

La giovane Griffin fece qualche passo avanti e si sedette sul secondo gradino, poggiando la schiena contro il corrimano in legno compatto e allungando le gambe davanti a sé; riusciva ad intravedere la figura di lui con la coda dell’occhio.

« Sì, beh, ho avuto da fare. » Indicò con un cenno del capo il sacco ai propri piedi.

Bellamy non rispose, e Clarke non volle voltarsi a guardarlo. Rimasero in totale silenzio per alcuni minuti, poi un dubbio si fece largo nei pensieri della giovane, che finalmente spostò lo sguardo verso di lui: « Come facevi a sapere che sarei tornata oggi? »

« Ho incontrato tua madre, prima. »

« E ti ha lasciato rimanere qui fuori tutto questo tempo? »

« Ho aspettato che andassero a dormire. » Confessò lui, come se fosse la cosa più normale del mondo.

« Eppure l’ultima volta che ci siamo visti non sembravi così desideroso di parlarmi. » L’oscura ironia che ogni sua parola trasmetteva poteva essere tagliata con un coltello, per quanto fosse palpabile.

« È per questo che sono qui, in effetti. » Il moro si alzò e, per un riflesso totalmente e assolutamente incondizionato, lei fece lo stesso.

Ora che lo guardava da uno scalino più in basso, sembrava ancora più alto, e Clarke dovette piegare il collo per riuscire a guardarlo negli occhi.

« Senti, non devi sentirti in colpa o cose del genere. Mi dispiace per averti preso a parolacce, ma è tutto a posto. Nessun imbarazzo, no? » Richiamò quello che le aveva detto lui riguardo il loro… incidente, per così dire.

« Beh, ecco… »

« Chiudiamola qui. » Suggerì lei con un sorriso che non coinvolse il resto del volto.

Senza attendere risposta, si voltò e si sporse per afferrare lo zaino, poi superò l’unico gradino che le rimaneva e sorpassò il maggiore dei Blake, che in quello scambio di pochi secondi non era riuscito a proferire parola.

Stava quasi per raggiungere la porta d’ingresso quando sentì i suoi passi pesanti e percepì la sua grande mano afferrarle l’avambraccio.

Attese un’infinitesimale frazione di secondo prima di girarsi, ma alla fine decise di affrontarlo.

Peccato che il suo movimento fu troppo brusco, e si ritrovò improvvisamente immobilizzata: il volto di Bellamy, praticamente del tutto oscurato dalla mancanza di luce, era più vicino di quanto fosse mai stato, e Clarke sussultò per la sorpresa.

Lo guardò da sotto le ciglia per qualche altro momento, mentre lui pareva tenere gli occhi socchiusi.

« Non voglio chiuderla qui. » Il suo sussurro fu così basso da poter essere confuso con la lieve brezza estiva che li sfiorava.

Quel momento parve congelarsi nello spazio e nel tempo, conducendoli in un luogo senza pareti, senza un verso, una direzione, una luce da guardare, che girava così furiosamente da sembrare totalmente immobile.

Bellamy continuò ad aggrapparsi piano al suo braccio finché lei non distolse lo sguardo dal suo, e in un attimo tre passi secchi li dividevano.

« Buonanotte, Principessa. » Mormorò velocemente fra i denti, affondando i pugni nelle tasche dei jeans e dandole le spalle, camminando velocemente verso la propria abitazione.

Una volta che fu sparito, lontano dal suo sguardo, Clarke parve nuovamente riacquistare la capacità di respirare.




 

Curiosità:

# «  Vuoi sempre giocare a fare il grande fratellone, eh? Beh, indovina? Sei solo un coglione egoista. » Queste sono le esatte parole che, nel tf, Octavia dice a Bellamy durante una loro lite. Trovo molto divertente riutilizzare e riadattare frasi che vengono pronunciate nella serie. E poi, diciamocelo, in quest'occasione ci stavano proprio bene!






 
 
  
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