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Autore: Dani85    24/08/2014    3 recensioni
“Questa è la vita! / Un oscillare eterno / Fra paradiso e inferno / Che non s'accheta più.”
(Dualismo - Arrigo Boito)
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Questa è la vita di Remus Lupin, tra inferno e paradiso, dall'inizio alla fine.
Raccolta di istanti, pensieri e sensazioni; attimi per raccontare carezze e schiaffi di una vita intera, orribile e meravigliosa tutt'insieme.
[Famiglia Lupin | Malandrini | Remus/Dora]
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Dalla storia:
#1. Oltre la finestra, la notte continuava a stingere e la stanza cominciò a rischiararsi di bagliori azzurrati: l'alba del 10 marzo si apriva sul sonno dell'ultimo arrivato in casa Lupin.
#3. Era Greyback e sarebbe stata la fine del mondo.
#4. Cinque, come gli anni di Remus. Cinque, come i desideri di Lyall.
#6. Tutto tornò improvvisamente triste, come nella casa di prima e in quella prima ancora.
#7. «Remus sta per compiere undici anni e a settembre sarà a Hogwarts», Silente si strinse nelle spalle come se quello bastasse a spiegare tutto.
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Storia Incompleta
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hope Howell, I Malandrini, Lyall Lupin, Nimphadora Tonks, Remus Lupin | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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N.d.A. Salve a tutti! Non aggiorno da inizio anno, un ritardo enorme e, tra l'altro, non sono nemmeno certa che questa shot sia un granché. Sappiamo che per via della maledizione, Remus e i suoi genitori hanno dovuto cambiare casa molte volte e ho provato a raccontare uno di questi momenti. Nulla di particolare insomma XD
Spero di non interrompere più così a lungo la pubblicazione, grazie a chi passerà di qui e buona lettura :)
Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di J.K. Rowling; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Gli elementi di mia invenzione, non esistenti in HP, appartengono solo a me.
Note: Infanzia di Remus - Citazione iniziale di Siracide.


 

Questa è la vita

Di casa in casa


Di casa in casa

Triste vita andare di casa in casa
[Siracide]

Quando anche l'ultimo maglione fu sparito dentro il cassetto, Remus era così soddisfatto di sé che non solo pensava di essersi meritato la merenda ma ne era proprio sicuro. Era stato proprio bravo, non c'era che dire, e del caos della stanza non restava che un mucchietto di scatole accatastate sul letto. Erano una montagnola buffa e sembravano una cosa gigantesca nella camera minuscola, con le pareti chiare che tentavano di far sembrare tutto più grande. Si sforzavano, davvero, ma il bianco non riusciva a fare il miracolo: la stanza era piccola e piccola restava, il letto, l'armadio e la scrivania che parevano essere stati incastrati lì a forza. Remus inclinò la testa su una spalla, gli occhi strizzati per la luce che entrava dalla finestra, mentre lo sguardo giudicava ancora una volta quella che era appena diventata la sua nuova camera. Si mordicchiò le guance e sperò che lo sarebbe stata abbastanza a lungo da arrivare a lamentarsi di essere troppo grande per quello spazio così piccolo.
Remus si spostò impaziente sui piedi nudi e intrecciò le manine dietro la schiena e immaginò un sacco di libri e un sacco di amici a spintonarsi tra quelle quattro mura. Non sarebbe successo, lo sapeva, ma era una bella fantasia e ogni tanto se la concedeva, a dispetto di tutto, della maledizione che gli viveva dentro e degli occhi tristi di papà che gli diceva di non illudersi, ché la realtà avrebbe solo fatto più male. Ma Remus aveva solo otto anni e la verità di papà a volte era solo troppo grande e spaventosa per conviverci giorno dopo giorno. Così alle volte, solo ogni tanto, non sempre, lui si concedeva quella fantasia, con gli amici e le risate e le cose normali della vita. Era una cosa piacevole e Remus si godette la sensazione, il suo corpicino magro che oscillava sui piedi nudi e la pancia che brontolava nel silenzio della camera come un piccolo tuono. Ridacchiò, sciogliendo le mani, ricordandosi improvvisamente della merenda che tanto duramente si era guadagnato. Spinse quella sua bella fantasia nell'angolo più lontano della sua mente e poi si precipitò fuori dalla stanza e giù per la scala di legno.
Il legno cigolava sotto i passi leggeri da bambino e nelle ombre che salivano dal piano di sotto, lì dove il sole si fermava, sembrava quasi un lamento. A Remus non piaceva molto, no, gli faceva venire un po' la pelle d'oca ad esser onesti, con il ricordo lontano di altri cigolii nel buio che risaliva la sua memoria e la paura che veniva da un altro tempo, con il dolore e le urla che a volte diventavano incubi e lui non sapeva più se fossero veri o meno.
Remus scese saltellando gli ultimi gradini e i piedi atterrarono con un piccolo tonfo sul pavimento del corridoio, i cigolii del legno nella casa nuova che restavano nel buio delle scale e lontani dalla mamma che canticchiava. La voce di Hope e l'acciottolio di piatti arrivavano ovattati dalla cucina e Remus sorrise, il pensiero della merenda riportato di peso in primo piano, l'inquietudine della mente lasciata indietro insieme al legno lamentoso.
Il sole di fine estate entrava di sbieco dalla finestra aperta e brillava sui piatti impilati al lato del lavello. La mamma aveva le mani ficcate in una nuvola di schiuma che odorava di limone e canticchiava a labbra strette, la sua figura sottile vestita di un azzurro che quasi sembrava polveroso nella luce della cucina. Remus si arrampicò in ginocchio su una sedia, col sorriso sciocco di ogni volta che la mamma canticchiava. Era una cosa divertente, che faceva sentire Remus con la testa leggera e la faccia che doveva scoppiargli da un momento all'altro, tanto sorrideva. Papà, una volta, gli aveva sussurrato all'orecchio che era una specie di magia e le guance della mamma, che li aveva sentiti, erano diventate di uno splendido rosa acceso.
Da sopra il lavello, Hope si era girata a guardare il suo bambino, il canticchiare che si era spento morbidamente.
«Hai finito su in camera?» gli chiese afferrando un asciughino, le mani orlate di schiuma.
«Sì, ho svuotato tutte le scatole!» la informò soddisfatto lui, agitandosi sulla sedia con un meraviglioso sorriso a incurvagli le labbra piccole e piene.
Hope non ebbe bisogno di chiedergli di più, conosceva suo figlio tanto da essere certa che avesse davvero messo tutto a posto. Sospirò, solo per una volta avrebbe voluto poterlo rimproverare, sgridarlo per qualcosa che non aveva fatto, qualunque cosa pur di togliergli di dosso tutta quella enorme, ingombrante, responsabilità che non lo lasciava mai. E invece il suo bambino era già grande, con l'orrore di cose che non avrebbe mai dovuto vedere che gli scorreva nel sangue e gli segnava la pelle, graffi e morsi che Hope si sentiva addosso tanto quanto lui.
Il sorriso di Remus, intanto, era ancora là – luminoso come il sole che allungava le ombre sulle pareti – e lei si sentì un po' in colpa per essersi distratta con quei pensieri quando lui, il suo bambino, se ne stava lì così, a fissarla e sorriderle. L'orrore sembrava appartenere ad un'altra vita.
Hope si tenne stretta la sensazione e fece schioccare l'asciughino che ancora stringeva tra le mani.
«Allora, visto che sei stato così bravo, ti meriti proprio una bella merenda!», fece l'occhiolino al figlio e con una ridicola giravolta andò al frigorifero. Ne aprì di scatto la porta e ci si chinò: non c'era molto e non era solo perché si erano appena trasferiti. La verità era che i soldi avevano cominciato a scarseggiare e tutto il resto si era adeguato. Tutto si era modellato alla maledizione che era entrata in casa loro, tutto si era fatto ferire da quella condanna, in un'invisibile solidarietà a Remus. Ma era una cosa triste, che peggiorava solamente le cose, e Hope soffocò in fretta il pensiero tenendosi saldamente attaccata al sorriso del suo piccolo, così bello nonostante tutto.
Un vasetto di marmellata e un bricco di latte furono posati sul tavolo e la porta del frigo venne chiusa con un piccolo calcio.
Remus scivolò a sedere, le ginocchia ossute ormai indolenzite, mentre la mamma trafficava con spesse fette di pane. Il sole che entrava dalla finestra cominciava ad abbassarsi e, tra i vetri aperti, il bambino scorse il padre. Lyall sembrava interessatissimo alla malconcia siepe che cingeva il giardino ma in realtà, Remus lo sapeva, con la bacchetta nascosta nella manica della camicia, stava circondando la loro nuova minuscola casa di incantesimi di protezione. E vedere papà fare le magie – senza parlare, senza quasi muoversi – era la cosa più piacevole, se non l'unica, del cambiare continuamente casa. Remus fremeva dalla voglia di fare domande ogni volta – Che incantesimi hai fatto, papà? E come si fanno? Me li insegni? – e anche in quel momento, col collo allungato per vedere meglio, sentiva le mani prudergli dalla curiosità.
Papà diede un ultimo colpetto alla siepe, a una sparuta manciata di foglioline avvizzite, e uno sfarfallio di luce brillò accanto al suo polso.
Un piattino tintinnò sul tavolo e la fetta di pane alta e lucida di marmellata che lo riempiva lo distrasse dalla finestra e dal papà. All'improvviso tutta la sua attenzione si era concentrata sul pane morbido e sul sapore amarognolo della marmellata di arance. Il suo stomaco gorgogliò d'approvazione.
Remus aveva già attaccato il bicchiere di latte quando il padre rientrò in casa, la faccia arrossata dal sole. Lyall gli scompigliò i capelli e gli si sedette vicino dando uno sbuffo esagerato.
«Quella siepe è davvero messa male. Credo che neppure la magia potrà fare nulla per lei!» sospirò, sospettosamente melodrammatico.
«Non servirà nessunissima magia, caro! Basteranno queste mie belle manine e il mio infallibile pollice verde!» lo rimbeccò Hope agitandogli le mani davanti agli occhi.
«Mh, tu dici?»
Il tono di Lyall suonò così scettico che Remus non si stupì nemmeno un pochino della manata che si guadagnò. La mamma aveva la bocca aperta e un'espressione che era comicamente oltraggiata e Remus pensò che era bella – ed era bello anche il papà – quando faceva così, con le smorfie e il tono e gli scherzi che la facevano sembrare una ragazzina – che facevano sembrare entrambi dei ragazzini.
Lyall, un po' borbottando e un po' ridendo, si alzò a recuperare un bicchiere e se lo riempì di latte, Hope e il suo sgambetto scampati con agilità. Remus nascose una risatina in quel che restava del suo pane e marmellata e si guardò un po' intorno, il sole che si ritirava nelle ombre della sera.
Non più illuminata, la siepe attorno a cui papà aveva armeggiato sembrava ancora più patita di prima con le sue poche e malandate foglioline. Attraverso i suoi molti spazi vuoti,  Remus intravide la facciata bianca di una casina minuta e piena di fiori e un'altalena che oscillava – e un paio di sandali bianchi, una coda di capelli lunghissimi e due manine strette alle catene del seggiolino.
Era una visione frammentata, ora un particolare ora l'altro, che aveva la consistenza inafferrabile del sogno. Remus sapeva che era reale, che era oltre la siepe e dall'altro lato della stradina, lì dove alcune casette se ne stavano tutte addossate tra loro, e lui pensò che sarebbe stato bello andare a conoscere la bambina dell'altalena o anche solo appoggiarsi alla facciata bianca e guardarla dondolare. Si sarebbe accontentato di così poco, Remus.
«...e domani comincerò a sistemare la cantina», disse papà e lui tornò di colpo lì, con la sedia che tutto ad un tratto era diventata scomoda. Il resto del discorso se l'era perso ma quella frase l'aveva sentita tutta e lo stomaco gli si attorcigliò. Papà non si aspettava che lui dicesse niente e niente disse. In realtà, non si aspettava che nessuno dicesse qualcosa, frasi del genere non venivano mai discusse; erano solo dati di fatto, informazioni fornite in mezzo a un mucchio di altre parole. Eppure non si confondevano mai nel resto delle cose dette – mai sotto traccia, mai inosservate, mai innocue. Avevano a che fare con un sacco di incantesimi che Remus non voleva nemmeno conoscere, con porte da rinforzare e pareti da insonorizzare e finestre da sbarrare e con una paura così grande che gli toglieva il sonno e il fiato. Erano parole tremende per lui, per loro, e avevano guastato tutto il buono di quel momento e della casa nuova. Tutto tornò improvvisamente triste, come nella casa di prima e in quella prima ancora.
Remus si tirò indietro contro la sedia giocherellando col piattino vuoto, l'indice destro che seguiva il profilo dei fiori sulla porcellana blu, e Lyall lo imitò col bicchiere di vetro smerigliato. Erano dolorosamente simili, le spalle piegate e gli occhi grandi, tanto vulnerabili da fare male. Hope sfuggì da loro rituffando le mani nel lavello, come se tutto potesse sparire con l'acqua e la schiuma giù per lo scarico.
«Su, da bravi, uno di voi mi porti quei bicchieri!»
Hope ingoiò il groppo in gola e si sforzò di suonare allegra, forse poteva salvare qualcosa di quel pomeriggio e tenere lontano l'inevitabile almeno un altro po': per i giorni che mancavano sul calendario, la luna doveva restare un'ombra incompleta nel cielo.
Lyall sembrò sollevato di potersi aggrappare alla spensieratezza, seppur finta, della moglie e si affrettò a recuperare i bicchieri sporchi e il piattino vuoto. Incrociò gli occhi del figlio, con il sorriso che non arrivava ai suoi e una carezza sul braccio che chiedeva scusa. Erano tutte così le carezze di papà, colpevoli e dispiaciute, e Remus sospirò piano, triste. Tornò a guardare fuori dalla finestra, la testa appoggiata sulle braccia incrociate.
L'altalena, oltre i buchi della siepe, dondolava vuota e lui si chiese dove fosse sparita la bambina. Forse dentro casa o forse a giocare con qualche altro bambino. Qualunque fosse la risposta però, di certo non lo interessava e mai lo avrebbe fatto. Mai avrebbe potuto. Mai avrebbe dovuto. Il lupo aveva già reclamato anche quella casa, i segreti e le bugie per nasconderlo e non ci sarebbe stato spazio per la bambina e per l'altalena. Sarebbero restati al di là della siepe, dall'altro lato della stradina, con la loro consistenza da sogno e Remus li avrebbe aggiunti alla sua bella fantasia e alla stanza piena di amici.
E sarebbero stati casa, col canticchiare della mamma e le carezze tristi di papà, molto più di quelle stanze minuscole e di tutte le altre che sarebbero venute.
  
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