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Autore: Callie_Stephanides    23/08/2014    15 recensioni
[Kaijū!AU] Dopo la morte dell’amico e copilota Bucky, Steve Rogers ha abbandonato la divisione S.H.I.E.L.D. e il progetto Jaeger. Quando tuttavia la minaccia dei Kaijū, creature mostruose vomitate dalla faglia atlantica, insidia la baia di New York, il colonnello Fury non esita a richiamarlo: l’umanità decimata ha infatti bisogno di qualcuno che la protegga.
O che la vendichi.
(…) “Non posso guidare uno Jaeger senza Bucky.”
“No, non può farlo senza rabbia. Cosa pensa della vendetta, Capitano?”
“È solo un altro modo di chiamare la sconfitta.”
“Il colonnello Fury ritiene piuttosto che sia la giustizia, se la incoraggi con mano pesante. Il tempo delle carezze è finito. Fuggire è un lusso che non possiamo concederci.” (…)
[ATTENZIONE! Il contesto narrativo è mutuato dal film Pacific Rim, ma la collocazione geografica delle vicende e i protagonisti appartengono al MCU]
Genere: Azione, Guerra, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nick Fury, Steve Rogers/Captain America, Thor, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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This is the end of the world.
So where do you want to die?
Here or in a Jaeger?
Pacific Rim

IV.
Tramonto e polvere

Il prezzo dell’ambizione è la solitudine, ma, come sempre accade quando credi di aver imboccato l’unica via percorribile, te ne accorgi troppo tardi.
In fondo alla strada trovi solo tramonto e polvere: la fine delle illusioni, le briciole dei sogni che nemmeno sapevi di avere.
Per Bruce Banner la vita stessa è un esercizio di nostalgia: l’ultimo sguardo di Betty, mentre Harlem si trasformava in una nova incandescente. Da allora ha smesso di sentirsi un uomo e ha tumulato le ambizioni dello scienziato accanto all’unica donna che abbia mai amato; la sola per cui abbia scelto di resistere, inseguendo un impossibile riscatto.
 
“Non ci conosciamo ancora, dottor Banner, ma la speranza è che i Kaijū ce ne lascino il tempo.”
 
A trovarlo è stata Natasha Romanova, su ordine del colonnello Fury: occhi gelidi, bocca da puttana, la presa decisa di chi non volta le spalle alla guerra, ma le sputa sul muso.
A Calcutta la notte stagnava; lungo gli zigomi della Romanova, il sudore lacrimava ragnatele traslucide. Bruce ha sollevato i palmi – mani segnate dalla quotidiana fatica di vivere e scavarsi una nicchia di dimenticanza.
 
“I Kaijū non sono più un mio affare.”
 
Natasha ha mirato al cuore e sussurrato ‘pum’.
 
“I Kaijū sono un affare di tutti. A maggior ragione di chi ha un conto in sospeso con loro. Non crede, dottore?”
“Io non credo più a niente.”
 
La pressione della canna contro il suo petto è cresciuta d’intensità. Poteva immaginarne l’unico occhio, il buco nero della bocca feroce, il calore del fuoco che avrebbe vomitato se solo gliene avesse offerta l’opportunità – e lo voleva? Oh, sì: lo voleva.
 
“È per questo che abbiamo bisogno di lei: se ha già sepolto Dio, non avrà senz’altro problemi a bestemmiarlo.”
 
L’ha guardata. Natasha ha socchiuso le palpebre e sorriso. “Non mi costringa a usare le cattive, dottore: sto tentando di smettere.”
 
Avrebbe dovuto dirle che, al contrario, cercava una scusa per ricominciare, ma ha preferito che in sua vece parlasse il silenzio. Poi, i fatti.
Allo S.H.I.E.L.D., d’altra parte, l’eloquenza appartiene prima di tutto all’interlinea.

*

“Come siamo contemplativi, oggi! Cos’è? Di nuovo il fuoco amico dei ricordi?”
Tony gli offre una busta di mirtilli liofilizzati, mentre sfoglia la schermata olografica su cui finge di lavorare da almeno mezzora.
È uno strano rapporto, il loro; un incastro di personalità che l’esperienza vorrebbe incompatibili ma che, a dispetto d’ogni evidenza, si completano in modo altrettanto armonico dei ponti neuronali alla guida degli Jaeger. Betty l’avrebbe chiamata ‘affinità elettiva’.
Betty è il prezzo che ha pagato per non aver subito compreso il valore del lavoro di squadra: nessuno si salva da solo e da solo non salvi nessuno.
 
“L’estrazione è andata a buon fine, vedo.”
Bruce si massaggia la radice del naso e annuisce. “L’ho passato a Selvig e al team dei fisici per una valutazione preliminare.”
“Di cui, però, non avremmo davvero bisogno. Dai tuoi appunti, direi che tu abbia un’idea piuttosto precisa della natura dell’uovo.”
“Selvig ha proposto tesseract.”
Tesseract… Niente male per un crucco: li facevo meno creativi.”
“È svedese.”
“Cambia poco… Sicuro di non volere un mirtillo? Il retrogusto di copertone bruciato si avverte appena.”
“Non sei granché come imbonitore.”
Tony inghiotte una manciata di sferette bluastre senza allontanare gli occhi dallo schermo.
“Sembra… Un minireattore? Una dinamo organica?”
“Dato che un cubo di quelle dimensioni potrebbe polverizzare Canada e Stati Uniti, direi che mini sia eufemistico. E ottimista.”
“A me interessa il resto. Se queste scatolette sono il cuore motore dei Kaijū, i nostri amici mostri suggeriscono un piano di devastazione mille volte più efficace di quello stimato da Pierce.”
“Sono armi organiche.”
“… Letali, rompiscatole, imprevedibili e, soprattutto, artificiali.”
“Al pari dei nostri rimedi.”
“E tanto ci conduce a una seconda osservazione, rassicurante quanto l’occhio buono del Colonnello: chi diavolo li ha costruiti?”
“Dovremmo interrogarci anche sugli scopi.”
Tony appallottola l’involucro dello snack e tenta un canestro da tre punti. “Tu, forse, hai ancora da parte un po’ d’ingenuità e preferisci usare il punto interrogativo. Io, no. È evidente cosa vogliano gli alieni timidoni.”
 
“Farci il culo. Senza vaselina.”
 
Bruce volge lo sguardo alla porta del laboratorio, dove Clint Barton se ne sta immobile, le braccia strette al petto e lo sguardo attento che gli è valso il nome di battaglia di Hawkeye.
 
“Di sicuro, però, non sono il tipo che si mette a squadra.”
Tony sogghigna. “Con quella tutina? Eppure avrei scommesso…”
“Molto divertente, mister vortice-di-battute-Stark. Quasi quasi me ne torno all’hangar: di sicuro si ride di più.”
 
Bruce sbuffa, ma la sua è un’irritazione recitata, più che vissuta; il fastidio che puoi concederti finché la vita è bella e ne possiedi una.
Il peso del fallimento lo perseguita ancora, quando chiude gli occhi e si ritrova imprigionato nel ventre della bestia che ha costruito, voluto, armato e poi abbandonato nel mondo senza immaginare che avrebbe calpestato proprio quanto desiderava difendere.
Pensa a tutte le volte in cui, nel silenzio di una tenda o di un ricovero di fortuna, ha fatto ruotare il tamburo e leccato il metallo di una canna spinta in gola.
Pensa agli echi che rendevano assordante quel niente: le urla, le esplosioni, le preghiere.
Pensa che la vita è l’opposto: una seccante conversazione telefonica che ti salva dalla monotona accusa del segnale di linea.
La tua coscienza.
 
“Ti perdi di nuovo, dottore? Non avverti il brivido delle ultime dal fronte interno?”
 
Bruce scuote il capo. Tony rotea gli occhi, teatrale come solo un baro consumato che rinunci alla maschera per concedersi il calore dell’uomo – dell’amico.
“Coraggio: il soldatino d’America torna in campo. Vuoi davvero mancare all’affascinante balletto delle simulazioni di sincronia?”
“Cala, Stark: si prendono un sacco di legnate,” borbotta Barton, che li precede di un paio di passi.
“Secondo te, Ladyhawke (1), per quale altra ragione dovrei adorarle?”

*
V.
La famiglia prima di tutto

La sconfitta è uno stato mentale, poiché la retta della vita contiene tali e tanti punti che solo un pavido miope sceglierebbe il più disgraziato per definirsi. L’esistenza, in fondo, è un’addizione il cui risultato è certo solo quando smette di avere un qualunque significato: altri tireranno le somme per te, ti assegneranno un ruolo, un’etichetta, un numero.
L’essenziale – ricorda – è non arrendersi alla mediocrità dello zero.
 
Loki strizza gli occhi. La stanza non smette di girare comunque. Le benzodiazepine gli impastano la bocca e trasformano ogni risveglio in una resurrezione.
Solleva le braccia. Il reticolo bluastro delle vene è il tatuaggio che urla la sua diversità.
Sangue del mio sangue: ecco cosa si dice di un figlio.
Ecco cosa trasforma un orfano in un corpo estraneo.
 
Odin Borrson non è mai stato un padre affettuoso, nemmeno con Thor. Come chiunque sia arrivato in vetta alla piramide alimentare mordendo e scuoiandosi le dita, sembrava considerare le carezze un’impostura velenosa.
La vita è una guerra: un motto buono per tutte le occasioni. Un motto che amava ripetere soprattutto a lui.
 
Sempre con un libro in mano! Quando i Kaijū avranno conquistato le terre emerse, in che modo conti di fermarli? Declamando poesie?
 
Per Odin c’era l’atomica o c’erano i versi; i muscoli o la musica. Che i libri contenessero anche (soprattutto) numeri e formule e combinazioni molecolari in grado di neutralizzare l’invasore, pareva sfuggirgli del tutto, come l’unico talento evidente di un ragazzetto solitario, schivo. Invisibile. A quei tempi si considerava il figlio mal riuscito, senza immaginare cosa tradisse davvero il velato disprezzo del vecchio.
Non era roba sua.
Non era niente.
 
Strofina le palpebre arrossate. Roipnol, Halcion, Dalmadorm. E Tavor, Lexotan, Noan: la chimica lo spegne per intervalli ridicoli, regalandogli la tregua di un buio bituminoso, senza sogni.
Prima era peggio, tuttavia: prima la memoria lo stringeva alla gola come chiudeva gli occhi – e premeva, premeva, premeva al punto che avrebbe preferito non riaprirli mai più.
 
T’invitano a inseguire la tua identità. Ti suggeriscono che non c’è vergogna nell’essere solo se stessi. Non ti dicono mai, però, che il ‘se stesso’ non rappresenta un universo di possibilità, ma un recinto: o entri o sei condannato, poiché esiste un modo giusto d’essere quel che si è e un modo sbagliato.
Loki non ha dubbi: è sempre vissuto alla periferia dell’Impero; nel serraglio degli eroi, nessuno gli avrebbe ceduto il posto. Vorrebbe dire che non gliene importa, ma sarebbe una menzogna puerile: per quanto storto possa essere il tuo io, non puoi vivere senza l’approvazione del dio che ti sei imposto.
 
Odin lo atterriva.
Thor lo accettava.
 
Amarlo è stato un corollario, non una scelta.
Amarlo ha definito Loki più del nome che ha rifiutato.
 
 
Aperto. Chiuso.
Aperto. Chiuso.
Per essere uno che ha quasi perso un braccio tra le fauci di un Kaijū, è guarito alla perfezione. Il suo corpo ha digerito, riparato, dimenticato; il cervello, no: è quasi la pinza che l’ha strappato alla cellula di comando rovisti ancora tra i lobi.
 
Zick zack. Zick zack.
 
Brandelli di Thor si spengono come lucciole esauste; con loro, però, se ne va anche il fratello che è stato per venticinque anni di menzogne.
 
Torna a casa, starai bene, dice l’idiota.
Sei tu la mia casa, potrebbe urlargli, ma cambierebbe qualcosa? No. Thor gliel’ha letto in testa e finge di non aver riconosciuto la sua voce. Magari crede davvero all’illusione di un attimo e non alla scommessa di una vita.
È per lui che è diventato un pilota di Jaeger.
È a causa sua, se non è più niente – e l’amore e l’odio si confondono al punto che ogni drift finisce nella buca del coniglio.
Il buco nero dei desideri inconfessabili.

*

Il giorno in cui ha presentato la propria candidatura per Mjolnir 616 il più sorpreso era proprio suo fratello.
 
“Questo non è un gioco, Loki. Non è come quando eravamo bambini. Non puoi starmi dietro e pensare che…”
“Non ho alcuna intenzione di camminare alle tue spalle. E anche tu: preoccupati di tenere il mio passo.”
 
Era palese sin d’allora, ma per comprendere – comprenderlo – Thor avrebbe dovuto possedere le sole qualità di cui è sprovvisto: sensibilità e immaginazione.
Se fosse stato un po’ più attento, non gli avrebbe domandato come, ma perché.
 
Perché hai imparato ogni mia mossa, memorizzato ogni mia debolezza, contato ogni mio respiro sino a trasformarti in uno specchio?
 
Davanti allo sguardo incredulo del team dei selezionatori, Loki e Thor Odinson non sono riusciti a colpirsi nemmeno una volta, tanto l’affondo dell’uno incontrava naturalmente la difesa dell’altro.
Novantasette, forse novantotto per cento. Non abbiamo mai registrato un coefficiente così alto, è stato il verdetto – e poi applausi, congratulazioni, un circo ipocrita di cui Loki avrebbe fatto volentieri a meno, perché l’approvazione del mondo non valeva comunque quegli occhi e quella stretta.
Sono così fiero di te, ha sussurrato Thor al suo orecchio. Non avrebbe dovuto farlo: gli ha sciolto il cuore e indurito il desiderio tra le cosce.
Per quanto abbondante fosse la tuta che indossava, ha nascosto appena la sua erezione. Per la sua vergogna, però, restava troppo stretta: il collare di uno schiavo.
Vinto.

*
VI.
Io non ho paura

“Tutte le volte in cui lo guardo, mi chiedo se Dio abbia usato un solo stampo o non l’abbia piuttosto tirato su pezzo per pezzo.”
Jane tenta uno sguardo minaccioso, ma Darcy, per citarla, vive a pelo di gattino. La prende morbida, a suo dire, perché, a non tirare mai le marce, imballi il motore e non arrivi da nessuna parte.
Jane si domanda talora chi sia l’adulta, tra loro, se una ragazzina di vent’anni pare aver colto dell’esistenza profondità che non ha mai esplorato. A mancarle, soprattutto, è la leggerezza d’essere e basta, senza inutili timori.
“Non ti stanchi mai di fare osservazioni poco opportune?”
Darcy risponde con una linguaccia e agita la mano all’indirizzo di Thor, pronta a reclamarne l’attenzione anche per una scienziata troppo timida, o forse troppo vigliacca per la scommessa di un amore. L’altro, tuttavia, cammina a testa bassa e non si volge a spiarle oltre il vetro com’è ormai consuetudine.
“Maleducato,” borbotta Darcy. “Più passa il tempo, più mi accorgo che ha parecchio in comune con quello spostato del fratello.”
“Non ti consiglio di parlare di Loki in questi termini; di sicuro, non davanti a lui.”
Darcy esala un sospirone sconfitto, poi le offre il fondo di una latta di biscotti.
“Morbosetti i vichinghi, eh? Cos’è? La sindrome di Cip e Ciop (2)?”
Jane sceglie un cuore di zenzero. L’aroma invitante della pasta, unito alla nota più acuta e caratteristica della spezia, tuttavia, non basta ad addolcire i pensieri. “Tu sai cosa accade durante un drift?”
Darcy decapita un orsetto mandorlato. “I pensieri si sincronizzano, no? I piloti diventano uno in due, come i lobi del cervello.”
Il biscotto si disfa lentamente, riempiendole la bocca di nostalgia: rimpianto per i giorni in cui era solo figlia, ragazza, studentessa. Giorni di sole d’esami di noia. Giorni in cui i Kaijū c’erano già, ma non sembravano tanto vicini o un irrimediabile futuro.
“È molto di più: chi comanda lo Jaeger, condivide tutto con il compagno. Non esiste intimità, non ci sono segreti. Come credi che possa sentirsi Thor, ora che è appena metà di una squadra?”
Darcy attenta all’integrità dell’ultima bestiola di frolla. “Senza Loki? Se è sveglio come spero, sollevato. Tu che ne dici?”
 
… Dico che hai ragione, ma un po’ di buonsenso non basta a garantire l’equilibrio, tantomeno la felicità.
 
“… Che il professor Selvig ha bisogno del mio prospetto e siamo ancora in alto mare, perciò…”
“La pausa-merenda è finita, chiaro. La prossima volta in cui avrò bisogno di crediti extra, ricordami di chiedere a un politico.”
“E perché?”
“Sotto le scrivanie si lavora meno: lo sanno tutti.”

*

“Thor? Il capitano Steven Rogers.”
La stretta del norvegese è una morsa intimidatoria, ma ha gli occhi buoni, lo sguardo di qualcuno che conosce abbastanza la propria forza da temerla. Il colonnello Fury li osserva in silenzio ed è straordinaria la quantità di dettagli che un solo occhio sembra in grado di registrare.
“Il figlio di Coul mi ha dilettato con la leggenda delle vostre glorie e…”
Steve annaspa. L’agente Coulson, al suo fianco, tossisce imbarazzato. “Thor è un grande estimatore di sir Walter Scott. Ha imparato l’inglese leggendo Shakespeare e Ivanhoe.”
“Si… Si sente,” borbotta. Quella stretta da guerriero, tuttavia, gli piace, come apprezza il sorriso disarmante con cui l’altro incassa l’osservazione e mostra di non curarsene troppo.
“Prima o poi, però, dovrai deciderti a dare un’occhiata ai file che ti ho fatto avere,” dice Fury, mentre li guida attraverso un labirinto di container. “Un po’ di sana commedia americana dal duemila al duemilatrenta. Ma che guardavate in Norvegia?”
Thor si stringe nelle spalle. “Il vallo del fiordo,” replica: e Steve non ha più paura di tentare un nuovo drift.
 
Il luogo deputato alle simulazioni di sincronia è un quadrato d’asfalto delimitato da un cordolo gommato. Ai tempi del suo primo addestramento, quando ancora credeva che la vittoria fosse una certezza e non un’illusione necessaria, la base di Camp Leigh disponeva di almeno cinque palestre e di un vasto parco per le esercitazioni all’aperto. Erano gli anni in cui i Kaijū di categoria due parevano ancora quanto di più pericoloso la faglia potesse vomitare e il progetto Jaeger riceveva il triplo dei fondi destinati alla ricostruzione. Per due ragazzetti di Brooklyn, l’esercito era sicurezza, famiglia, casa. Lo Jaeger, l’identità che la Storia aveva loro negato.
Ora fissa le rovine del sogno con lo sguardo postumo di chi è già stato condannato e si chiede se anche Odinson non provi altrettanto – se anche lui conviva con l’eco di un improvviso silenzio.
Thor si sfila la maglia. Il muso stilizzato di un lupo (3) freme all’altezza del pettorale destro. Un fitto reticolo di cicatrici s’intravede sotto le curve sinuose con cui la bestia veste – divora – la pelle chiara del pilota.
“Un ricordo di Jotunheim,” dice, dopo aver intercettato il suo sguardo. “Ma sono ancora vivo.”
Non dice ‘fortunato’, né lo pensa Steve, perché il drift è molto più di un ponte neuronale: il drift è una promessa per la vita, di quelle che non puoi infrangere senza cadere a pezzi.

*

Il Kaijū del fiordo era un immondo anfibio di categoria tre. Nelle cronache del futuro – se mai ce ne sarà uno – lo ricorderanno con il nome di Raiju (4). L’unico che conti davvero, nondimeno, è quello che gli ha tatuato addosso, maciullandolo.
 
Loki piega il capo sotto il getto del rubinetto. L’acqua gelida è uno schiaffo che accetta quasi con gratitudine, perché lo salva dall’intorpidimento. Sulla pelle corre un brivido che increspa le scaglie di Jörmungandr (5). Il tatuatore ha fatto un buon lavoro: per accorgerti delle cicatrici, devi cercarle. Le spire del Demone (6) drappeggiano la memoria della sconfitta di una sinistra dignità, ma hanno esaurito da mesi la loro funzione di amuleto: Loki ricorda e la sua carne è una faglia sempre aperta.
 
Il Kaijū ha attaccato lo Jaeger dal basso, mirando alle giunture delle gambe. Quando l’hanno colpito al muso, il mostro non ha nemmeno tentato di evitare il colpo, poiché sotto l’esoscheletro spezzato c’era un’altra bocca – quella vera. Quella pericolosa.
 
Trattiene il respiro.
Io non ho paura. Io non ho paura. Io non ho paura.
 
Prima è arrivato il veleno – una miscela di acido solforico e ammoniaca e Dio solo sa cosa – quindi la pinza bivalve: gli ha trapanato la spalla, spezzato l’omero e polverizzato due costole.
La voce di Thor, nella sua testa, è esplosa con il fragore di una granata.
Poi sono sopraggiunte le immagini.
Poi è cominciato l’incubo
 
Abbassa la palpebra inferiore. Sulla sclera lattiginosa, i capillari sono vermetti anemici. Il verde dell’iride si è come scolorito: ha gli occhi di un pazzo e lo sa benissimo. Dubita, tuttavia, d’essere mai stato normale.
 
Che vuol dire che non siamo fratelli?
Secondo te? Laufey pensava comunque di darlo in adozione, dopo che la madre è morta di parto.
Perché non ce l’avete mai detto?
Sarebbe cambiato qualcosa?
 
Sorride. Lo specchio gli restituisce un ghigno feroce.
“Sì, per me sarebbe cambiato tutto, vecchio.”
 
 
Si è svegliato in un letto d’ospedale a Bergen, imbottito di morfina, il braccio sinistro crocefisso da una decina di chiodi e il destro martoriato dagli aghi della fleboclisi. Thor aveva la barba di due giorni e somigliava più che mai a un grosso orso rattoppato.
“Ho usato la leva dei comandi manuali,” ha mormorato – le sue dita erano caldissime. “Schizzava acido come una pompa, ma gliel’ho staccata di netto.”
Gli tremava la voce. Accarezzava la sua mano, senza abbandonarla un istante.
“Mjolnir è ridotto male, ma non è niente d’irreparabile… E anche tu…”
“È colpa tua.”
Tre parole. Tre come quelle che gli ha urlato nel casco.
Io ti amo.
 
Era comunque troppo tardi per tornare indietro.
 
 
La piastrina di metallo è gelida a contatto con la pelle nuda.
 
Loki Odinson.
02/09/2010
(7)
0 rh-
 
Indossa l’identità di uno sconosciuto, ama la persona sbagliata, deve fare la scelta giusta.
Mentire. Prima di tutto a se stesso.
 
Io non ho paura. Io non ho paura. Io non ho paura.
 
Note:
(1) Tony gioca con il soprannome di Clint e cita il popolarissimo film del 1985.
(2) Darcy è americana e ho pensato che riferimenti classici (ai Diòscuri, per intendersi) sarebbero stati del tutto fuori contesto. Ho optato, allora, per gli scoiattoli di Walt Disney.
(3) È Fenrir, il lupo mostruoso della mitologia nordica.
(4) In Pacific Rim, Raiju è il Kaijū di categoria quattro che, al fianco di Slattern e Scunner, protegge la faglia. Tra le sue caratteristiche, la tossicità elevata, la velocità, la natura anfibia e la doppia testa.
(5) Il tatuaggio di Loki rappresenta il serpente che cinge il mondo e avvelenerà Thor nel giorno del Ragnarök.
(6) Jörmungandr vuol dire ‘demone cosmicamente potente’.
(7) La data deve essere letta come nove febbraio – e non due settembre.

   
 
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