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Autore: Fannie Fiffi    27/08/2014    4 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buonasera, miei adorati!
Ringrazio le fantastiche ragazze che recensiscono i capitoli con costanza e pazienza, ringrazio le fantastiche persone che hanno reso possibile questo progetto e mi hanno spronata e motivata a fare sempre di meglio.
Siete delle meravigliose persone, davvero.

Non ho molto da dire, se non che ho riscritto alcune parti di questo capitolo almeno dieci volte. Non so se di alcune di queste sono soddisfatta, ma lascio a voi il giudizio.

Buona lettura!





 

 



 
Is It Any Wonder?
 

 






Non appena Octavia sentì bussare alla porta della propria camera, si affrettò a nascondere il diario che le aveva regalato Lincoln sotto uno dei tanti cuscini che le ornavano il letto.

« Chi è? » Domandò con voce seccata.

Sapeva bene che non potesse trattarsi di suo fratello, lui non era di certo il tipo che arrivava ad implorare di fare la pace dopo un solo giorno, ma non aveva ugualmente voglia di parlare con qualcuno.

« Babbo Natale! »

« Idiota. » Sbuffò lei, senza però essere capace di trattenere un sorriso.

Con qualche difficoltà l’uscio si aprì e rivelò la figura di Atom, intento a non rovesciarsi addosso i due recipienti di cartone contenenti i loro caffè.

« Caffèlatte con panna e cannella per la graziosissima O e un espresso nero e senza zucchero per il sottoscritto. »

La giovane, che fino a quel momento era rimasta sdraiata, si mise a sedere e accettò volentieri la bevanda che le veniva offerta.

« Sai, voi Blake dovreste pagarmi per diventare il vostro psicologo personale. Ci farei una fortuna. » Scherzò lui, accomodandosi al suo fianco.

Così com’era venuto, il lieve sorriso sulle labbra di lei scomparve.

« Ti ha mandato lui? »

L’amico la guardò stralunato e sconvolto, poi rispose: « Preferirebbe auto mutilarsi piuttosto che chiedere aiuto. »

« Ma ti ha detto cosa è successo. » Tirò ad indovinare, sapendo che il suo eroico fratellone non riuscisse a non andarsene in giro a raccontare di come aveva salvato la sua ribelle sorellina dal baratro dell’oblio.

L’espressione di Atom si fece seria e annuì, iniziando ad accarezzarle dolcemente i capelli.

« Lui voleva solo proteggerti. Insomma, la tua non è stata una mossa particolarmente sveglia… No? Non voglio comunque farti la predica, ma devi sapere che quello era uno sbaglio. Hai sbagliato, O.  E conosci Bellamy, lui farebbe qualsiasi cosa al mondo per te, per tenerti al sicuro. Il suo motto è: “Chiunque la tocchi, risponde a me” per un motivo preciso. » Accennò una risata divertita al ricordo del tono assolutamente serio con cui il suo amico aveva pronunciato quelle parole.

« Mi ha confinata in casa. Non posso uscire. Ti sembra normale? » Domandò lei con incredulità e ostilità, passandosi una mano fra i lunghi capelli scuri.

« E, mh, in proposito… », il suo tono di esitazione non le sfuggì, « mi ha chiesto di tenerti d’occhio. »

« Cosa? » La voce di Octavia si alzò di qualche tonalità, raggiungendo forse l’isteria.

« Posso parlargli, posso farlo ragionare. » Si affrettò a replicare lui, vedendo il panico iniziare a dilagare sul volto della giovane Blake. « Per il momento, però, tu rimani qui. Mi dispiace. »

Si prefigurò nella mente la scena della brunetta che perdeva completamente la testa e iniziava ad urlare, ma la sua reazione lo sorprese e lo spiazzò: avvicinandosi lievemente al suo viso, osservandolo attentamente negli occhi, gli scoccò un sorrisetto furbo e sussurrò piano: «  Renderò la tua vita un inferno vivente. »

E, annuendo velocemente, si alzò dal proprio letto e uscì dalla stanza, lasciandolo lì, impalato e sbalordito.
 




 
*


 
Clarke sfogliava pigramente e distrattamente il giornale, seduta al bancone della cucina, quando percepì una presenza alle sue spalle.

Si era svegliata da poco, ma sapeva bene che non poteva trattarsi né di sua madre – che pareva aver preso fissa dimora al Mount Weather Hospital – né di Thelonious, perciò si sentì automaticamente più sicura.

Voltandosi di poco, vide il suo fratellastro appoggiato con la spalla destra e le braccia incrociate all’uscio della porta, che la osservava con un sorriso appena abbozzato sulle labbra.

« Che c’è? » Domandò confusa.

L’altro accennò una risata e si avvicinò al piano cottura. « Niente, niente… »

« Voglio saperlo. » Insistette lei testardamente, seguendo ogni suo movimento con gli occhi.

«  È solo che… la solitudine sembra il tuo ambiente naturale. È strano. » Confessò Wells, tenendo lo sguardo fisso sulla bottiglia d’acqua che stringeva nella mano sinistra.

« È normale, per me. » Si giustificò lei con una scrollata di spalle.

« Mi preoccupa. »

Oh, no. Clarke era ben consapevole di cosa significasse: l’aveva osservata, come era sempre stato solito fare, e si era accorto che qualcosa non andava.

Ma come poteva dirgli che la rarità era che qualcosa andasse effettivamente bene?

Si protrasse in avanti sullo sgabello e si appoggiò con i gomiti alla superficie davanti a sé, scandendo con attenzione e cura le parole: « Non c’è nulla di cui preoccuparsi. »

« Prometti? »

Quella parola ad altri sarebbe potuta apparire stupida, forse scontata, sicuramente insulsa, ma la giovane Griffin sapeva bene cosa significasse.

Fin da quando ne aveva memoria, lei e Wells erano spesso ricorsi a quella specie di giuramento vitale e indispensabile: ogni qualvolta uno di loro dovesse fare qualcosa di importante o si assumesse un compito preciso, l’altra avrebbe utilizzato la loro parolina magica, come un incantesimo che li avrebbe protetti da qualsiasi catastrofe.

Il loro primo “prometti?” era avvenuto all’età di probabilmente sei anni, quando la bionda aveva iniziato a muoversi sulla sua bicicletta con le rotelle.

La prima volta che era salita su quello che le pareva un aggeggio infernale, si era guardata alle spalle con aria terrorizzata e lui aveva annuito sicuro, giurandole che non l’avrebbe mai fatta cadere. Quando era partita,Wells, di poco più alto di lei, l’aveva tenuta stretta finché lei non aveva preso velocità, e l’azione si era ripetuta per molte volte, prima che lei imparasse effettivamente ad andare in bici.

Lui stesso era semplicemente un bambino, ma fin dal primo momento la sua premura era stata quella di proteggerla e tenerla al sicuro.

« Prometto. »

La tensione nella stanza sembrò alleggerirsi, e il ragazzo smorzò la solennità del momento con una risata appena abbozzata e breve.

« Abby mi ha chiamato, prima, mi ha detto che non tornerà per pranzo. Stessa cosa per mio padre, un’improvvisa riunione in ufficio. Hai fame? »

Sorpresa dalla domanda, Clarke gettò un’occhiata fugace all’orologio da polso di suo padre solo per accorgersi che si era quasi fatta ora di pranzo.

« Non molto, in effetti. »

« Che ne dici della mia specialità? » La tentò lui, sollevando un sopracciglio e facendo l'occhiolino falsamente.

« L’insalata condita non è una specialità », lo corresse sarcasticamente, « è l’essenziale istinto di sopravvivenza. »

Il giovane Jaha sminuì l’affermazione della sua sorellastra con un gesto della mano e le diede le spalle.

« Ci sto, ma prima devo farmi una doccia. »
 

 
Il lato positivo dell’estate, pensò la bionda mentre frizionava i propri capelli biondi contro un asciugamano, era evitare di dover usare il phon e passare ore davanti allo specchio tentando di sgonfiare la propria chioma ribelle.

Stringendosi nell’accappatoio rosa shock che le arrivava fino ai piedi e le cui maniche le nascondevano le mani – l’aveva comprato secoli prima, l’aveva trovato divertente – la giovane lasciò i capelli umidi liberi sulle spalle e uscì dal proprio bagno, dirigendosi in camera sua.

Non appena si avvicinò alla finestra per aprire le tende e lasciar entrare un po’ di luce, la giovane Griffin si accorse immediatamente dello schermo del suo cellulare che si illuminava alla propria destra.

C'era già un messaggio inviatole esattamente quattordici minuti prima, ma decise di leggere quello appena arrivato. Si trattava di un numero sconosciuto.
 

Bell'accappatoio.
 

Clarke impallidì e si appoggiò alla propria scrivania. Che diavolo significava? E chi gliel'aveva mandato?

Lievemente scioccata e anche un po' spaventata, gettò uno sguardo fuori dagli infissi aperti.

Il ghigno di Bellamy le apparve chiaro anche attraverso la vetrata della sua cucina, e subito si siede della stupida per essersi parata davanti alla finestra.

Riservandogli un'occhiataccia dalla distanza che li separava, riportò la propria attenzione al cellulare.
 

Ora mi spii anche? Chiedo scusa per la mancanza dell'illustre asciugamano inguinale e striminzito in cui si ritrova inesorabilmente ogni protagonista femminile di qualsiasi film, la prossima volta non provvederò. Anzi, sto chiudendo le tende.
 

Chiudile, allora.
 

La sua risposta le giunse fulminea, e non poté trattenersi dall'accennare un lieve sorriso. Come un segno divino, le lunghe tende cremisi si mossero per la lieve brezza estiva, ma Clarke non fece nulla.
 

Chi ti ha dato il mio numero?
 

Rivolse uno sguardo fugace verso le finestre della cucina di casa Blake, solo per notare che Bellamy la stava già osservando. Lo vide abbassare gli occhi verso il proprio telefono e digitare velocemente una risposta.
 

Mia sorella. Ti passo a prendere alle cinque, andiamo al 221B.
 

La bionda, leggendo quelle parole, aggrottò le sopracciglia. Allora aveva davvero cambiato idea? Sarebbe riuscita a non farsi nuovamente coinvolgere da lui? Prima che potesse rispondere, il suo smartphone trillò nuovamente; questa volta, però, non era il suo vicino di casa.
 

Questo pomeriggio ti offro un caffè, ci stai?
 

Oh, merda. Era Jasper. E le chiedeva di vedersi. Si trattava forse di un assai poco piacevole scherzo cosmico?

L'universo le stava per caso mandando un messaggio implicito? Hai voluto tutto? Ora scegli, stronza.

Inoltrò il messaggio del suo migliore amico e lo mise in attesa, dedicandosi all'altro.

Sapeva che quella era la prima vera possibilità di essere presa in considerazione e ascoltata riguardo quello che era accaduto al padre, ma era anche ben consapevole del fatto che aveva quasi perso il suo migliore amico per averlo lasciato fuori dalla propria vita.

Eppure, la parte più intima e profonda di sé sapeva bene che, in fondo, non c'era proprio alcuna scelta da compiere.
 
Va bene.
 
Alzò ancora una volta lo sguardo e notò immediatamente il veloce sorriso sulle labbra del maggiore dei Blake.
 
 



 
*


 
Bellamy fece retromarcia dal proprio vialetto e puntò lo specchietto retrovisore in modo da tenere sott'occhio l'ingresso di casa Griffin.

Alle cinque e trenta secondi, almeno secondo il suo Moonwatch, Clarke uscì e attraversò con espressione seria e concentrata il proprio vialetto.

Prima che potesse raggiungere la sua automobile, però, la vide bloccarsi e raggiungere con la mano sinistra la tasca posteriore degli shorts di jeans; si portò il telefono all'orecchio e rispose.

La osservò piegare il capo verso il basso e parlare in modo sbrigativo, calciando lievemente con il piede destro e passandosi una mano fra i capelli dorati.

Quando raggiunse lo sportello del passeggero della sua macchina, si voltò dall'altro lato e finse disinvoltura.

« Principessa. » Disse a mo' di saluto.

« Blake. » Il più grande non attese un attimo di più, bensì mise in moto e si concentrò sulla strada, cercando di memorizzare senza intoppi il tragitto che aveva già compiuto una volta.

Il viaggio fu piacevolmente silenzioso per qualche minuto, prima che Clarke allontanasse il capo dal finestrino e si voltasse verso il sedile del conducente, raggomitolandosi su se stessa e poggiando la guancia allo schienale del passeggero.

« Bellamy? »

« Sì? »

« Perché hai cambiato idea? » Il suo tono sarebbe potuto essere diffidente, freddo, forse risentito, dato il disastro che era stato il loro primo tentativo, ma non riuscì ad essere nessuna di queste cose: nonostante le divergenze di opinioni che avevano avuto, lui era lì, in quel momento, e lei gli era semplicemente grata.

L'altro le rivolse un'occhiata fuggevole e, dopo aver atteso qualche momento, parlò: « Non volevo mettere mia sorella nei guai, ma a quanto pare è bravissima a farlo da sola. E poi... » Si bloccò, alla ricerca delle parole adatte, « sarà come un qualsiasi caso del Dipartimento. Certo, la Omicidi non è la mia sezione, ma ti aiuterò. »

Si erano fermati ad un semaforo, quindi lui si voltò nella sua direzione e abbozzò un lieve sorriso. La bionda non fu in grado di fare altro che sorridergli a sua volta e tentare in quel modo di trasmettergli la propria riconoscenza.

« Che è successo ad Octavia? » Domandò infine, quando la macchina ripartì.

« Si è fatta beccare su un'auto rubata con dei totali idioti. »

Clarke rimase per un attimo sorpresa, meditando o meno se dirgli che sapeva fin dall'inizio delle pessime compagnie che sua sorella aveva iniziato a frequentare.

Era consapevole che quelli non fossero affari suoi e che non aveva alcuna intenzione di tradire la fiducia di Octavia – in fondo, la considerava già un’amica – per non parlare del fatto che aveva oramai cominciato a comprendere il carattere di Bellamy, così protettivo da risultare spesso possessivo, perciò decise per un'altra strada: avrebbe potuto parlare con Lincoln, dirgli di lasciare la giovane Blake fuori dai suoi piani autodistruttivi e malsani.

Non che non l’avesse mai fatto prima, ricordava ancora alla perfezione l’ amichevole chiacchierata che avevano intrattenuto anni prima riguardo a Jasper.

« Dopo tutto quello che ho fatto... » Il sussurro del moro la riportò alla realtà, e lei si concentrò ancora una volta sul suo volto inquieto.

« Ehi, non è colpa tua. Per quanto tu possa essere arrogante, saccente, sempre serio, qualche volta un po’ idiota…
»

« Arriva al punto, Principessa. » Sbuffò lui.

« Sei un buon fratello, non biasimarti per i suoi comportamenti. Vedrai che andrà tutto bene. »

Di nuovo caddero in una quiete piacevole, e Clarke puntò il viso davanti a sé, costringendosi a smettere di fissarlo.

« Bellamy? » Lo richiamò nuovamente.

« Dimmi. »

« Non aprirò mai più le tende della mia stanza. »
 
 
Quando parcheggiarono a pochi metri dal cancello e spensero la macchina, la luce del sole ricadeva in caldi raggi dorati contro i loro volti, illuminandoli.

Bellamy allungò il braccio verso lo sportello sotto al cruscotto, proprio davanti a Clarke, e vi tirò fuori un paio di rayban neri. Richiudendolo, il suo gomito sfiorò il ginocchio della bionda, che scattò sul posto.

Lui, ancora piegato in avanti, si raddrizzò e mormorò: « Scusa. »

« Scusa tu. » Rispose lei, il tono estremamente basso e gli occhi sfuggenti.

Il maggiore dei Blake si schiarì la voce e scese velocemente dall’automobile, seguito immediatamente dalla giovane Griffin.





 
*



Clarke si richiuse la saracinesca alle spalle e accese la luce.

Non c’erano finestre, in quel piccolo ambiente, perciò fu tutto come la prima volta in cui l’aveva portato lì.

Prendendo un respiro profondo, si avviò verso la parete davanti a loro, sfiorando con i polpastrelli le foto di suo padre e gli articoli di giornale che erano stati scritti in seguito alla sua morte, o quelli che riguardavano l’Ark.

« Allora », parlò Bellamy dopo qualche istante, avvicinandosi a lei, « per prima cosa, devi dirmi tutto su Jake Griffin. »

Tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni color kaki un piccolo registratore e lo mostrò alla bionda, che annuì e sospirò.

Fece partire la registrazione.

« Jake Griffin, nato il 21 Giugno 1967 a Phoenix, Arizona. » Poteva percepire quanto fosse difficile per lei parlare di suo padre come di un estraneo, limitandosi a definirlo semplicemente tramite numeri e zone geografiche, ma non c’era altro modo. Se voleva davvero scoprire la verità, allora doveva affrontare quella parte.

Il moro si guardò intorno, in cerca di una superficie su cui poter appuntare le informazioni, e trovò una piccola lavagna bianca alla propria destra. Quando Clarke gli passò un pennarello nero, si affrettò a scrivere quello che gli aveva appena detto.

« Parlami della vostra famiglia. » Le chiese in un tono che le sembrò insolitamente dolce, ma che al tempo stesso era ben fermo.

Entrambi si sedettero sulle sedie presenti ai lati della minuscola stanza, l’uno di fronte all’altra.

« I miei genitori si sono conosciuti al liceo e si sono innamorati immediatamente. Si sono diplomati, ma poi, dovendo pensare all’università e al loro futuro, hanno deciso di prendersi un po’ di spazio. »

« Qual è il nome da nubile di tua madre? »

« Abigail Turner. »

« E qual è il suo attuale impiego al Mount Weather Hospital? »

« Lei è… Lei è il primario di chirurgia. »

« E tuo padre era un ingegnere. Sai dove si sono laureati? » Il tono di Bellamy era incredibilmente professionale: concentrato e dritto al punto, preparato sulle domande da porre.

« No, non lo so. Ma posso informarmi. »

Il più grande annuì, poi spense il registratore. « Questa parte penso di poterla ricordare. Continua a parlarmi di voi. »

« Come dicevo, i miei si sono presi una pausa, ma hanno presto capito di non poter separarsi. » La sua voce si spezzò sull’ultima parola, e lui fu incredibilmente tentato di chiudere tutto e di portarla via di lì.

Clarke fece un respiro profondo e continuò: « Si sono sposati il 12 Ottobre 1991. Quattro anni dopo sono nata io, la loro unica figlia.

« Thelonious e i miei genitori si conoscono dal liceo, credo uscissero regolarmente insieme. Lui è sempre stato il miglior amico di mia madre. La sua prima moglie, Helena, è morta dando alla luce Wells. Io e lui siamo praticamente cresciuti assieme, abbiamo sempre passato tutto il nostro tempo insieme. »

Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, fermandosi per qualche attimo. Non sapeva se stesse facendo le cose nel modo giusto, la sua mente sembrava correre velocemente e sfuggire dal proprio controllo.

« Nella mia testa c’è un ricordo, ancora così vivido da poterlo disegnare nei minimi dettagli, dei pomeriggi passati insieme a mio padre, Wells e Thelonious a vedere le partite di baseball e a parlare di come saremmo stati “da grandi”, dei nostri progetti. Noi eravamo lì, insieme chissà ancora per quanto, e tutto quello a cui pensavamo era il futuro. Se potessi tornare indietro, tutto quello che farei sarebbe vivere quel giorno come fosse l’ultimo, senza sprecare tempo a immaginare una vita che non mi sarebbe mai appartenuta. »

« E come… »

« Come hanno fatto i nostri genitori a sposarsi? » Chiese lei con amarezza e sarcasmo. « Avevo sedici anni, Wells ne aveva diciassette. Mia madre… Non lo so, non so come sia potuto succedere. » Ammise infine, abbassando il capo e portandosi la mano sinistra alla fronte.

« Vuoi che ci prendiamo una pausa? »

« No, sto bene. So solo che Thelonious ha cominciato a trascorrere sempre più pomeriggi a casa nostra. La portava fuori, le preparava la cena, cose del genere. Io ero troppo occupata a preoccuparmi del mio dolore per accorgermi di quello che stesse effettivamente succedendo. Una sera, un anno dopo, ci ritroviamo seduti al tavolo della cucina di casa nostra. Abby prende qualcosa dal taschino della camicia bianca e si infila un anello all’anulare sinistro. Alza la mano e me lo mostra. “Ci sposiamo”, dice. »

Durante tutto il tempo Clarke si era impegnata con ognuna delle sue forze per rimanere concentrata ed impedirsi di piangere, ma quel ricordo la portò incredibilmente vicina all’orlo del baratro. Non sapeva perché – conservava certamente ricordi assai peggiori – ma quello fu ciò che la incrinò definitivamente.

Piegò il volto verso il basso e lasciò che le ciocche bionde la nascondessero, mentre le prime stille salate cominciavano a scivolarle giù per le guance.

Odiava quello che era successo, ma più di tutto detestava farsi vedere debole, così fragile da poter crollare in mille pezzi e rivelare così la parte di sé che non era riuscita ad accettare di essere privata del prezioso dono che era stato Jake Griffin. La prima e ultima volta che aveva pianto per suo padre, in ospedale, le uniche persone che l'avevano vista erano state sua madre e Jasper.

Quando un singhiozzo sfuggì dalle labbra che tentava di tenere sigillate, Bellamy la richiamò con un sussurro: « Ehi... »

« Sto bene. » Rispose con fare sbrigativo lei, tirando su col naso e portandosi il dorso della mano davanti alla bocca, ancora incapace di guardarlo negli occhi.

Gli sembrava così piccola, rannicchiata contro se stessa, e non sopportava di vederla piangere.

« Con me non devi fingere, Clarke. »

In quel momento sollevò il capo: i meravigliosi occhi blu arrossati, le guance rosse e le labbra tremanti, mentre tentava inutilmente di riuscire a controllarsi ed evitargli quella patetica scena.

Il moro, ancora seduto davanti a lei, allungò il braccio destro nella sua direzione, il palmo rivolto verso l'alto; spostando lo sguardo dai suoi occhi alla sua mano e viceversa per qualche attimo, la giovane si avvicinò con esitazione e la sua grande mano si richiuse attorno alla propria, effettuando una lieve pressione.

Si alzò come in una trance e, trascinata delicatamente dalla sua mano, si pose davanti a lui, in piedi.

Bellamy sollevò il volto per studiarla e le sorrise appena, cercando in qualche modo di rassicurarla e farla sentire meglio.

Rimasero a guardarsi per pochi secondi, le loro dita ancora intrecciate, poi lui parlò: « Vieni qui. »

Clarke abbandonò la presa sulla sua mano destra e lentamente poggiò entrambi gli avambracci sulle sue spalle, circondandogli il collo con le dita.

Non voleva pensare a nulla: né alla promessa che si era fatta di non considerarlo più di un collega e un amico, né di ciò che lui avrebbe potuto pensare.

Era perfettamente consapevole, in quel momento, che Bellamy fosse l'unico in grado di capirla, l'unico capace davvero di confortarla.

Si piegò verso di lui nello stesso attimo in cui le sue mani giunsero a cingerle i fianchi, spingendola con dolcezza a sedersi sulle sue ginocchia.

Affondò il volto nel suo collo e l’altro le abbracciò la schiena a piene mani, cullandola impercettibilmente e sfiorandole i capelli con parole di incoraggiamento.

Avrebbe voluto assicurarle con tutta la certezza di cui fosse capace che sarebbe tutto finito presto, che la sofferenza sarebbe, prima o poi, scomparsa.

Ma lui lo sapeva, non sarebbe mai passato. Quel peso sarebbe rimasto lì, bloccato al centro del suo petto, e non sarebbe mai più stata in grado di dimenticarlo. Ciò che avrebbe potuto fare, però, era andare avanti. Imparare ad accettarlo come parte di sé.

E così le disse. « Il tuo dolore non se ne andrà mai, Clarke, e non puoi farlo andare via. Quello che puoi fare, invece, è decidere come usarlo: puoi permettergli di divorarti o puoi lasciarlo fluire, diventare parte di te ed essere la tua forza. Solo chi soffre ce la fa, ricordalo sempre. »

In quel momento percepì le sue lacrime bagnargli il bordo della t-shirt, seguite poco dopo dalle sue parole confuse, mormorate contro la sua pelle: « Non so come essere forte. »

Il più grande portò la mano sinistra sulla sua testa, accarezzandole delicatamente la chioma dorata.

« Tu sei una guerriera. Quando hai paura, quando non ti senti all'altezza, tu stringi forte i denti e ripeti: "Io sono una guerriera." E sei meravigliosa, sei meravigliosa, lo sei. »

La sentì assentire velocemente, poi Clarke si allontanò di poco, quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi: « Portami a casa. »

Bellamy annuì, e subito dopo il calore del corpo di lei scomparve dalle sue gambe.

Prima che potesse dire o fare qualcosa, la bionda si asciugò il viso con il dorso della mano destra e ancora una volta tirò su con il naso.

« Sei un dannato bastardo, Bellamy Blake. » Parlò lei con un accenno di sorriso sul volto, rivolgendogli un'occhiata complice.

« Lo so, Griffin, lo so. »


 
Il viaggio di ritorno fu estremamente tranquillo, ma anche più lungo.

Bellamy si era dovuto fermare a comprare delle lenti a contatto per quella spina nel fianco di sua sorella, ma Clarke aveva preferito aspettarlo in macchina, assicurandogli che non sarebbe di certo fuggita mentre lui non guardava.

Il moro aveva tenuto lo sguardo fisso fuori dalla vetrina per tutto il tempo, tenendo sott'occhio la propria macchina e battendo lievemente il piede destro contro il pavimento di linoleum, in attesa del proprio turno.

Quando era tornato al veicolo, dopo dieci minuti buoni, aveva trovato la bionda addormentata, il capo poggiato al finestrino nella sua abituale posizione e le braccia strette al petto.

Si era seduto al suo fianco e aveva atteso qualche secondo, limitandosi essenzialmente ad osservare la sua espressione finalmente più rilassata, poi aveva sorriso.

Se ne era accorto solo quando aveva intravisto il proprio riflesso nello specchietto retrovisore, e il fatto di star sorridendo aveva soltanto accentuato il suo ghigno.


Non appena parcheggiò nel proprio vialetto, Clarke sembrò svegliarsi da un sonno durato ore: aprì lentamente le palpebre, sbattendole piano un secondo dopo, e si portò una mano agli occhi per sfregarli.

« Ben svegliata, Principessa. »

« Oh, Dio, dimmi che non ho russato. » Rispose lei, soffocando uno sbadiglio e voltandosi nella sua direzione.

« Ho solo dovuto alzare il volume della radio, non preoccuparti. » Il suo tono era serio, perciò la bionda sprofondò il volto fra le proprie mani.

« Sto scherzando, sto scherzando. » Si affrettò ad aggiungere dopo qualche istante, rilevando il suo imbarazzo.

Bellamy spense la macchina e scese, seguito velocemente dalla bionda. Si osservarono per qualche attimo da un lato all'altro dell'automobile, le espressioni finalmente rilassate.

« Perché non ceni con me stasera? Cioé, con me e... Vorrei presentarti i miei amici. » Terminò lei con un sospiro e un sorriso impacciato, dopo aver gesticolato con entrambe le mani alla ricerca delle parole giuste.

Il maggiore dei Blake abbassò il capo e sorrise, riportando poi l'attenzione al suo volto e annuendo. « Ci vediamo dopo. »

A Clarke piacque più del dovuto quell'implicita promessa.
 




 
*


 
« Ehi, Jazz, sto ordinando la pizza! Il solito? » Monty urlò da un piano all’altro della propria casa, cercando, per quanto potesse, di farsi sentire dall’amico.

Data la piacevole notizia della riappacificazione fra il giovane Jordan e Clarke, i due avevano deciso di trascorrere la giornata insieme. Ovvio, nel progetto originale sarebbe dovuta esserci anche la bionda, ma aveva misteriosamente disdetto l’appuntamento per il pomeriggio, assicurandogli e promettendogli però di esserci per cena.

« Sì, amico, peperoni e prosciutto e uova e olive… »

« Ho capito, ho capito. »

Prendendo in mano il telefono di casa e digitando il numero che oramai aveva imparato a memoria, Monty attese in silenzio.

« Salve, vorrei ordinare una quattro formaggi, una capricciosa con peperoni extra e una vegetariana. »

Aveva praticamente imparato a memoria quella frase simile ad un mantra, abituato ad ordinare spesso sia per lui che per i suoi migliori amici, e portare avanti quella tradizione – soprattutto dopo gli ultimi eventi difficoltosi – non era mai stato bello come in quel momento.
 
 


 
*


 
Clarke e Bellamy si scambiarono una veloce occhiata, mentre aspettavano che qualcuno venisse ad aprire la porta di casa Green.

« Oh, Mon, merda! » La voce di Jasper urlò, ed entrambi furono perfettamente in grado di percepirla.

La bionda si schiarì la voce, evidentemente imbarazzata, ma il ragazzo al suo fianco non parve tanto sconvolto.

Finalmente l’ingresso si aprì, rivelando la figura del suo migliore amico, pronto a inondarli di parole: « Ho solo rovesciato un po’ di birra, solo un po’, tipregoaiutami… »

Quando si accorse che la giovane non era sola, si bloccò immediatamente e puntò lo sguardo improvvisamente serio sul volto di Bellamy.

« Ehi, Jazz. » La voce di Clarke riportò la sua attenzione su di lei, e l’amica si avvicinò per stringergli il braccio sinistro attorno al collo e posargli un lieve bacio sulla guancia.

« Lui è… »

« Mister Bicipiti. » Bisbigliò lui fra sé e sé.

« Bellamy. »

« Bellamy. » Ripeté l’amico a voce più alta, osservando il ragazzo davanti a sé con sguardo vacuo.

« Allora, » cominciò la bionda, stringendo la mano sinistra del maggiore dei Blake e trascinandolo all’interno, rassicurandolo con un debole sorriso.

Jasper si chiuse la porta alle spalle e ci si appoggiò, lasciando vagare per qualche attimo lo sguardo nel vuoto.

« Beh, lui è Jasper, il mio migliore amico. Bellamy è il mio nuovo vicino di casa. »

Il moro, che per tutto il tempo aveva mantenuto un’ espressione piuttosto contratta e seria, annuì una sola volta in direzione del ragazzo, non riuscendo a impedirsi di serrare la mascella nel mentre.

La situazione stava per precipitare in un baratro di silenzioso imbarazzo quando, come una creatura celeste discesa dal cielo per salvarli tutti, Monty si diresse velocemente giù le scale alla loro destra e raggiunse i tre.

Gettò un’occhiata un po’ confusa in direzione dell’amica, ma non fece domande.

« Ciao, io sono Monty », disse rivolto al più grande, avvicinandosi e porgendogli la mano, « il proprietario di casa. » Terminò con un sorriso.

« Bellamy. » Replicò l’altro stringendogli la mano in segno di benevolenza.

« C’è un problema, però… » Jasper prese nuovamente parola, staccandosi dall’entrata e gettandosi sul divano senza poche cerimonie, indifferente alle tre persone che se ne stavano in piedi al centro della stanza.

Il giovane Green, ben consapevole degli attuali pensieri del suo migliore amico, parlò al posto suo in un attimo: « Abbiamo ordinato solo tre pizze. »

« Non fa niente, Bellamy può avere la mia. Posso prepararmi qualcos’altro. »

« Decisamente no. » Intervenne il moro, spostando lo sguardo nel suo e prendendo una chiara posizione.

« E invece sì », affermò lei con sicurezza, sollevando il mento e sorridendogli, « anche se ti toccherà una vegetariana. Giusto, Monty? »

« Sapevo di andare sul sicuro. Sai, Clarke è fissata con queste cose da quando aveva tredici anni. »

« Sì, ne ho una vaga idea. » Asserì il maggiore dei Blake al ricordo della cena a casa sua. « Da quanto vi conoscete? »

« Da un tempo abbastanza lungo per capirla meglio di chiunque altro. » Intervenne immediatamente il giovane Jordan, senza nemmeno tentare di celare il tono di acidità e sarcasmo nella propria voce. Si guadagnò un’occhiataccia in cagnesco da parte dell’altro, che però non disse nulla.

« Bene! » Sbottò la bionda con un sorriso a dir poco finto e un certo tono di isteria, « Le pizze dovrebbero arrivare a momenti, no? »

Monty gettò un’occhiata all’orologio del lettore DVD e annuì: « Meno di dieci minuti. »

« Mi accompagni a preparare qualcosa da mangiare? » Disse quindi rivolta a Bellamy, che annuì e la seguì lontano dai due, verso la cucina.

Una volta in disparte, Clarke si appoggiò al piano cottura e si passò una mano sul volto.

« Tutto okay? » Disse il moro, parandosi davanti a lei ed osservandola.

« Sì, sì, sto bene. È solo che… Ultimamente io e Jasper abbiamo avuto dei problemi, e questa dovrebbe essere la nostra ufficiale serata di riappacificazione. »

Lui non rispose subito, ma compì un passo avanti e la guardò con attenzione negli occhi.

« Andrà tutto bene, vedrai. »

Clarke annuì velocemente e non riuscì a trattenersi dal sorridere. C’era qualcosa, nel suo volto, che le trasmetteva una rassicurante familiarità. Era una bella sensazione.

Bellamy poggiò la mano sinistra al bancone dietro le sue spalle, e la bionda seguì il movimento con lo sguardo.

Quando lo riportò su di lui, la sua mano destra era incredibilmente vicina al proprio viso. Le sue dita stavano per entrare in contatto con la pelle morbida della guancia di lei, quando qualcuno si schiarì la voce.

La prima ad interrompere il contatto visivo fu Clarke, che guardò oltre la sua spalla. Il maggiore dei Blake rimase a fissarla per un altro millesimo di secondo, poi voltò il capo di poco.

« La pizza è arrivata. » Jasper parlò senza la minima inflessione, incapace di staccare gli occhi dai due. Il vuoto nella sua espressione e nella sua voce erano facilmente percepibili.

« Ehm, sì, veniamo subito. »

Il giovane Jordan gli diede le spalle, muovendosi come un automa, e ritornò dall’amico.

« Ti preparo le uova? » Domandò Bellamy appena l’altro se ne fu andato, arretrando e dirigendosi verso il frigorifero.

Clarke annuì velocemente e tirò fuori una padella da uno degli sportelli davanti a sé. Aveva minuziosamente disegnato quella casa milioni di volte, conoscendone ogni angolo e ogni centimetro; ogni volta che vi metteva piede, i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza le tornavano alla mente.

Dopo aver versato l’olio e atteso che si scaldasse, il moro lasciò che le uova cuocessero un po’, prima di mischiarle al formaggio.

Osservandolo, la giovane Griffin non poté impedirsi di abbandonarsi a una lieve risata.

« Che c’è? » Domandò lui, spostando l’attenzione verso di lei con un mezzo sorriso.

« È solo… strano. Tu che mi prepari la cena in casa del mio migliore amico, intendo. »

« Se non ti nutrissi io, beh, credo moriresti di fame. » Scherzò, guadagnandosi un pugno sull’avambraccio sinistro.




La cena stava procedendo piuttosto normalmente, se si esclusiva il rigido mutismo di Jasper, interrotto solamente dalle sue frecciatine sarcastiche e dal suo generale e improvviso malumore.

« Ehi, Mon, come va la preparazione di quell’esame? » Domandò ad un certo punto Clarke, posando la forchetta e prendendo un sorso d’acqua. Ovviamente era stata l’ultima a finire, sebbene fosse quella che aveva mangiato di meno.

« Diciamo che sto contemplando l’idea di rimandarlo. Non so, non mi sento ancora pronto. »

« Ma se hai ancora un mese! » Contestò lei. « Sai, » si rivolse a Bellamy, che era seduto alla sua sinistra, « loro sono le persone più geniali che io conosca. Seriamente, rivoluzioneranno il nostro mondo. »

« La farmaceutica è attualmente sottovalutata, ma dopo che io avrò messo in atto alcuni progetti… » Iniziò Monty.

« … Sì, avrai abbastanza miliardi da poter invitare la regina d’Inghilterra a cena fuori, lo sappiamo. » Concluse Jasper con uno sbuffo, colpendo giocosamente l’amico.

Il suo umore sembrava migliorato, ma c’era ancora qualcosa che non andava, la giovane poteva percepirlo anche senza guardarlo.

« Sì, sì, scherzate pure! Sarò io a ridere quando mi implorerete di darvi un lavoro. »

« Sto bene con la mia ingegneria meccanica, grazie. O forse sarai tu, povero babbano, a scongiurarmi di costruirti uno yatch alato. »

Bellamy e Clarke si limitarono ad accompagnare il loro battibecco con delle leggere risate, seduti l’uno vicino all’altra.

« Bene, torniamo sulla Terra », propose l’unico figlio di casa Green, « si va al The 100? »

Jasper alzò la bottiglia di birra e prese un lungo sorso in segno di assenso, mentre il più grande rispose subito: « Credo che passerò, per questa volta. »

La ragazza si voltò nella sua direzione e si strinse nelle spalle, guardandolo mentre parlava: « Sono d’accordo. Andiamo a casa? »

Quando due paia di occhi si fissarono di scatto su di lei, Clarke si affrettò a spiegarsi: « Bellamy andrà a casa sua e io a casa mia. È la strada, la strada è la stessa... »

Il suo sussurro andò pian piano a perdersi, mentre il ragazzo al suo fianco non fu in grado di trattenere un ghigno soddisfatto.
 




 
*


 
« Sai che saresti potuta rimanere con i tuoi amici, vero? »

« Sono molto stanca, avremo tante altre occasioni. E poi non volevo farti tornare da solo; avresti potuto essere rapinato, o rapito, o rapinato e poi rapito... »

« Hai reso il concetto, grazie. » La interruppe lui, colpendo giocosamente la sua spalla con la propria.

« Siamo proprio una buona squadra. Insomma, tu che mi nutri e io che ti proteggo dai malviventi. »

« Beh, certo, li stenderesti tutti. » Attorno a loro le poche automobili rimaste in città si muovevano velocemente e i lampioni li illuminavano.

Procedettero per qualche altro istante in silenzio, poi Clarke parlò: « A volte vorrei che le strade fossero completamente buie. Niente macchine, niente illuminazioni, niente di niente. Solo asfalto infinite e questo grande cielo stellato. »

« Per me è il contrario. Odio i luoghi bui, odio la mancanza di luce. Forse ha a che fare con il fatto che da piccolo ho sempre avuto paura del buio. Immaginavo degli occhi mostruosi che mi osservavano e aspettavano il momento giusto per portarmi via. Solo crescendo ho capito che in realtà, beh, tutti i mostri sono umani. »

« Già, suppongo di sì. Ehi, sai cosa ci vorrebbe ora? Una canzone. »

Bellamy la osservò con espressione confusa mentre tirava fuori un paio di cuffiette e il proprio cellulare dalla tasca anteriore dei jeans.

Quando la bionda gli offrì un auricolare, lui non esitò ad afferrarlo e portarselo all’orecchio. La vide armeggiare con il suo telefono per qualche attimo, e subito dopo percepì una melodia lenta e cadenzata giungere al suo udito.

Il maggiore dei Blake spostò lo sguardo verso la bionda, che camminava al suo fianco con un sorriso rilassato, e si abbandonò all’ascolto di quella delicata armonia.




 
Caught in the riptide
I was searching for the truth
There was a reason
I collided into you

 

 
Non era effettivamente il suo genere, abituato com’era al vecchio rock dei Guns N’ Roses o al black & white dei The Neighbourhood, ma non gli dispiaceva affatto.

Era rasserenante, sembrava scivolare lentamente nel retro della sua mente, come le onde del mare che vanno e vengono, impartendo un ritmo cadenzato e coinvolgente.

« Mi piace. » La informò dopo qualche momento, gettandole un’occhiata furtiva con la coda dell’occhio.

« È così… pacifica. La adoro. »




 
Nobody knows why,
Nobody knows how, and
This feeling begins just like a spark
Tossing and turning inside of your heart
Exploding in the dark

 


Continuarono a passeggiare accompagnati e cullati dalla canzone, entrambi troppo presi nei propri pensieri e nella melodia per proferire anche una sola parola, mentre l’oscurità attorno a loro, interrotta solamente dalla luce tenue dei lampioni, sembrava circondarli dolcemente.

Bellamy rivolgeva lo sguardo davanti a sé, le loro braccia che si sfioravano, e Clarke desiderò improvvisamente stringersi al suo braccio e poggiare la testa sulla sua spalla.

Non c’era nulla di sensuale in quel pensiero, era semplicemente il bisogno genuino di calore umano, di essere stretta e rassicurata così come aveva fatto quel pomeriggio, quando era in pratica crollata in pezzi davanti ai suoi occhi. 

Inutile dire che questo la spaventava a morte, la terrorizzava. Cercò di reprimere quel desiderio serrando le palpebre e stringendo i denti, e fu internamente grata quando raggiunsero la via di casa loro.



 
But you are always here with me
 

 
 « Siamo arrivati. » Annunciò retoricamente il moro, fermandosi davanti al portico di casa Griffin e voltandosi verso la giovane.

« Già. » Concordò lei, riprendendo la cuffietta che lui le stava porgendo.

« Non ti facevo tipo che ascolta questa musica. »

« Oh, quante cose che non sai di me, Blake… » Lo canzonò lei, piegando lievemente la schiena e offrendogli un ghigno sarcastico.

« Volevo solo dirti che… Oggi è stato il primo giorno, è normale che sia andata così. Abbiamo altre due settimane prima che la mia sospensione venga revocata, possiamo prendercela con calma. Non devi preoccuparti. »

Clarke assunse un’espressione seria, poi annuì con convinzione.

« E io volevo ringraziarti. Non avevo mai… »

« Lo so, lo so. Va tutto bene. Ci vediamo domani? »

« Certo. »

A quel punto Bellamy avrebbe potuto voltarle le spalle e dirigersi verso casa sua, darle la buonanotte ed andarsene, ma non si mosse.

L’uno davanti all’altra, completamente immobili, rimasero a fissarsi senza parlare. Quando il moro sollevò lentamente la mano verso il suo viso, Clarke seguì i suoi movimenti con lo sguardo, rivivendo la scena di qualche ora prima.

Questa volta, però, non c’era nessuno ad interromperli, quindi le sue dita entrarono in contatto con la pelle morbida della sua guancia senza alcun ostacolo.

Era un gesto estremamente innocente, ma entrambi sapevano bene che celasse molte più cose di quanto fossero disposti ad ammettere.

Il maggiore dei Blake fece scivolare le propria dita contro la linea morbida della sua mascella, sulla gola, e poi giù nell’incavo in cui il collo si incontrava con la spalla.

« Buonanotte, Principessa. »

Si sarebbe potuta abituare a quella frase, sì.

« ‘Notte, Bellamy. »

La giovane Griffin quasi corse verso i pochi scalini della sua veranda e, senza guardarsi indietro nemmeno una volta, aprì e si richiuse velocemente la porta d’ingresso alle proprie spalle.
 




 
*


 
Finn non riuscì a fare altro che paralizzarsi sul posto, totalmente immobilizzato e sbigottito, e si appoggiò con tutto il peso alla porta di ingresso che teneva aperta.

La persona davanti a lui gli scoccò un ghigno che non illuminò il suo viso, poi lasciò cadere la valigia fra di loro e si strinse nelle spalle.

« Scusa l’orario. » Parlò con tranquillità e un pizzico di amarezza, il petto in fuori e il mento alto.

« Raven? »
 
 




 



Curiosità:


# «  Renderò la tua vita un inferno vivente. » E’ la stessa frase che Octavia dice ad Atom, appunto, quando Bellamy lo incarica di tenerla d’occhio. Mi è piaciuto molto nella serie, quindi ho voluto riadattarlo a questa situazione, e credo che porterà a sviluppi interessanti.

# Bellamy indossa un orologio Moonwatch. Dai, quanto mi son divertita?

# La data di nascita di Jake Griffin (21 Giugno 1967) è, in realtà, la data di nascita di mia mamma. Diciamo che questa è una mia piccola dedica per lei.

# Ho scelto Turner, come cognome da nubile di Abby, in onore di Alex Turner, cantante degli Arctic Monkeys, uno dei miei gruppi preferiti.

#  « Tutti i mostri sono umani. » Questa è una citazione da American Horror Story.

# La canzone che ascoltano Bellamy e Clarke è Here With Me, di Susie Suh e Robot Koch. Vi consiglio di ascoltarla e di leggere il testo e/o la traduzione, è una canzone davvero fantastica.

 
  
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