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Autore: Izumi V    23/08/2014    4 recensioni
Poteva perfino sentirlo, uno dei tanti cadaveri che aveva seminato lungo la sua strada, strisciare dentro di lui, cercando un varco con unghie marce e dita rattrappite. Il freddo che aveva dentro, che ogni minuto trascorso con Gon spingeva sempre più in profondità, risaliva ora in superficie corazzandolo anche all'esterno. Una porta blindata chiusa a doppia mandata.
[...]
“Gli spargimenti di sangue sono parte di questo mondo, Gon.” gli aveva detto una volta, con un sorriso triste.
Corse più veloce.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gon Freecss, Killua Zaoldyeck
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bene, eccoci qui di nuovo! Anche questa è una seconda “edizione” (passatemi il termine, please), ben diversa dall'originale.
Nel testo ci saranno alcune citazioni: quelle sulla destra in corsivo sono di Illumi, tratte dall'episodio 20 dell'anime (Il Remake del 2011, per chi non lo avesse visto, lo guardi ché spettacolare). Tendenzialmente al centro, sempre in corsivo, ci sono alcune frasi di Gon dall'episodio 37, con annesse le repliche del caro Killu. La citazione finale è invece dell'episodio 85. E ditemi: non è bellissima?
Avendo parlato fin troppo, vi lascio alla lettura, ricordandovi che ogni commento – positivo o negativo – è sempre ben accetto!

 

 

Breath – Born in the Darkness

 

La “vita viva”, essendoci io disabituato,
mi aveva schiacciato a un punto tale
che facevo fatica persino a respirare.
(F. M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo)

 

Nella vita di ognuno le Luci e le Ombre si alternano in un fragile e indispensabile equilibrio. Ma ci sono persone per le quali questo equilibrio è particolarmente difficile da mantenere. Questo accade quando le Ombre sono radicate troppo in profondità per essere semplicemente strappate via da pochi raggi di Luce.
Killua Zaoldyek rientrava in questa categoria.
Lui era sempre vissuto nelle tenebre. Esse erano la sua culla, e per lungo tempo anche la sua casa.

“Tu sei una bambola dell'oscurità priva di passione” gli diceva il suo aniki.

E a lungo lui aveva accettato, ci si era perfino ritrovato: gli piaceva. Man mano su questo principio si era costruito una vita, – o un surrogato di essa, ma d'altronde era tutto ciò che conosceva – un passato e, per quel che ne sapeva, un futuro. Poi nel presente era arrivato lui, Gon. Con quello sguardo dagli occhi scuri che sapeva riflettere l'immensità del cielo e la luce del sole.
Con lui Killua aveva imparato a respirare un'aria diversa, ben differente dall'aria putrida e malsana delle profondità della terra, la stessa che aveva seppellito e seppelliva ancora le vittime sue e della sua cara famiglia. No, l'aria che Killua poteva respirare con Gon era altro: pura, leggera, entrava e usciva dai polmoni rinfrescandogli l'anima. Ripulendola da tutta la merda che la corrodeva.
Ma quello schifo era difficile da eliminare, una buona boccata non può cancellare anni di fetore. E quest'ultimo costituiva il nucleo della sua esistenza: l'odore di un corpo in decomposizione, il profumo del sangue che dalle unghie sale alle narici. Una droga squisita.
Non ci si può liberare del proprio passato: Killua sapeva di essere il suo passato. Se lo trascinava dietro, come una catena che non vuole spezzarsi, come un legame affettivo indissolubile. Quel legame a volte lo soffocava: certi giorni – chi poteva dire quando? – Killua smetteva di respirare, come se gli mancasse proprio il putridume che per tanto (troppo) tempo lo aveva nutrito. Come se la vita che lui si era scelto fosse una negazione troppo forte di ciò che in realtà era.

Gon percepiva l'arrivo delle Ombre a ore di distanza, perchè gli occhi di Killua si oscuravano ben prima che le nubi nascondessero del tutto la Luce. Ormai aveva imparato ad anticipare quei momenti. Ma, per quanto ne fosse diventato esperto, non aveva ancora assistito al peggio: finora era stata questione da poco. L'Oscurità si addensava nel suo cuore, Gon la sentiva e riusciva a ricondurre l'amico a sé. Eppure, già da un pezzo aveva capito che non sarebbe stato sempre così facile.
Quel giorno, entrando in casa (una delle tante tappe nei loro vagabondaggi), percepì immediatamente che qualcosa non andava. Non era una semplice sensazione: lo sentiva nella pelle e nel pesante freddo che improvvisamente gli opprimeva il torace, la testa, il corpo stesso. Aveva fatto solo qualche passo oltre la soglia, eppure era come essere scivolati in un baratro di cui non esisteva il fondo.
L'appartamento, che divideva con l'amico, era immerso nell'oscurità.
Pioveva. Era tutto il giorno che scrosciava, instancabile e infinita, avvolgendo la città in un alone opaco e stanco. A lui di solito la pioggia piaceva, ma quel giorno gli ricordava più una cascata di lacrime. E ora quel gelo, anche dentro casa.
Killua.
Più di tutto, ciò che lo colpì fu la sua assenza. Non solo fisica – era più che sicuro che l'amico non fosse più lì – ma spirituale. Di primo impatto, l'albino poteva sembrare freddo, distaccato, perennemente annoiato, ma meglio di chiunque altro Gon sapeva che non era così: avrebbe riconosciuto la sua aura ovunque, perchè era luminosa, pura, potente come la propria, checchè ne pensassero gli altri. Guardando Killua, tutti vedevano solo uno Zaoldyek. Gon, invece, non riusciva a vedere nient'altro che... Killua. Con occhi puliti, innocenti, lui solo era in grado di riflettere la luce che c'era naturalmente nel ragazzo, e farla uscire allo scoperto. Era proprio questo ciò che li legava tanto indissolubilmente.

Gon, tu sei la Luce”
aveva pensato, una volta, di lui. Ma aveva anche aggiunto:

...a volte brilli così tanto che devo distogliere lo sguardo.”
Cosa fai ora, Killua, distogli lo sguardo?

Quel giorno, però, Gon si sentiva solo terribilmente oppresso, abbandonato, da quello spirito che ormai conosceva come il proprio riflesso allo specchio. Una mano invisibile gli aveva afferrato il cuore, tenendolo ben stretto, e lo rallentava e lo indeboliva. Poi un vuoto allo stomaco, come se gli organi gli venissero strappati uno a uno. Un sudore freddo gli provocò un brivido lungo la spina dorsale.
Si chiese se dovessero sentirsi così le vittime di uno Zaoldyek all'opera, e solo dopo questo pensiero si rese conto che stava guardando all'amico come all'assassino che non voleva più essere. Sentiva un Nen carico di disperazione riempire tutta la casa, non poteva nemmeno tentare di evitarlo.
“Killu, dove sei?” sussurrò, impaurito. Aveva paura di perderlo, di non essere all'altezza. All'altezza di quel passato che, prepotente, attirava ancora Killua a sé.

Poiché, per quanto insieme a Gon godesse di una libertà talmente piena e vera da non sembrare reale, c'erano volte in cui perdeva la via e se stesso.
Ciò che era stato, e ora rinnegava, riaffiorava pian piano, aprendosi la strada dentro di lui con sadica violenza, scavando e graffiando dall'interno, fino alla pelle, agli occhi, al viso. Poteva perfino sentirlo, uno dei tanti cadaveri che aveva seminato lungo la sua strada, strisciare dentro di lui, cercando un varco con unghie marce e dita rattrappite. Il freddo che aveva dentro, che ogni minuto trascorso con Gon spingeva sempre più in profondità, risaliva ora in superficie corazzandolo anche all'esterno. Una porta blindata chiusa a doppia mandata. E in fondo, anche lì, vi si riconosceva pienamente. Per quanto si potesse sforzare, ciò che lo legava al suo passato non era un semplice ricordo. Era il suo stesso sangue. La promessa, di non tradire mai i suoi amici, fatta al padre unendo i loro pollici sanguinanti non aveva fatto altro che stringere la catena attorno alla sua caviglia, ostacolandolo ulteriormente. Difficile era credere che Silva non lo avesse calcolato. Come rinnegare ora quel patto? Lui bramava perversamente quel pezzo di ferro (tutto mentale, ma mai tanto reale), godeva della sensazione di gelo che gli marchiava la pelle. L'amava, perchè era abituato a farlo. Fin da quando aveva solo pochi anni, aveva imparato che era proprio quel pezzo di metallo a farlo sentire vivo.

“Come chi vive nell'ombra,
tu provi piacere soltanto quando le persone muoiono”
gli diceva il suo aniki.

La differenza era che, nel presente, aveva qualcuno che stava al suo fianco, conosceva le sue Ombre ma dava più importanza alle sue Luci. La sola esistenza di Gon bastava a mandarlo in crisi. Perchè non poteva negare – nemmeno a se stesso – che l'amico lo facesse stare bene, che il beneficio fosse reciproco, non poteva ignorare l'aria buona che con lui respirava semplicemente perchè la respiravano insieme. Per questo dentro di lui scoppiava una guerra. Il cuore, spaccato a metà tra passato e presente, infuriava contro se stesso, insulti e bestemmie gli esplodevano in testa, impossibile capire chi urlasse contro chi, di chi la voce fosse più alta. Chi ascoltare. Chi aveva ragione. Giusto e sbagliato. Troppi quesiti di cui forse non voleva la risposta.
Era più comodo, anche più facile, lasciarsi cullare dal dolore della solitudine.

Gon si fermò in mezzo alla stanza, immobile. Doveva concentrarsi e capire. Cosa fosse quell'aura, dove fosse il suo amico, perchè stesse accadendo tutto ciò. Solo ora si rendeva conto dell'entità di quello che stava accadendo, e si sentiva totalmente impreparato.
Killua si era liberato della sua energia vitale, lasciandosela alle spalle, in quella casa.
Perchè? Come specchio per le allodole, come traccia, come misero tentativo di rinunciare a vivere? Tutto stava nel comprendere se il ragazzo volesse o meno farsi trovare.
“Non me ne importa un fico secco di quello che vuole lui!” si disse Gon, risoluto. Decise di ricorrere per un attimo allo Zetsu: aveva bisogno di toccare l'aura che lo circondava e che gli incuteva tanto timore. In un secondo, essa cominciò a comprimergli i polmoni, poi il cuore, infine il cervello. In meno di un battito di ciglia, Gon fu ridotto carponi per terra, a mala pena capace di respirare. Prima che fosse troppo tardi, tornò a circondarsi del proprio Nen.
Fu quasi difficile scacciare l'idea che Killua avesse tentato di ucciderlo a distanza.
“Se non ti conoscessi bene, Killu...” mormorò però lui, senza cedere alla tentazione del risentimento. Aveva un'unica idea in testa: trovarlo. E nulla avrebbe potuto fermarlo, perchè Killua era il suo amico, il primo, il migliore.
Già in passato aveva fatto questa promessa: “Ho intenzione di portarlo indietro!”
Ironia della sorte, era proprio a Illumi Zaoldyek che lui aveva urlato addosso questa frase piena di baldanza. Ora, gli sembrava di trovarsi davanti a un déja-vu: poteva vederlo davanti a sé, Illumi, impassibile come sempre, simbolo di tutto ciò da cui Killua tentava di allontanarsi, giorno dopo giorno. Promemoria di ciò da cui, forse, non avrebbe mai potuto scappare davvero.
Tutto questo lo faceva arrabbiare. Perchè Killua non poteva essere libero?
“Lasciatelo in pace!” urlò d'improvviso, al vuoto. Potesse servire a qualcosa...

Stette nuovamente immobile, come un cacciatore in attesa che la preda riveli il suo punto debole. Si sentiva tornato all'esame per diventare hunter, quando fu costretto a pedinare Hisoka. Gli sembrava impossibile credere che, ora, per lui il pericolo fosse addirittura maggiore.
Tentò di fiutarlo, già sapendo in anticipo che non avrebbe funzionato. Se uno Zaoldyek non vuole farsi trovare, sicuramente non lascia modo di farlo, almeno non un modo così semplice.
Poi, l'idea. Ma certo...

Gyo!

E lo vide. Vide quel Nen oscuro tutto intorno a lui riempire gli spazi, rendendo l'aria rarefatta. Sentì d'improvviso anche l'odore della morte che portava con sé. Il sapore ferroso del sangue gli riempì la bocca, il suo odore acre gli penetrò le narici. E di nuovo una morsa disperata al petto, la sensazione – o forse più il presentimento – che ogni forma di gioia fosse per sempre bandita da questo mondo. Era questo che sentiva Killua dentro di sé, ogni volta che si guardava dentro? Non perse tempo a chiedersi come potesse una sola persona generare tanto dolore. Era un'eredità di famiglia.
Inutile descrivere la velocità inaudita con cui Gon si gettò fuori di casa, sotto la pioggia scrosciante. Nonostante la stazza ormai di uomo, le sue abilità non avevano fatto altro che crescere. Gli bastò seguire la scia di sangue che Killua aveva lasciato dietro di sé. Nemmeno la pioggia era in grado di portarsela via.
“Gli spargimenti di sangue sono parte di questo mondo, Gon.” gli aveva detto una volta, con un sorriso triste.
Corse più veloce.

Si rese conto di essere arrivato solo perchè la stessa aura che lo aveva sopraffatto in casa, lo avvolse anche in quel luogo. Anzi, fu essa stessa a bloccarlo, a sussurrargli all'orecchio, con la voce suadente e dolce della morte, “Ben arrivato, Gon.”
Si accorse allora delle condizioni del posto. Si era allontanato dalla città, inoltrandosi inconsapevolmente nei luoghi che avevano usato per allenarsi. Un promontorio si ergeva quasi per caso nella pianura desertica, affacciandosi direttamente sul mare, trasformandosi in uno strapiombo che si buttava a capofitto nell'Oceano. Alberi sradicati giacevano sparsi intorno, frane e smottamenti punteggiavano il territorio prima intatto. Doveva essere stato lui.
Gon faticava a vedere per via della pioggia fitta. Raccogliendo ogni energia possibile, cominciò ad attraversare la spianata, cercandolo con i suoi occhi fini.
Lo vide. E il cuore nel suo petto rimbombò più forte. “Killu” riuscì a mormorare, in un soffio disperato.
Era seduto proprio sull'orlo della scogliera, voltato verso il mare, sebbene probabilmente non lo stesse realmente vedendo.
Era completamente invisibile ai sensi. Proprio come in casa, la sua energia pervadeva ogni cosa e allo stesso tempo era al di fuori del suo corpo. Gon percepiva solo un minuscolo barlume di spirito vitale rimasto in lui, concentrato nel cuore. L'unico debole motore che gli permettesse di funzionare ancora. La sua luce fioca, scorta con il Gyo, pareva essere l'unica fonte di luminosità in quel luogo oscurato dal temporale.
Killua si era liberato della sua stessa vita.
L'energia vitale riversata all'esterno non lo riguardava più, e lui non pareva sentirne la mancanza. Stava lì, con quell'unico filo luminoso a tenerlo attaccato all'esistenza. Le lame del Fato si avvicinavano, con lentezza deliziata, bramando un taglio netto e veloce.
“Killua!” urlò allora Gon, avvicinandosi maggiormente all'amico. Nella sua voce, esasperazione e rabbia. Tentava di sovrastare il boato del temporale.
Già una volta, anni addietro, lo aveva rimproverato per la sua mania di giocare con la propria vita. “Non parlare della morte come se fosse nulla!” - gli aveva sbraitato addosso, e in quel momento una luce si era riaccesa negli occhi persi dell'altro, lo aveva ricondotto a sé. Sarebbe riuscito a riportarlo di nuovo a casa?
Ma l'altro non diede segno di averlo sentito, non si mosse nemmeno... Era frustrante vederlo così. E Gon, appartenente alla categoria del Potenziamento, non era davvero propenso a sentirsi così impotente.

“Killua è schizofrenico”, aveva detto una volta Leorio. Eppure di questa etichetta Gon rideva soltanto: era una stupida banalizzazione senza senso. Sì, c'era un Killua, e poi un altro Killua. Ma il problema era un altro: c'era troppo nella sua testa per essere affrontato tutto insieme, e Gon lo aiutava a tenere insieme i pezzi come poteva. Certe volte, però, perfino aiutarlo diventava complicato, se non impossibile: un conto era esserne fuori, un altro era starci dentro. Killua aveva bisogno di implodere e ricostruire tutto da capo, da solo. Nonostante il senso di inutilità che lo frustrava in tali occasioni, Gon aveva imparato a comprendere quei momenti. Solo che stavolta era peggio di qualunque altra avesse dovuto affrontare.
Non riusciva a essere partecipe fino in fondo di tutto quel dolore, e il doverlo abbandonare a sé lo faceva soffrire. Oltretutto, una domanda non riusciva a lasciarlo in pace. “Perchè adesso?” si chiedeva, senza giungere a una conclusione.

Come sempre, Killua si sentiva solo contro se stesso. Non era una mera necessità, ma un obiettivo che lui si era posto fin da bambino. E lui disprezzava e accarezzava quest'idea senza davvero venirne a capo, senza spiegarsi questo bisogno di affrontarsi, in continuazione.
Sentiva il freddo ferro lacerargli la pelle della caviglia, imbrigliata a una catena alla stregua di un animale: un momento prima osservava affascinato il sangue che sgorgava dalla pelle macerata, beandosi della prospettiva di una vita senza morale, senza emozioni e senza problemi, l'attimo seguente osservava spaventato e disgustato il proprio riflesso allo specchio, in cui scorgeva solo l'ombra di sé.

“Se rimarrai con lui, un giorno avrai il desiderio di ucciderlo.”

Come poteva sapere che ciò non fosse vero? Lui era stato cresciuto come assassino fin da piccolo, era la cosa che sapeva fare meglio, forse l'unica che sapeva fare veramente. Valeva la pena di lottare contro ciò che si è?
Le parole di suo fratello, incise a fuoco nel suo cervello e nella sua carne, non facevano che riecheggiargli nella testa, sovrastando ogni altro pensiero.
Ma il vero problema era suo padre, colui che più di chiunque altro lo teneva sotto scacco. Silva Zaoldyek era sempre con lui: lo vedeva davanti a sé, al proprio fianco, alle spalle, qualunque cosa facesse. Ciò che li univa era un rapporto malato: Killua amava e odiava suo padre tanto quanto amava e odiava se stesso. Lo ammirava, venerava, e allo stesso tempo avrebbe voluto fargliela pagare per ogni cosa... Similmente, riversava anche su di sé un desiderio di vendetta. Per cosa, poi?
Questo conflitto insanabile dentro di lui era la causa di tutti i suoi problemi, e anche il motivo per cui, certi giorni, non riusciva a sentire dentro di sé altro se non un grande, immenso, ingestibile vuoto che nemmeno la presenza di Gon riusciva a colmare. Perchè il problema era dentro e fuori di lui, non sapeva come affrontarlo, non sapeva dargli un nome, e tutto ciò non faceva che accrescere la sua paura e la sua rabbia.
Killua aveva tanta rabbia dentro.
Un tempo credeva che uccidere fosse la soluzione migliore per sfogarla.

“Tu sei nato per essere un assassino.”

Poi aveva conosciuto Gon e aveva iniziato a credere che una scappatoia ci fosse, e fosse proprio nell'amicizia che li univa.
Ma era ancora, sempre, in bilico. Tra il cielo luminoso, aperto, dove poteva respirare aria buona e sentire il vento sulla pelle. E la profonda e tetra terra, nelle cui gallerie poteva rifugiarsi, all'oscurità. In fondo anche lì respirava, ma un'aria malsana, putrida, marcescente come il destino che lo attendeva: c'erano solo sassi e macerie che lo graffiavano e lo ferivano, senza tregua.
Una bomba a orologeria era piantata nel suo cuore. Viveva, o meglio sopravviveva, nell'attesa che essa scoppiasse, o nell'ansia che non lo facesse mai.
Tik tak... tik tak...
Talvolta gli pareva di sentire più forte quel ticchettìo. In quelle occasioni il suono dell'orologio, che segnava l'inizio della fine, era il suo requiem.
E lui, per dargli un senso, voleva solo morire.

Anche in quel momento, la sua mente era traboccante di quell'unico desiderio, mentre osservava ammaliato il mare: Gon era convinto che non lo stesse realmente vedendo. E invece guardava proprio quella sconfinata distesa d'acqua. Era così bella l'idea di poterci affogare dentro. Doveva solo lasciarsi andare, cullato dalle onde gelide e avvolgenti. E pian piano, sprofondare...
“Killua!”
L'urlo di Gon lo aveva ridestato. Ma si obbligò a non badarci, non diede segno di averlo sentito. Eppure, ora che percepiva la sua presenza, un altro desiderio cominciava a farsi largo nel suo cuore confuso. Un'improvvisa voglia di combattere.
Sangue. Ferite. Morte. Lui era un avversario ideale.
Killua si mise lentamente in piedi.

Il moro si bloccò a metà di un passo. Da fondo valle, senza vederlo chiaramente negli occhi – complice la pioggia che non dava segno di scemare – il ragazzo percepì d'improvviso quello sguardo su di sé e insieme a esso, la bramosia che si celava dietro. Killua voleva attaccarlo.
Questa consapevolezza lo sollevò e spaventò allo stesso tempo. Da un lato, aveva la certezza che l'amico avesse in mente altro, prima di annientare se stesso. Dall'altro, però, temeva uno scontro con lui. Gon non sarebbe mai riuscito a combattere allo scopo di ucciderlo, era semplicemente assurdo, ma non era sicuro che ciò valesse anche per l'altro, non in quel momento. Istintivamente attivò il Nen, ma dopo un paio di secondi di riflessione, lo rilasciò. Fece esattamente ciò che aveva tentato di fare poco prima, nell'appartamento.
“Zetsu!”
A fatica rimase in piedi, le gambe già gli tremavano nello sforzo di non farsi schiacciare dal suo desiderio omicida. Ma non poteva agire altrimenti: non sarebbe stato uno scontro alla pari.
“Come fai a pensare all'onestà in un momento come questo?”
Quel sussurro s'insinuò inaspettato nel suo orecchio. Gon si ritrovò incatenato alla sua posizione. Killua gli era giunto alle spalle e non se ne era nemmeno reso conto. Poteva dar la colpa alla pioggia, ai pensieri che si affollavano nella sua testa, ma restava il fatto che non aveva nemmeno colto il suo movimento. Ciò che lo immobilizzava in quel momento era il panico: la voce che gli era scivolata addosso era crudele e spietata. Con uno scatto si allontanò da lui, ma nemmeno di un metro. Un altro brivido lo attraversò quando alzò lo sguardo per incontrare i suoi occhi. Offuscati, spenti. Il suo solito blu era ormai nero come la notte. La paura lo abbandonò lasciando il posto all'angoscia e al disperato bisogno di salvarlo. Accennò qualche passo verso di lui, i piedi che affondavano nel terreno ammorbidito dall'acqua.
Assurdo. Gli pareva di sentire più freddo man mano che gli si avvicinava. Non era un'impressione, quel freddo era reale. Era davvero un'aura gelida quella emanata dalla sua pelle: come avvicinando una mano al ghiaccio, la sua stessa essenza è fredda, si sente a distanza. Poi a toccarlo, brucia.
Quello tentò di fare Gon, quando gli fu vicino. Allungò una mano verso di lui e gliela poggiò sulla spalla. All'inizio quasi si stupì di quanto fosse grande. Da adulto, Killua era diventato più grosso di lui, e leggermente più alto. Alzò il volto per guardarlo negli occhi e solo allora Killua sembrò prendere davvero coscienza di chi avesse davanti. Tentò di rispondere al suo sguardo vivo, color nocciola, brillante. Ma ciò che il moro vide erano due pozze ghiacciate, vuote e buie, specchio di un'anima torbida. Le sopracciglia erano piegate in un'espressione disperata.
Per un attimo Gon non sentì più il pavimento sotto di sé, un senso di vertigine lo colse. Un baratro di dolore si elevò intorno a lui. E questo era solo quello che Killua gli permetteva di vedere. Quanto doveva essere sprofondato davvero?
“Killu” mormorò.
Le labbra dell'altro parvero muoversi, ma non ne uscì alcun suono. Poi però alzò le braccia, gli cinse il torace con un debole gesto. Si appoggiò con la fronte alla sua spalla, piegandosi leggermente verso di lui.
In quella specie di abbraccio, Killua si abbandonò a lui, e Gon potè, d'un tratto, essere investito di tutto il suo indicibile dolore.

Fu come essere travolti improvvisamente dall'onda di uno tsunami. Prima ti prende una morsa allo stomaco, la vedi arrivare. Ma sei paralizzato dal terrore, il tuo corpo sembra dirti che preferisce farla finita subito, con un impatto, piuttosto che tentare di sopravvivere in un dolore lancinante. Poi l'onda ti raggiunge, ed è peggio di qualsiasi schiaffo, pugno, calcio, tu possa aver mai ricevuto nella tua vita.
Semplicemente credi – ne sei convinto, e forse hai ragione – che nulla potrebbe mai provocarti un dolore tanto atroce. Sei oppresso dall'acqua che è ovunque, e sprofondi.
Sprofondi...
I polmoni si riempiono d'acqua, annaspi, vuoi aria e non puoi averla. Vuoi piangere ma sarebbe inutile.
Desideri solo che finisca presto.

Gon si ridestò da quel sogno ad occhi aperti. Aveva il respiro accelerato, gli occhi sbarrati e sudava leggermente. L'altro intanto aveva cambiato posizione, si era eretto in tutta la sua altezza, e lo fissava.
A cosa aveva assistito? Uno scorcio d'anima gli si era appena spalancato innanzi. Killua lo aveva condotto nella sua testa, nei suoi pensieri malati. Improvvisamente Gon aveva voglia di piangere, si sentiva così triste. Oppresso da una disperazione non sua, eppure parte di lui tanto quanto lo era Killua stesso.
Non aveva un piano per quella situazione, non era uno scontro all'Arena Celeste. Un piano... a cosa sarebbe servito? Cosa poteva offrirgli più di quanto non avesse già dato? Condividevano le loro vite, l'uno con l'altro. Anzi, era un'unica vita vissuta da due persone differenti, e per questo ancora più ricca di quella di una persona comune. Era tutto ciò di cui avevano bisogno, non serviva altro. C'era solo una cosa che poteva fare davvero, e fu quello che decise di fare: accompagnarlo nel suo viaggio di dolore e stargli accanto fin quando avesse potuto. Come sempre.

Come se avesse potuto ascoltare il suo filo di pensieri confusi – poteva davvero...? - Killua sembrò ribellarsi alla sua decisione. Con un cambio improvviso di atteggiamento, lo spinse via con uno strattone violento. Gon dalla sorpresa finì a terra: si risollevò appena in tempo per evitare il suo attacco. La ginocchiata del ragazzo, diretta al suo stomaco, affondò fra i sassi, disintegrandoli.
Si rimisero entrambi in piedi, uno davanti all'altro. Il moro lo guardò e non lo riconobbe. L'altro lo fissava con la voglia di ucciderlo. Gli occhi ridotti a due sottili fessure, piegate in una linea di crudeltà. L'ultima volta che l'aveva visto così – il tempo di un respiro – Killua aveva strappato il cuore dal petto di un uomo, a mani nude. Ma non si lasciò spaventare, tenne alto il viso, a sfidarlo.
Vide i suoi lineamenti affilarsi sempre di più: la rabbia stessa sembrò addensarsi intorno a lui.

Aveva lo sguardo di una persona
proveniente dal regno delle tenebre, sai?”
aveva detto Sadaso.

Killua voleva picchiarlo, fargli male, rompergli un braccio, o tutti e due, sentirlo implorare. E solo allora, ucciderlo. Voleva sentire l'odore del sangue – quello di Gon, il proprio, non era importante – voleva sentirne il sapore e vederlo scorrere a fiotti.
“Vedi di reagire, o ti ammazzerò in un istante” mormorò, glaciale.

“Avrai l'impulso di vedere se sei in grado di ucciderlo.” diceva il suo aniki.

Era arrabbiato e aveva bisogno di soffrire. Perchè vedeva il suo compagno di fronte a sé e non riusciva a raggiungerlo. Tentava di fare un passo e sentiva la solita, adorata catena trattenerlo. E come un animale ingabbiato, non faceva che arrabbiarsi, scaricando tutto su colui che aveva davanti. Se non poteva raggiungerlo, che almeno potesse fargli del male.

“Non riuscirai mai ad avere degli amici.”

L'albino gli girò attorno, come un predatore che sa che la preda è già spacciata e ci gioca, torturandola per il gusto di farlo. Mentre quella stessa preda continuava, imperterrita, a guardarlo negli occhi, con il suo sguardo più fiero e determinato.
Fu quando un tuono squarciò il cielo con un rombo, che anche lui scattò. Fulmini, elettricità, Killua giocava in casa. Il pugno centrò Gon dritto nello stomaco, prima che questi sentisse un calcio mirare a rompergli l'osso del collo. Parò con l'avambraccio, per poi ricorrere alla stessa mossa. Non fece in tempo a sollevare la gamba che Killua era già sopra di lui, con un balzo rapido. Lo avrebbe centrato di sicuro se, d'improvviso, uno spasmo non avesse bloccato il suo movimento schiacciandolo a terra. I ricordi non gli davano tregua, finì in ginocchio vicino a lui.
“Tornerà di nuovo” mugugnò, con un basso lamento, stringendo i denti.
“Che stai dicendo, ma di che...” la domanda sulla bocca di Gon si arrestò a metà. Cominciava a capire pian piano. Anni erano passati da quando Illumi, ubbidiente esecutore delle volontà paterne, si era presentato al cospetto di suo fratello minore. Non avevano idea di come li avesse rintracciati, ma seppero subito il perché: era “suo dovere” ricordargli che mai, mai, avrebbe potuto fuggire sul serio. Si scontrarono in una lotta mortale e Killua ne uscì in fin di vita, sconfitto interiormente dalla verità dei fatti: non poteva avere la meglio. C'era voluto tempo per superare l'accaduto. Sia per Killua, per liberarsi dai fantasmi che lo perseguitavano, sia per Gon, per riportarlo alla realtà – la loro realtà, quella che stavano costruendo insieme. Ed ora anche il suo quesito (“Perchè adesso?”) trovava risposta, una risposta che Gon già conosceva ma di cui si era completamente dimenticato. Avendo da poco compiuto vent'anni, Killua era ufficialmente maggiorenne. Una tappa fondamentale nella tradizione degli Zaoldyek. Il giovane rampollo questo lo sapeva bene, e nonostante non riuscisse a rassegnarsi all'idea, era sicuro che loro avrebbero trovato modo di farglielo accettare.

“Tu non speri e non desideri nulla.”

“Cosa ci faccio qui? Non è una vita che fa per me, non lo è mai stata e non può esserlo. Perchè illudermi fino a questo punto?”
Si prese la testa fra le mani, ripiegandosi in se stesso, soffriva. Nella sua testa ora regnava solo un mormorio disperato e rassegnato, che si sovrapponeva a un'altra voce ben nota e odiata, quella di suo fratello.
Era nato marcio e marcio sarebbe morto. Polvere alla polvere. Perchè sforzarsi di cambiare? Un uomo che si finge migliore di quello che è, merita l'ultimo posto nell'Inferno.

“Perchè la tua è l'anima di un assassino” gli diceva il suo aniki.

“Tu non sei Illumi” disse ad un tratto Gon, appigliandosi alla razionalità.
“Ma non capisci?! - urlò l'altro, esasperato – Non si tratta di mio fratello, ma di quello che sono!” e la sua voce ebbe un subitaneo abbassamento, come se fosse tutt'altra persona a parlare: “E io non sono altro che un assassino.”
Questa convinzione bastò a dargli la forza di rialzarsi e gettarsi nuovamente all'attacco. Gon se lo vide alle spalle, non fece in tempo a bloccarlo, la sua mano irrigidita lo colpì alla nuca, facendogli perdere momentaneamente i sensi. Le ginocchia tremarono, gli occhi si rovesciarono, ma fece di tutto per resistere. Rimase in piedi, più deciso che mai. Si voltò veloce, colpendolo con un calcio allo stomaco che lo buttò a terra. Con un saltò provò ad allontanarsi, ma non fu abbastanza veloce: anziché atterrare, Killua fece perno sulla mano per darsi lo slancio. Col gomito gli restituì il colpo appena ricevuto, cadendogli addosso. Gli bloccò immediatamente il corpo con il proprio, con l'avambraccio cominciò a premergli sulla gola. Gon si agitava, tentando di divincolarsi. Non respirava. Ma riuscì a soffiare, in un rantolio: “Puoi essere quello che vuoi, ma io sono con te, Killu, e non ti lascio.”
Come sempre determinato. Come sempre incrollabile. Come sempre leale.
Un'altra fitta costrinse Killua a portarsi le mani alle tempie, stringendo forte. Voleva comprimere tutto ciò che aveva dentro e gettarlo via, ma non poteva.

Ascoltò inerme le esplosioni di migliaia di voci, le vite che lui aveva stroncato. Imploravano, urlavano, chiedevano pietà, inascoltate. E poi emerse la sua voce. “Non ti lascio.”
Senza vederlo, la vista offuscata dal dolore lancinante, l'albino lo afferrò per il colletto della maglia sgualcita. Un pugno si alzò, pronto a colpire. Ma quello che sentì Gon fu solo il fango schizzargli il volto. La mano si era abbattuta sul terreno, proprio a lato del suo viso.
“Dovresti odiarmi!” urlò Killua, digrignando i denti in una espressione sofferente. La sua voce, più matura che in passato rimbombò con un lamento prolungato.
Gon, imperturbabile, restò immobile. Forse sapeva che quell'attacco non sarebbe andato a segno. Approfittò dell'istante per riprendere il vantaggio: fece pressione con le gambe per ribaltare le posizioni e rimettersi in piedi, in attesa.
Percepiva quanto Killua avesse bisogno di farsi del male attraverso di lui, perchè soffriva molto più del suo dolore. Al proprio si era ormai assuefatto. Ma non per questo si sarebbe lasciato massacrare, anzi, rispondere agli attacchi era la cosa migliore che potesse fare: allungare lo scontro, lasciar uscire tutta la rabbia. Lui non era in grado di intromettersi negli affari di famiglia, non aveva il diritto di imporre la propria decisione su quella dei suoi genitori, ma poteva aiutare Killua a prendere la sua, definitivamente. Doveva lasciar fuoriuscire tutta la furia che lo accecava, perchè vedesse con chiarezza cosa aveva davanti a sé.
Ed è ciò che fece, proseguendo il combattimento. Killua mirava agli organi vitali, Gon doveva solo prestare attenzione a deviare gli attacchi senza perdere l'occasione di colpire lui stesso. Più volte furono vicini, più volte si allontanarono per riprendere fiato. Senza mai dare l'impressione di voler terminare lo scontro. Le ferite si moltiplicavano, proporzionalmente alla potenza impiegata.
Anzi, Gon fu sicuro, ad un tratto, di aver scorto persino la fugace ombra di un sorriso sul volto dell'altro. Possibile? Quella distrazione gli costò una gomitata nelle costole, sentì un rumore che preferì ignorare, probabilmente era incrinata. Ancora qualche centimetro e gli avrebbe perforato un polmone.
“Gli Hunter appartenenti al Potenziamento diventano più forti quando devono proteggere coloro a cui tengono.” Questo gli avevano detto una volta. E più che mai Gon comprese la verità di quelle parole. L'energia gli esplodeva dentro, pronta a essere usata. Per lui, per Killua. Sapeva che non avrebbero retto ancora a lungo, erano le ultime forze che si raccoglievano per gli attacchi finali, lo sentiva ed era inebriato da quella sensazione di incertezza. Non aveva la minima idea di come sarebbe andata a finire, eppure allo stesso tempo una serena calma lo dominava: in un modo o nell'altro, tutto si sarebbe aggiustato. Come a dargli ragione, la cascata di pioggia che da ore imperversava su di loro diede segno di diminuire. Si fece leggera, piacevole, un velo di seta sui loro corpi martoriati e stanchi.
Le unghie di Killua gli affondarono nel fianco, lui non esitò a colpirlo con forza al volto. E altri calci, gomitate, pugni. Il calcagno dell'altro si abbattè pesantemente sulla sua nuca. Prima di crollare, Gon gli rifilò un calcio dritto alla gola. Finirono entrambi a terra, rantolando. Vide Killua sputare sangue, e non potè fare a meno di tormentarsi al rimorso. Passarono i minuti e ancora ansimavano, sfiniti.
Contemporaneamente si levarono in piedi, ancora. Entrambi consapevoli che sarebbe stata l'ultima volta. Rimanevano le energie per un solo attacco. Il gran finale.
Senza pensarci, totalmente spontaneo, Gon rise. Non voleva far lo spaccone, né provocarlo, ma quello scontro gli era piaciuto, era esaltato dalla stanchezza che sentiva addosso. Fu quando anche l'altro, impercettibilmente, accennò uno sbuffo – divertito? - che il moro credette di poter scoppiare di gioia. Anche Killua non lo aveva calcolato, anzi probabilmente non se n'era nemmeno accorto. La sua espressione era durata neppure un secondo, eppure se ne intravedeva ancora la traccia.
Poi d'improvviso tornarono seri. L'ultimo colpo: quello era una cosa seria.
Più silenziosi della pioggia, i loro piedi si staccarono dal terreno.


La terra accolse la loro caduta con un tonfo sordo. Era finita, entrambi lo riconoscevano. Ma per Gon ciò che era terminato era solo il loro combattimento. Aveva ancora una cosa da fare.
Si mise in ginocchio, nel punto dove era crollato, ripulendosi il rivolo di sangue dovuto a quell'ultimo incontro tra i loro corpi. Senza la forza di alzarsi, strisciò verso l'amico, che giaceva sdraiato a pancia in su: respirava debolmente, ma vide i suoi occhi guardare il cielo rovesciarsi lentamente sulla Terra. Si avvicinò a lui, trascinandosi sui gomiti. Quando le teste furono vicine, Gon chiuse un pugno sulla maglietta dell'altro, tenendola stretta all'altezza del cuore. La voce che uscì dalle sue labbra era appena un sussurro.
“Tieniti bene in mente quello che ti sto dicendo. Non m'importa di quanto tu possa desiderare di morire, o di uccidermi, o di uccidere qualcun altro. Non me ne frega nulla di cosa ti abbia detto tuo fratello e di quello che la tua famiglia pretende da te. Questa è la tua vita, solo tua. Ma io ci sono dentro. E farò qualsiasi cosa, qualsiasi cosa! - ripeté, alzando la voce – per starti vicino. Non ti libererai tanto facilmente di me, hai capito?” Killua taceva, ma sentiva tutto. Finalmente Gon lo vide rispondere al suo sguardo. Per la prima volta parlò chiaramente, senza nascondere ciò che aveva capito di lui, senza lasciare più niente di sottinteso.
“Tu credi di essere un'ombra generata dalla mia luce. Ti sbagli! Io sono Luce se tu sei Luce, insieme siamo Luce. E non potremmo mai esserlo se non fossimo insieme, perchè è insieme che brilliamo più forte! Così devi starmi accanto, così voglio che tu stia al mio fianco. Perchè, Killua, se tu hai bisogno di me, io ho bisogno di te!”
E crollò, sfinito, al suo fianco. Perfino parlare gli costava fatica, tanto era distrutto. Ma anche altrettanto felice. Non sapeva nemmeno lui come, ma si allontanò di nuovo, lasciandosi poi cadere addormentato poco lontano... sempre col sorriso sulle labbra. Il mio l'ho fatto, pensava, ora tocca a te.

Se ne fosse stato capace, forse in quel momento Killua Zaoldyek avrebbe pianto, giusto qualche lacrima. Ma aveva dimenticato come si faceva molto tempo prima. In quel momento, sentiva solo il proprio cuore fremere. Faceva male.
Si rannicchiò su se stesso come se ciò avesse potuto alleviare il dolore che pian piano si espandeva in tutto il corpo. Non era la lotta a sfiancarlo. Quello che Gon gli aveva detto gli stava riempiendo l'anima in un modo che non avrebbe mai immaginato: questo gli faceva male. Ma non fece in tempo a capire cosa gli stesse succedendo, che la testa ricominciò a bruciare, troppe voci la infiammavano cozzando una contro l'altra, sovrastando la voce dell'amico che ancora gli riecheggiava nelle orecchie.
La forza dei ricordi lo uccideva.
Lo dilaniavano dall'interno, emergendo pian piano, andando incontro ai ricordi di adesso, di un presente che voleva essere felice. Com'era difficile star dietro a quest'ennesima battaglia.

“Sei una bambola dell'oscurità priva di passione.”

“Tu non riuscirai mai ad avere degli amici.”

“Se rimarrai con lui, un giorno avrai il desiderio di ucciderlo.”

Si prese la testa tra le mani, “Smettila” tentava di dire. Doveva farlo tacere (“Illumi, bastardo!”) ma vedeva davanti a sé solo un lungo tunnel nero come la pece. Lungo le pareti, emergevano le figure di coloro che avevano incrociato la sua strada, rimanendone vittima. Non poteva fare altro che incamminarsi, sperando che portasse da qualche parte e che nel tragitto quelle ombre non lo trascinassero per sempre con loro. Stare fermo era impossibile: l'accidia lo avrebbe annientato.

“Tu non speri e non desideri nulla” gli ricordava il suo aniki.

Una fitta di dolore allo stomaco. Poi, ad un tratto, scorse una lanterna, ponte tra due realtà che mai avrebbero potuto collidere. Gli occhi di Gon lo scrutavano con il loro tipico cipiglio, quella tenacia che nessuno avrebbe mai potuto stroncare. Killua fu costretto a farsi scudo con la mano, per non rimanerne abbagliato. E poi, tutt'a un tratto, la sua voce gli fu incredibilmente vicina, un mormorio che sembrava provenire dal proprio cuore.

Tu sei il mio primo amico.

Eh? In mezzo a tutti i suoi terribili e freddi ricordi, alcuni, nuovi, cominciarono a innalzarsi dall'oscurità, disperdendo gli altri. In questi ultimi, non c'erano né sangue né catene né violenza. C'era solo una persona, che gli sorrideva e gli diceva cose meravigliose.

Killua, io trovo divertente stare insieme a te.

Quella che all'inizio gli appariva una misera lanterna, vista da vicino emerse in tutto il suo splendore, rivelandosi un fuoco che ardeva immenso, espandendo lo spazio circostante. Le pareti parvero allontanarsi, le voci attenuarsi, fecero capolino i colori, sempre più intensi. E Killua rivide lo stesso fuoco attorno a cui si era seduto con Gon, molti anni prima, sull'Isola della Balena.

E allora rimaniamo insieme! Possiamo viaggiare e vedere insieme il mondo!

Nessun discorso logico complicato, nessun enigma o tranello. Piccole e semplici frasi si estendevano nella sua mente, respingendo tutto il resto. Questa era la verità che cercava dentro di sé, cristallina come l'aria che voleva – davvero – tornare a respirare. Ma non da solo.
Io voglio diventare un amico per Gon.
Era stata la sua prima autentica scelta, da quando era nato. Lasciare la propria casa per andare incontro all'ignoto, per quanto questo potesse essere imprevedibile.

Io cercherò mio padre, e tu capirai cosa desideri fare.

Ci divertiremo sicuramente!

Gli aveva proposto Gon. E lui in quel momento aveva risposto: Non sembra male.
No, in effetti non era male. Il passato non si può cambiare, ma il presente si plasma ogni giorno. Invertire il flusso negativo, renderlo positivo e entrare a farne parte non come una goccia trascinata dalla corrente, ma come l'onda che apre la strada e guida la propria scia. Questo poteva farlo, se non era solo.
Strinse in un pugno una manciata di terra umida, il sangue ormai raggrumato sul suo palmo si mischiò al fango fresco. Rivisse nella propria mente i momenti appena trascorsi. Sentiva ancora l'adrenalina e l'entusiasmo dello scontro, la tensione dei muscoli e i sensi amplificati. Sentì il suo calcio mozzargli il respiro.
Gon. Con lui era sempre così. Lui era così. Semplice e vero, quasi inafferrabile. Sfuggiva al suo controllo e invece era proprio lì che lo ritrovava, davanti a sé, più vicino di prima. Era il suo riflesso migliore. Erano uno l'estensione dell'altro. Tempo addietro, Biscuit li aveva definiti “Una squadra perfetta” per combattere, e non solo. La loro amicizia aveva accecato perfino lei.
Per questo Killua doveva capire che non avrebbe mai potuto liberarsi di lui, e lui non lo avrebbe mai lasciato solo. Nemmeno quando il passato tornava a tormentarlo, in un giorno di temporale, e lui non faceva che cacciarlo e fargli del male. In quei momenti bui, a Killua pareva di essere davanti a uno specchio.
Si guarda, ma non si vede. E pur di riuscirci, ci sbatte contro la testa. Ferendosi, provando dolore. Lascia che i pezzi di vetro da lui stesso infranti volino a terra, sparpagliandosi e tagliandogli i piedi. Così si china a raccoglierli, con la vista annebbiata dal male e dal sangue che cola. Le mani si sfregiano con i frammenti della sua rabbia, e altro sangue che scorre e sporca. Si rialza a fatica, sudando freddo, per rimettere i pezzi a posto e riparare il danno. E man mano lo specchio torna al suo posto, dov'é sempre stato. Ora pulito, con qualche cicatrice in più, ma rinato. E lui riemerge con esso, ogni pezzo riaggiustato é superficie in più su cui riflettersi. Ma dall'altra parte non vede lui, bensì Gon, che sorride rimettendo a posto i pezzi con lui. Così che ad ogni tassello le loro mani vengano a congiungersi, con la dolcezza lasciata da un dolore superato.
Gon era così: ti demoliva senza farti nulla. Ti permetteva di autodistruggerti, perderti e poi ritrovarti, in libertà. E lui rimaneva lì, dove lo avevi lasciato e dove lui si era fermato ad aspettarti. Per essere di nuovo l'uno a fianco dell'altro.

Inconsapevolmente, Killua sorrise. Un brivido gli percorse la pelle: le Ombre fuggivano via, mugolando al pari di cani bastonati. Torneremo, sembravano dire.
Fate pure, vi aspetto. Avrebbe risposto lui.
Senza rendersene conto, il Nen che aveva disperso intorno a sé tornò in lui. L'atmosfera si fece lieve, l'aria più fresca, si alzò il vento. E il cielo diede il suo contributo, aprendo uno squarcio tra le nuvole grigie. Al di là di esse, l'azzurro si fece strada fino ai suoi occhi, ridando loro il colore originale. Il corpo era pervaso da nuove scariche di energia: era la vita che ricominciava il suo corso.
Gon percepì il cambiamento in atto tutt'intorno. Prima lo odorò, poi lo sentì sulla pelle, infine aprì gli occhi per assistervi direttamente. Tutti i suoi sensi riacquisivano la finezza di sempre. Si voltò e notò che Killua non era più dove lo aveva lasciato, ancora una volta si era dimostrato più silenzioso di un sospiro. Istintivamente, il moro guardò in su. Non sapeva spiegare il perchè, ma ne era sicuro, prima ancora di scorgere effettivamente la sua figura lontana.

Killua era proprio in cima al promontorio. Con i piedi che lambivano il bordo della scogliera, distese tutto il corpo in direzione del mare e del sole che cominciava a far capolino tra le nubi ora candide. Inspirò forte. I polmoni si dilatarono recuperando tutto quello che avevano perso nelle ore precedenti. Lo strappo nel cielo illuminava ora il mondo ingrigito dal brutto tempo: e i suoi occhi poterono vedere e ammirare, perchè lui ora guardava davvero.
Sentì le proprie narici fremere alla purezza di quell'aria così fresca e buona – perchè tale è l'atmosfera dopo una pioggia risanatrice.
Come incitato a scuotere quel corpo adulto, ma leggero, che si stagliava diritto contro l'orizzonte, il vento prese a spirare più forte, scompigliandogli la chioma folta, che brillò nei suoi riflessi argentati.
Killua riacquistava pian piano i suoi bellissimi colori.

Come rispondendo a un richiamo silenzioso, Gon recuperò in fretta le forze per poterlo raggiungere. Quando fu in cima, ebbe l'impressione di poterla quasi toccare, la vitalità di Killua – ora tornata in lui - che così armoniosamente si fondeva con la propria.
Tutto appariva diverso. Il bel tempo dopo una pesante pioggia è qualcosa di unico: il sole splende più di quanto non abbia mai fatto, i suoi raggi, per contrasto al buio da loro cacciato via, sono ancora più caldi e genuini. Il cielo è terso, blu, pulito come il mare aperto...
Limpido e infinito come i suoi occhi che finalmente si aprono tranquilli sul mondo.
Il moro poteva intravedere la vita stessa da lui emanata in quel momento, non solo dagli occhi ma da tutto il corpo. Era voltato verso il cielo, come a spiccare il volo verso la libertà da lui – da loro – tanto amata, eppure e volte così difficile da conquistare...
Killua aveva compreso ciò che voleva dirgli Gon: essere un giunco sbattuto dal vento, che si piega senza spezzarsi mai, affondando con costanza le sottili radici nella terra, ma tendendo con l'anima sempre al cielo.

Gon si mise vicino a lui, imitandolo in quello stato di serena contemplazione. Non si erano ancora detti una parola, ma un fiume aveva cominciato a scorrere tra loro, un flusso ininterrotto di pensieri e parole. Killua inspirò nuovamente, forse faticando a credere che fosse tutto passato, almeno per il momento. Si girò verso l'amico, arretrando di qualche passo.
Solo allora sorrise.
Di quei sorrisi semplici, timidi, che nascono dal cuore e al cuore arrivano. E Gon sorrise di rimando, genuino e puro, come pochi adulti riescono ancora ad essere. Forse perchè un po' bambini lo sarebbero stati per sempre, ancorati a quei dodici anni che li aveva fatti conoscere.
Con tono sicuro, Gon cominciò: “Hai ragione, Killua. Probabilmente Illumi tornerà. Ma...”
“...ma saremo pronti.” concluse l'altro per lui.
E fecero scontrare le mani strette a pugno, in un gesto d'intesa.
Suo fratello si sarebbe fatto rivedere, questo era certo. Eppure ora faceva meno paura, come l'eredità che si portava appresso. Sembravano allontanarsi più velocemente tutte le sue ombre, in caccia dal passato.
Solo una ne rimaneva: quella dei loro corpi vicini, che si allungava col calare del sole, come a rappresentare l'incedere delle loro vite lento, sottile, a volte fragile, ma testardo, fiero e inarrestabile.

 

 

Gon, tu sei la Luce. A volte brilli così tanto che devo distogliere lo sguardo.

Ma anche così, andrà bene se starò al tuo fianco?”





 

 

  
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