Menestrella’s corner:
Rieccomi,
dunque, con la seconda parte di questa mia prima fic ambientata nel
mondo del
pattinaggio. Ribadisco, a scanso di equivoci (ma tanto ve ne sarete
accorti ^
^) che non sono una specialista, ma solo
un'appassionata di questo sport meraviglioso!
Perciò spero vorrete perdonare i
miei errori!
Se vi va, lasciatemi un
commentino! Altrimenti,
permettetemi di ringraziare sin da ora tutti coloro che avranno la
bontà di
continuare a seguire le avventure di Emma!
M.
Ina
Bauer
Seconda parte
Capitolo uno
Sconfitta
Si
era svegliata presto quella mattina; a dirla tutta, praticamente non si
era mai
addormentata: l’ultima volta che aveva gettato uno sguardo
alla sveglia, questa
impietosamente segnava le
Non
che fosse contraria all’idea di alzarsi presto in
sé: era solo che lei, prima
delle undici, davvero non era in grado di carburare. Peccato che fosse
inutile
spiegarlo a Tobias: ci aveva provato e riprovato per anni, ma lui
fingeva di
non capire, ostinandosi a ripeterle che si trattava di una mera
questione
d’abitudine.
Il
bello era che non aveva cambiato opinione neppure dopo averla vista
crollare
addormentata sul ghiaccio mentre eseguiva un doppio axel qualche minuto
dopo il
sorgere del sole.
Emma
si avviò controvoglia al lavandino, colmando con grandi
sbadigli l’attesa della
sensazione rigenerante che l’acqua fresca avrebbe provocato
sul suo volto;
un’occhiata fugace allo specchio le procurò un
grave turbamento: quando le
erano spuntate quelle occhiaie nere e profonde che la facevano
assomigliare ad
un panda? Era sicura di non averle viste l’ultima volta che
si era avvicinata a
quell’oggetto traditore.
No,
non si era svegliata bene e qualcosa le diceva che la giornata avrebbe
continuato a peggiorare. Si affacciò alla finestra e
osservò con antipatia il
cielo, che era pressoché interamente coperto da minacciosi
nuvoloni scuri. A
giudicare dalla quantità di piumoni e giacche a vento, che
si vedevano
avventurarsi a passi spediti per la strada, doveva essere anche
piuttosto
freddo.
Si
ritrovò a domandarsi se anche a casa sua fosse una giornata
così tetra: lì,
però, avrebbe trovato un’ottima colazione pronta a
fare di tutto per
migliorarle almeno un po’ l’umore; qui in hotel non
ci sarebbe stato nulla di
comparabilmente premuroso.
Un
improvviso toc-toc alla porta la
fece
sobbalzare: chi mai poteva farle visita a quell’ora? Si
infilò rapidamente i
pantaloni della tuta e una felpa ed andò ad accogliere
l’ospite indiscreto: un
cerimonioso inchino, prima ancora di due luccicanti occhi a mandorla,
le fecero
capire di trovarsi di fronte una delle atlete della squadra di casa.
La più scarsa, se
Emma aveva letto con
attenzione il dossier che il suo allenatore le aveva preparato per
ciascun
partecipante.
«Guarda
che gli uomini non mi servono» aveva spiegato a Tobias, ma
quello aveva
insistito.
«Leggilo!
E’ a titolo puramente informativo. Non si sa mai che tu trovi
l’uomo-della-tua-vita...»
Già,
Tobias adorava sopra ogni cosa prendersi gioco di lei. Se non avesse
avuto così
bisogno di lui, avrebbe fatto in modo di eliminarlo fisicamente. Mentre
rispondeva goffamente al saluto della giapponesina, si rese conto che,
considerata la sua ormai veneranda età come pattinatrice,
non avrebbe dovuto
attendere poi ancora troppo tempo.
La
ragazza si introdusse rapidamente nella sua stanza e
cominciò subito a parlarle
frettolosamente, con un tono a metà tra lo spaventato e il
cospiratorio. Le
disse che, se non aveva impegni per quella mattinata, sarebbe stata
felice di
accompagnarla in un giro esplorativo del palazzetto del ghiaccio in
cui, di lì
a qualche giorno, si sarebbero tenute le gare.
Emma,
a cui l’idea di disertare l’allenamento piacque
subito un sacco, si ricordò però
di quanto Tobias era solito ripeterle sempre: diffida
dei tuoi avversari. Che volesse approfittare
dell’occasione
per metterla fuori combattimento? Considerò con maggiore
attenzione la
ragazzina, che però sembrava più mansueta di un
agnellino; tuttavia facendo
proprio il motto del suo allenatore – almeno di questo
avrebbe potuto essere
orgoglioso – decise di rivolgerle qualche domanda
chiarificatoria.
«Do you want to kill me?»
La
minuta pattinatrice sembrò sinceramente dispiaciuta per
quella sua supposizione
e scosse vigorosamente le testa. Si inchinò nuovamente e
disse solo che nel suo
paese l’ospite era sacro e che quindi era stato ordinato a
ciascuna delle
ragazze della squadra di accompagnare in visita guidata le atlete
straniere.
Ancora
titubante Emma accettò l’invito, dichiarandosi
pronta a raggiungerla nella hall
dopo pochi minuti. Rapidamente indossò qualcosa di
più serio e cercò i post-it
rosa, che le aveva regalato una sua amica appassionata di materiale da
cancelleria, con cui lasciare un messaggio a Tobias.
Torno
subito.
Questo
sì lo avrebbe fatto andare su tutte le furie: erano arrivati
da due giorni ed
Emma non aveva ancora iniziato ad allenarsi. Il fatto era che il jet
leg
l’aveva messa al tappeto: se le gare si fossero tenute
l’indomani, certamente
gli atleti di casa non avrebbero avuto rivali.
Le
interminabili ora di volo, allietate da disagevoli scali nel mezzo
della notte,
avevano decisamente compiuto il loro effetto e la ragazza si sentiva
come se
fosse stata ripetutamente investita da un tir. Tobias invece sembrava
nato per
viaggiare: inutile dire che aveva passato quasi la totalità
del viaggio a
corteggiare le hostess che però con sufficiente gentilezza
ma risoluta fermezza
avevano lasciato cadere le sue avances.
Con
circospezione Emma si avventurò per i corridoi
dell’hotel che, vista l’ora, non
erano molto frequentati. Giunta di fronte alla reception si
unì ad un gruppo di
ragazzine dagli abiti multicolori e dalle messe in piega impeccabili
che
palesarono con scarsa discrezione il loro scandalizzato disprezzo per
il suo
aspetto trasandato.
«Don’t
look at them... they’re here for the soap-opera
casting» le disse piano la sua
guida, miracolosamente materializzatasi dal nulla.
«They’re scary, aren’t
they?»
Emma,
sinceramente ammirata per l’uso spontaneo della question tag, che la riportò
in un lampo alle lezioni d’inglese sui
banchi delle medie, decise di concedere alla ragazzina il beneficio del
dubbio:
c’era la possibilità che fosse in grado di
rivelare delle qualità inaspettate.
Dopo
aver riconsegnato le chiavi della propria stanza – che chiavi
non erano, ma
piuttosto delle schede luminose di ultima generazione, ancora assenti
in
qualsiasi hotel europeo – le due pattinatrici si diressero al
bar, ove le
attendevano altre tre ragazze. Queste accolsero le nuove arrivate con
dei
vigorosi sbadigli a stento trattenuti.
Good morning to you.
La
padrona di casa non perse tempo in superflue presentazioni: ciascuna
delle sue
ospiti poteva non aver mai scambiato una sola parola, in vita sua, con
le
altre, poteva anche non conoscerne minimamente i gusti o le opinioni,
ma tutte
erano perfettamente al corrente della mutua condizione fisica e dei
reciproci
punti deboli.
E
tanto bastava per quel rapporto che, con massima
probabilità, sarebbe rimasto
strettamente professionale.
Chiunque
avesse progettato quel piano di visita, doveva averlo fatto a mente
lucida: le
atlete erano state abbinate in base alla loro supposta
abilità e, considerando
le proprie compagne, Emma si rese conto di essere tenuta davvero in
scarsa
considerazione.
Mentre
si avviava per la strada al fianco di Miss Guarda-come-dondolo, come la
chiamava Tobias, la ragazza capì di non avere la
benché minima possibilità di
essere riconosciuta, in allenamento o in gara, da alcun membro del di
certo
numerosissimo e giustamente celebre pubblico nipponico.
La
passeggiata fino al Palaghiaccio non fu delle più liete: il
tempo era davvero
polare ed il freddo riusciva ad infiltrarsi fin sotto ai pesanti
giubbotti di
cui le ragazze si erano opportunamente equipaggiate. Un po’
per quello, un po’
per timidezza, un po’ per studiata accortezza, il gruppo
procedeva in religioso
silenzio: non una parola fu spesa fino a quando le atlete si
ritrovarono
all’interno del palazzetto.
Si
trattava di una struttura avveniristica, dalle forme audaci ed
originali che ad
Emma ricordarono subito quelle delle montagne russe. Se
sopravvivo a questo campionato, penso che riuscirò
finalmente a
trovare il coraggio di salirci, pensò subito. Il salone principale si apriva verso
l’esterno con una immensa
vetrata capace di risplendere nonostante la totale assenza di sole.
All’interno
il clima era decisamente più temperato: non faceva troppo
caldo,
fortunatamente, ma le ragazze preferirono togliersi immediatamente i
cappotti,
che furono prontamente raccolti da uno degli indefiniti volontari che
si
sarebbero affannati nei giorni successivi, ed in parte già
lo facevano, per
rendere piacevole ad atleti e spettatori stranieri il loro soggiorno
nella
terra dei samurai. Emma ringraziò con un incerto Arigato, che fu calorosamente ricambiato
da un inchino più profondo
del solito.
La
pista era stupenda. Dalla tribuna est in cui si trovavano si poteva
godere di
una vista mozzafiato: quell’immenso teatro del ghiaccio era
in grado di
ospitare fino a venti mila spettatori, ma anche provando ad
immaginarselo
pieno, sarebbe ugualmente apparso assolutamente ordinato. Era stato
merito
degli ingegneri l’aver creato uno spazio gigantesco, che
riusciva però a sembrare
raccolto e confortevole. Emma ci si sentì immediatamente a
proprio agio: pensò
alla pista di casa, ristretta e malandata, che perdeva dieci mila a
zero il
confronto, ma che in qualche modo le veniva ricordata da questo
gioiellino
architettonico.
Forse
erano i sedili rossi, oppure i corrimano blu. Sta di fatto che dentro a
quella
pista, in cui non aveva mai messo piede o scarponcino sino a quel
momento, si
sentiva stranamente a casa. Se avesse provato a chiudere gli occhi, era
quasi
sicura che sarebbe stata in grado di vedere Giovanni dilettarsi in
qualche
passaggio coi suoi compagni. La voce di una delle ragazze la
riportò
bruscamente alla realtà.
«Look!»
gridò Miss Spread-Anchel quasi senza fiato.
«It’s him!»
Le
altre pattinatrici si scambiarono accesi sguardi colmi di entusiasmo.
Persino
Emma si sentì colta da un brivido di eccitazione quando lo
riconobbe.
Nonostante fossero da poco passate le sette e mezza della mattina.
La
cosa era tanto più strana dal momento che, se avesse
assistito alla scena una
persona completamente estranea al mondo del pattinaggio, certo non
avrebbe
potuto comprendere per quale ragione cinque ragazze così
carine dovessero
improvvisamente cadere in quello stato di confusione e subbuglio alla
vista di
un vecchietto in scarpe da tennis e baschetto di lana.
«He must see me!» disse con foga
una di
loro, iniziando a scendere di corsa le gradinate.
Un’altra,
tuttavia, la raggiunse rapidamente e, afferratala per il braccio, la
costrinse
a fermarsi.
«Are you out of your
mind?!» Emma la sentì
esclamare. «Don’t you know he hates people
disturbing him?»
La
prima ragazza rifletté per un istante e poi con aria
sconfitta si risolse ad
abbandonare il progetto di raggiungere la pista ed iniziare ad eseguire
tripli
flip senza nemmeno l’ausilio delle lame.
Emma
fu costretta ad ammettere con se stessa che una simile ispirazione
aveva
fugacemente attraversato anche la sua mente. Ma non c’era
bisogno di sentirsi
in colpa. In fondo quello era Ivan Viktorovic Rostov.
L’allenatore
più famoso del mondo. Non c’era pattinatore che
non fosse disposto a vendere
l’anima al diavolo pur di poter ricevere anche solo qualche
semplice
suggerimento da lui.
Bronzo
ed argento olimpico in coppia con la sua bellissima Ira, quando in
gioventù era
stato lui a solcare il ghiaccio aveva fatto meraviglie: il suo free
skate
all’Europeo in Svezia era entrato nella leggenda. Da allora
tutti lo avevano
sempre indicato come il programma perfetto. La sua gloria non si era
esaurita
dopo il ritiro: aveva girato mezzo pianeta con i suoi spettacoli, a cui
gli
stessi atleti si facevano in quattro per ottenere il permesso di
partecipare.
E
poi aveva scelto di fare l’allenatore: con i guadagni delle
fortunate tournèe
aveva costruito un palazzetto del ghiaccio in un paesino non meglio
noto alle
porte di S. Pietroburgo e da allora si era dedicato alla ricerca e allo
sviluppo di nuovi campioni da consacrare alla fama della Grande Madre
Russia.
All’inizio
non era stato facile: dopo aver partorito un simile talento, la terra
della
vodka e del violino sembrava aver sentito la necessità di
riprendersi da un
simile sforzo. Per un po’ non c’era stato nessuno
che potesse far nuovamente
sventolare la bandiera di casa. Americani e Giapponesi si erano
disputati le
medaglie mondiali ed olimpiche, facendo gara a sé.
E poi finalmente era
arrivato. Il campione che
doveva rendere di nuovo grande la Russia.
Le
ragazze si fissarono per un istante, incerte. A quanto pareva, tentare
l’approccio con Ivan Rostov in persona sarebbe stato
considerato maleducato,
nonché infantile: ciascuna di quelle pattinatrici sapeva, in
fondo al proprio
cuore, di non possedere le doti necessarie per eccellere e temeva, con
un certo
grado di fondatezza, che il celebre allenatore non si sarebbe fatto
troppi
scrupoli nel dichiararlo apertamente.
Tuttavia
l’esaltazione che un simile incontro aveva generato doveva
essere in qualche
modo soddisfatta: le ragazze parlottarono tra loro, stabilendo che se
avevano
dovuto rinunciare alla possibilità di scalare rapidamente la
vetta del
successo, avevano ancora l’opportunità di rifarsi
gli occhi.
Emma
scosse la testa, intuendo il loro piano. Si strinse nelle spalle e si
fermò a
considerare quali vertici potesse toccare l’insulsaggine
umana quando si univa
alla tempesta ormonale tipica dei diciotto anni.
Quelle
ragazze andavano incontro al suicidio, senza neppure rendersene conto.
Se
disturbare il grande Rostov avrebbe potuto arrecare loro gravi
conseguenze,
altrettanto mortificante sarebbe risultato il tentativo di avvicinare
il suo
atleta.
Sei-punto-zero.
No,
questa volta non si trattava di un’altro dei soprannomi
ideati da Tobias, ma di
un epiteto universalmente riconosciuto. Tanto più
incredibile visto che il
ragazzo in questione aveva iniziato a gareggiare quando era
già uscito di scena
il calcolo del punteggio di gara che riconosceva in quella cifra la
votazione
massima che un pattinatore potesse ricevere.
«He has to be in the locker
room!» ipotizzò
una delle ragazze.
«He surely wants to start his
training» le
fece eco un’altra.
«We have to find him»
concluse la terza. «Now»
La
piccola pattinatrice giapponese quasi svenne quando riuscì a
comprendere il
proposito di quelle esagitate. Cercò immediatamente
l’aiuto di Emma, ma quella
distolse lo sguardo chiamandosi fuori sia dalla cospirazione che dal
tentativo
di salvataggio che, lo sapeva già, sarebbe miseramente
fallito.
Le
tre ragazzine, infatti, si gettarono subito alla ricerca degli
spogliatoi,
inseguite dalla giapponesina che, con le lacrime agli occhi, le pregava
di
riconsiderare la convenienza dei loro gesti.
Per
favore, è un collega, avrebbe
voluto
dire Emma. Ma si rendeva conto che le sue parole non avrebbero sortito
alcun
effetto. Chissà, se fosse stata un po’
più giovane o un po’ più pazza,
probabilmente le avrebbe seguite. Invece era una ragazza di ventidue
anni con
la testa sulle spalle. Ed un briciolo di senso di dignità.
Non
che non le sarebbe piaciuto farsi una foto con lui, da mostrare alle
amiche una
volta tornata a casa e di cui andare fiera per tutta la vita; da far
vedere ai
nipotini una volta che la vecchiaia le avrebbe impedito di indossare
ancora i
pattini.
Ma
non aveva la faccia tosta per andare a cercarlo. Che cosa avrebbe
potuto
dirgli, una volta trovatoselo di fronte? Quale complimento avrebbe
potuto
rivolgergli che non avesse già ricevuto da migliaia di fans?
Poi
qualcosa catturò la sua attenzione. Quella meravigliosa
superficie bianca,
splendente come uno specchio, la stava chiamando. Improvvisamente si
dimenticò
di Ivan Rostov che pure si era accomodato in tribuna; si
dimenticò persino di
Sei-punto-zero. Tutto ciò che desiderava era procurarsi un
paio di pattini e
provare la consistenza di quel ghiaccio così invitante.
Con
quest’unico proposito e desiderio in mente tornò
sui suoi passi, raggiungendo
l’ingresso alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarla, ma
non incontrò anima
viva. Tutti i volontari sembravano essersi volatilizzati. Decise di
tentare la
fortuna: forse al piano di sotto, dove si trovava la pista, avrebbe
potuto
individuare un responsabile, oppure il gestore stesso
dell’impianto.
Scese
rapidamente i gradini oltre una porta che recava sul battente
l’avviso di morte
per chiunque provasse ad oltrepassarla senza far parte del personale
operativo del
palazzetto. Il fine giustifica i mezzi,
si disse.
Emma
si chiese se sarebbe riuscita a trovare qualcuno che potesse esaudire
il suo
desiderio. Sentì nelle orecchie la voce di Tobias, che la
rimproverava per aver
lasciato i pattini in hotel e per una volta fu costretta a riconoscere
che
aveva ragione. Li aveva custoditi con cura durante tutto il viaggio,
facendoli
volare nel suo bagaglio a mano, ma li aveva lasciati indietro al
momento della
verità.
In
fin dei conti aveva però una scusante: come avrebbe potuto
pensare di non
riuscire a trovare un paio di pattini in prestito all’interno
di un
palaghiaccio? Considerò l’opportunità
della propria ricerca: poteva risultare
pericoloso indossare dei pattini non personalizzati qualche giorno
prima della
gara, ma la voglia di salire sul ghiaccio era troppa.
Emma
si ritrovò in un atrio, anch’esso deserto. Ma era
possibile che l’unica persona
viva lì dentro fosse Ivan Rostov? Quello spazio era
veramente enorme, ma
completamente disabitato. La pista del suo paese pullulava di addetti
ed atleti
sin dalle cinque del mattino.
Si
avvicinò contrariata ad una porta a vetri, che delimitava
l’accesso all’area
della pista vera e propria. A quanto pareva si sarebbe dovuta
accontentare di
sfiorare il ghiaccio con una mano.
E
poi la vide. Una persona, finalmente!
Non
era una delle ragazzine che la avevano accompagnata e che in quel
momento
stavano probabilmente setacciando i piani superiori. Non era neanche un
volontario indigeno, visti i capelli biondi.
Il
ragazzo dall’altra parte della porta si fermò,
vedendola arrivare. Lei fece lo
stesso, indecisa sul da farsi: com’è che era
sempre così impacciata in queste
situazioni? Il galateo non le era mai venuto in aiuto in simili
occasioni,
visto che ogni volta era sembrata l’unica a possederne
qualche rudimento.
Rassegnata
si scansò di lato, permettendo al ragazzo dai capelli chiari
di uscire senza
travolgerla. Ma lui la sorprese. Si spostò a sua volta e le
tenne aperta la
porta, invitandola a passare per prima. Quel gesto galante la colse
impreparata. Comprese come fosse il caso di alzare gli occhi su quel
gentiluomo
di vecchie maniere per ringraziarlo con un sorriso.
Prima
ancora di posare lo sguardo sul suo volto, però, la sua
attenzione fu catturata
dal luccicare dell’oggetto che teneva in mano. Lame. Lame da
ghiaccio.
Gli
rivolse allora uno sguardo curioso ed interessato, che fu ricambiato
per un
istante con una timida occhiata.
...
Porca
miseria.
Sei-punto-zero.
In
persona. Davanti a lei, ancora intento a reggere la porta.
Emma
rimase paralizzata. Per qualche secondo il suo cervello
entrò in stand-by. Poi,
quando riprese a
funzionare, le fece comprendere appieno la situazione: aveva incontrato
il suo
idolo, la sua principale fonte di ispirazione. E non si sentiva in
grado di
spiccicare parola.
Il
ragazzo non sembrò far troppo caso al suo turbamento; forse
non se ne accorse
proprio, visto che teneva gli occhi fissi sul muro alle spalle di Emma,
evitando di guardarla direttamente. Fu quel contegno distaccato che
fece
tornare la ragazza in sé: si riscosse e azzardò
un passo attraverso la porta,
sforzandosi di non riportare lo sguardo sul campione.
Sei-punto-zero
le aveva aperto la porta. Era sciocco ma non poteva fare a meno di
pensarci.
Era talmente persa nelle sue fantasie che quasi non udì la
frase che il ragazzo
le rivolse subito dopo, un sussurro appena percettibile.
«You went the wrong way,
I’m afraid; this
entrance is for athletes only».
Questa
volta Emma non potè farne a meno. Si voltò di 180
gradi, trovandosi di fronte
il campione che, abbozzato un sorriso, se ne andò.
La
ragazza rimase sola con la propria umiliazione. Aveva incontrato il suo
mito e
quello l’aveva scambiata per la donna delle pulizie.
Ha
proprio ragione Silvio Muccino: certe
giornate... andrebbero dormite.
T T T