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Autore: _ayachan_    23/09/2008    29 recensioni
A cinque anni dalle vicende de "Il Peggior Ninja del Villaggio della Foglia", che ne è stato delle promesse, dei desideri e delle recriminazioni dei giovani protagonisti?
Non si sono spenti con l'aumentare dell'età. Sono rimasti sotto la cenere, al caldo, a riposare fino al giorno più opportuno. E quando la minaccia è che la guida scompaia, quando tutt'a un tratto le scelte sono solo loro, quando le indicazioni spariscono e resta soltanto il bivio, è allora che viene fuori il carattere di ognuno.
Qualunque esso sia.
Versione riveduta e corretta. Gennaio 2016
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'eroe della profezia'
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Penne 07
Capitolo settimo

Donne che odiano gli uomini




Tornando a casa, quel giorno, Chiharu si trovò a camminare nel momento in cui i lampioni si accendono e il cielo si tinge di indaco, diffondendo una luce che sembra più un’ombra viola. Conosceva quei brevi minuti, erano i migliori per un’imboscata: disegnavano contorni incerti e spigoli sfumati, rendevano il paesaggio indistinto e impedivano agli occhi di abituarsi all’oscurità.
Passando per le strade di Konoha sapeva di non aver nulla da temere. Ma l’abitudine a tenere i sensi all’erta era così radicata nella sua mente da farle avvertire anche il più piccolo rumore, e l’esperienza le fece intuire di chi era il passo leggero che le veniva incontro.
Nei pressi di un lampione che ronzava sommessamente incrociò Akeru, scuro in volto, che vedendola assottigliò gli occhi e le lanciò uno sguardo malevolo.
«Missione andata male?» chiese Chiharu, con un velo di ironia, e subito si pentì di non averlo ignorato.
Emicrania, avrebbe voluto rispondere Akeru. Causata dal gigantesco complesso di inferiorità che lo abbatteva da quando aveva dodici anni, per la precisione, complesso che prevedeva lei in una posizione decisamente privilegiata.
«Che vuoi?» sibilò; ogni volta che la vedeva era felice e irritato al contempo.
«Ringraziarti per la pomata della settimana scorsa» rispose lei tralasciando i giochetti. «Non sono più riuscita a vederti, da allora.»
Le arterie attorno alla testa di Akeru smisero bruscamente di pulsare e il sangue si dirottò alle guance, dissipando rabbia e malumore.
«Oh» riuscì a dire, con un gradevole tepore a livello dello stomaco. «L’ho fatta io.»
«Commento arguto» mormorò lei sarcastica.
«Potresti anche mostrarti più grata.»
«Ti sto facendo pubblicità: oggi l’ho data a Hitoshi.»
«Tu cosa?»
«Non era progettata solo per il mio corredo genetico, vero?»
Akeru strinse i pugni, e di nuovo sentì l’irritazione montare. «Certe volte mi chiedo quale cromosoma sia storto in te!» ringhiò.
«Nessuno, o non sarei qui a parlarne» replicò lei scrollando le spalle, e si mosse per andarsene. «Ma se i ringraziamenti ti fanno schifo eviterò accuratamente di farne altri, in futuro. Ora scusa, ma devo andare a riposare.»
«Dove andate?» la interruppe lui, e lei smise di camminare per alzare appena la testa.
«Chi?»
«Tu e il tuo gruppo. Quando te la tiri perché devi riposare è perché avete una missione.»
«Quale missione?»
Lui digrignò i denti. «Chiharu Nara...»
Lei sbuffò e si diede dell’imbecille per aver parlato troppo. Quando passava un po’ di tempo con Yoshi tendeva a fare un sacco di sviste da arrogante megalomane. «E’ una missione di cui tu non devi sapere nulla» tagliò corto. «Almeno per ora» aggiunse dopo un istante, ricordando che Akeru era pur sempre un Anbu.
Ma lui non lasciò cadere il discorso. «E’ una cosa grossa?»
«L’ultima volta che ti sei mostrato tanto interessato a una mia missione, è finita che ti trascinavo per un braccio nel giardino degli Uzumaki e piagnucolavi che non volevi averci niente a che fare. Vogliamo replicare?»
«Ormai ho le mie missioni importanti, non ho bisogno di elemosinarle da te» disse Akeru, risentito. «Ero solo...» si interruppe all’improvviso.
Chiharu lo fissò, inclinando leggermente la testa. Le tornò in mente la sensazione del fiato di Sai sul collo, e suo malgrado ne imitò il tono di voce. «Preoccupato?» suggerì. Le sue labbra si curvarono impercettibilmente.
Lui tornò a guardarla; questa volta la sua espressione era offesa ma anche amara nelle pieghe attorno alla bocca. «Chi mai potrebbe essere tanto idiota da preoccuparsi per l’invincibile Chiharu Nara?» chiese con una nota di scherno. «Forse solo l’unico imbecille che se l’è vista cadere addosso, tanti anni fa, insanguinata e quasi in coma.»
«Così sì che mi incoraggi.»
«Mi dispiace, ma io me lo sogno ancora, la notte» proseguì lui. «E per quanto...» deglutì. «Per quanto a te possa non fregare niente, io ricordo che non sei invincibile. Che il più delle volte esageri apposta, solo per dimostrare a tutti quanto sei brava e forte... E ricordo che cinque anni fa Sakura Uchiha disse che il tuo cuore non sarebbe più stato quello di prima. Ma forse tu non te lo ricordi.»
«So benissimo come sto e come non sto» troncò Chiharu, portando istintivamente una mano al petto. «Non ho bisogno che l’ultimo medico novellino venga a farmi la cartella clinica.»
«Non è sempre una guerra!» sbottò Akeru alzando la voce. «Non è che tutto ciò che dico lo dico per ferirti o per intaccare il tuo orgoglio!» si rese conto che le sue guance si stavano scaldando, ma allo stesso tempo capì che ormai era lanciato e non sarebbe riuscito a fermarsi. «Prendi sempre tutto come un’offesa personale! E’ così inconcepibile che esista qualcuno che si preoccupa per te? Il fatto che ora quel qualcuno sia io è tanto sconcertante? Perché non sei mia figlia? O mia sorella, o mia cugina? Cazzo, Chiharu! Tira giù quel maledetto muro e, per una volta, una sola volta, prova a pensare che gli altri siano in buona fede!»
Chiharu si accorse di essersi irrigidita involontariamente. Non era sempre in guerra. Si teneva moderatamente all’erta, ecco tutto. Itachi Uchiha - il vecchio Itachi, naturalmente - insegnava che il tradimento era dietro l’angolo, e lei voleva soltanto essere pronta, nel caso... nel caso qualcuno avesse deciso di ingannarla. Il padre di Hitoshi era la dimostrazione vivente della necessità di tenere gli occhi aperti, e Chiharu voleva essere pronta in ogni momento. Ogni buon ninja voleva essere pronto.
Ma le sembrava che qualcosa stonasse, nel suo ragionamento. Di fronte alla veemenza dello Stupido sempliciotto, che fino a quel momento non aveva dimostrato nessuna dote per l’inganno, quella che aveva sempre considerato un’attitudine ragionevole e positiva diventava all’improvviso un’ossessione da paranoia.
Non era sempre in lotta con tutti... Era all’erta.
Ma era all’erta davanti a una foresta buia o era all’erta davanti a un pulcino, questa volta?
Che domanda idiota, si trovò a pensare stizzita. E mentre pensava si lasciò sfuggire una frase che, con un minimo di attenzione in più, avrebbe riconosciuto come la più stupida che potesse tirare fuori.
«Ma a te che importa?»
Sentì la stretta di Akeru sul polso prima ancora di capire cosa aveva appena detto, e il calore della sua mano le ricordò quello di Hitoshi qualche ora prima.
«Non lo capisci?» esclamò Stupido, arrabbiato, e turbato, e confuso lui per primo.
Chiharu alzò la testa allarmata. Certo che capiva. Aveva sempre capito. Ma non prevedeva di metterlo in condizioni di dirlo, realizzò con uno spiacevole senso di soffocamento.
«Smettila» sibilò con uno strattone, ma lui non la lasciò andare. L’aveva osservata così a lungo che sapeva quando lei intuiva qualcosa, e ora sapeva che ciò che stava per dire non l’avrebbe affatto sorpresa; tanto valeva aprire la bocca, dunque.
«Lo so che sei una testa di cazzo» continuò tra i denti, abbassando la voce; sentì il cuore battere ferocemente dietro lo sterno. «E so anche che pensi io sia ancora peggio di una testa di cazzo, l’ultimo deficiente. Ti diverti a prendermi in giro, lasci che ti ronzi intorno e tendi la tua stupida carota, e io, ancora più stupido, sto pure al gioco e la seguo. Ma la carota prima o poi marcisce, e l’asino si stufa. Io mi stufo! Quindi, se non volevi ascoltare quello che sapevi che ti avrei detto, dovevi smetterla di prendermi per idiota. Perché per me sei importante più di qualunque altra kunoichi... di qualunque altra ragazza...» si interruppe per deglutire, e le sue dita affondarono nel braccio di Chiharu fin quasi a farle male. «E tu lo sai, sei troppo intelligente per non saperlo, e nonostante ciò mi tendi quella carota e ti diverti a portarmi al guinzaglio!» alzò gli occhi, e ora che il cielo era nero e il lampione era l’unica luce, sembravano gli occhi di un pazzo, o di un sognatore. «Perciò... adesso, è arrivato il momento che tu decida. Se vuoi continuare questo stupido gioco devi dirmi che anche io valgo qualcosa, che sono importante almeno un po’! Oppure devi abituarti all’idea che non ti ronzerò più attorno!»
Quando Akeru concluse, la prima cosa che fece fu darsi dell’imbecille.
Mai dare ultimatum a Chiharu Nara.


La luce della lampadina era stemperata dalla carta di riso, che la rendeva morbida e opaca, quasi granulosa. Le ombre si disegnavano sulle pareti della stanza seguendo i motivi del paralume, una fantasia che a Konoha non esisteva ma che era tipica di Suna. Quando le sagome dei corpi si sovrapponevano alle ombre assumevano forme grottesche.
Shikamaru sfilò la maglia e riuscì a incastrarsi nel codino, le braccia alzate e bloccate in una posizione scomoda.
«Che seccatura» bofonchiò. Temari si voltò e gli gettò un’occhiata di sufficienza, sospirando mentre sistemava le pieghe della camicia da notte.
«Vieni qui» disse avvicinandosi. Lo aiutò a liberarsi con una mossa precisa e ormai abituale. «Quante volte ti ho detto di sciogliere questo maledetto codino prima di svestirti?»
«Decisamente troppe» si lamentò lui, gettando la maglia su una sedia e tendendosi a prendere il pigiama sotto il cuscino. Temari si sporse e, mentre Shikamaru aveva le mani impegnate, con uno strattone brusco gli sfilò l’elastico.
«Ahia» gemette lui, mentre i capelli si piegavano lentamente, restii a perdere la forma che ormai avevano assimilato. «Di questo passo diventerò calvo entro dieci anni.»
«Questo è il succo del nostro rapporto» sbuffò lei, gettando l’elastico sul comodino e tornando dall’altra parte del letto. «Tu che piagnucoli, io che ti faccio del male. Ci siamo proprio evoluti da quando avevamo diciotto anni, eh?»
«Che seccatura che sei» rognò lui, rinunciando ad allacciare l’enorme numero di bottoni sulla camicia del pigiama e tirando indietro le coperte.
«Visto? Esattamente come allora!» esclamò lei a metà tra il trionfo e l’amarezza.
«Temari, per favore, sono stanco» gemette Shikamaru, lasciandosi cadere sul materasso a peso morto. «Ho passato tutto il giorno a riparare le falle del piano per Suna, e Naruto non ha fatto altro che intralciarci per tutto il tempo! Vorresti farmi la grazia di non infierire, almeno oggi?»
Temari mise il broncio infilandosi sotto il suo lato di coperte. «Non ti preoccupare, eh» bofonchiò risentita. «In fondo hai solo deciso di spedire tua moglie in territorio nemico, con la certezza che non la rivedrai per almeno due settimane e il rischio che le due settimane diventino eterne. Che vuoi che sia? Meriti il tuo riposo.»
Shikamaru si coprì gli occhi con un braccio, soffocando un gemito. L'orgoglio di Temari per la sua recente promozione era evaporato alla velocità della luce quando lui le aveva comunicato che come prima cosa avrebbe spedito a Suna lei e Chiharu. Temari l'aveva preso come un deliberato tentativo di liberarsi di lei, e da allora gliela stava facendo scontare.
Spensero la luce. Le lenzuola frusciarono quando Temari si mosse nervosa, poi tornò il silenzio. Shikamaru inspirò a fondo. Lei si mosse di nuovo e la luce si riaccese.
«Sei davvero così stanco?» sbottò, sollevandosi sui gomiti e fissandolo rabbiosa. «No, dico, la prospettiva è che per due settimane non sarò in questo letto, e tu pensi a dormire?»
Francamente ciò che Shikamaru pensava era che per due settimane avrebbe potuto stravaccarsi in diagonale, ma si guardò bene dal dirlo.
«Non parti nemmeno domani» sospirò invece, sforzandosi di scollare il braccio dagli occhi e guardarla nella maniera più pietosa e convincente.
«Appunto» sibilò lei. «Quindi non devo alzarmi all’alba.»
«Tutto questo mi ricorda i tempi in cui mi violentavi nei più squallidi motel di Konoha.»
«Erano squallidi perché non avevi mai un soldo. Ora abbiamo un letto tutto nostro, e finalmente Chiharu è uscita dall’adolescenza e ha smesso di mandarmi gli ormoni a mille per la rabbia.»
«Ho già accennato al fatto che oggi ho lavorato come un mulo?»
«Shikamaru Nara! Una donna frustrata può essere peggio dell’intero Consiglio riunito!»
Shikamaru chiuse gli occhi e fece una smorfia disperata. «Ti prego, Temari, abbi un po’ di pietà...»
Ma non aveva ancora finito di parlare che sentì il minaccioso suono delle coperte che venivano gettate indietro, e poi l’altrettanto minaccioso peso di Temari sull’addome.
«Dei. Se questa è la pietà che hai per tuo marito, sono contentissimo di non essere tuo nemico» gemette lui, trovandosela carponi sul petto.
«Chiudi quella bocca se non vuoi sprecare energie» sbottò lei. «E sappi che sono molto arrabbiata con te.»
«Ah sì?» sospirò Shikamaru, cercando inutilmente un colpo di genio che lo liberasse da quella situazione. Ma non trovò nulla. E quando Temari si piegò sul suo collo e gli sfiorò l’orecchio con il naso, metà del suo corpo gli gridò che era un demente e voleva dormire, l’altra metà che era un uomo e voleva... beh, di sicuro non dormire.
A giudicare dal sorriso impertinente che fece Temari quando una sua gamba scivolò tra quelle di lui, aveva vinto la metà poco assonnata.

---

Jiraya si grattò il mento con la parte posteriore della penna, pensieroso. Assottigliò gli occhi, scribacchiò qualcosa in fretta e furia e poi lo rilesse con aria critica.
«Okay. Può funzionare» decretò alla fine.
«Ci credo che funziona. E’ testato» grugnì la voce risentita di Akeru, poco più giù.
Lui e il vecchio Sannin erano di nuovo nella radura in cui erano soliti incontrarsi, ma quel giorno nel cielo non passavano nuvole e il sole si abbatteva su di loro senza filtro. Jiraya era seduto sulla sua roccia, come sempre, ma Akeru era steso al centro del prato con braccia e gambe aperte e una faccia a dir poco truce.
«Allora, riepilogando» mormorò Jiraya, sfogliando un paio di pagine indietro. «Miko e Jukon restano chiusi nella ghiacciaia dell’albergo e, convinti di morire, si danno alle confessioni. Così si scopre che Jukon conosceva Miko ai tempi della scuola, che l’aveva sempre amata e aveva invidiato a morte il fratello Jumon, con cui lei usciva... E poi cerca di concretizzare gli istinti che ha represso per tanto tempo.»
«No. Vuole solo farle sapere cosa prova, non era così?»
«Oh beh, ho apportato un paio di modifiche... Siamo già al terzo capitolo, ricordi?»
Akeru scattò a sedere indignato. «Non ho messo le mani addosso a nessuno!»
«A meno che non ti chiami Jukon e non sia in una ghiacciaia convinto di morire, no, credo che tu non l’abbia ancora fatto» gli concesse Jiraya. «Forse hai qualche problema di immedesimazione.»
Akeru si lasciò cadere di nuovo sull’erba e incrociò le braccia. «No» disse mortificato. «Non ho nessun problema.»
Quand’era venuto lì, quel giorno, non pensava seriamente che avrebbe aiutato Jiraya con il suo libro. L’unica ragione per cui non si era barricato in casa a costruire una bambolina vudù era che pensava che il grande eremita autore della serie della Pomiciata fosse il più adatto a dare consigli, vista la sua nuova situazione.
Naturalmente si sbagliava. Perché non appena aveva raccontato a Jiraya della sua orribile e patetica figura ormai risalente alla sera prima, lui si era illuminato e aveva esclamato: ecco l’idea che cercavo! A quanto pareva la sentiva frullare in testa da mesi senza riuscire a tradurla per iscritto; e le spese doveva farle Akeru, che si era visto vivisezionato dalla penna del Sannin e trasformato in un maniaco paranoico con problemi ossessivo-compulsivi.
Cercavo solo comprensione!, si lamentò mentalmente; e, da bravo maniaco paranoico ossessivo-compulsivo, si accinse a ripercorrere mentalmente per la seicentesima volta i minuti più imbarazzanti della sua intera esistenza.

«...Se vuoi continuare questo stupido gioco devi dirmi che anche io valgo qualcosa, che sono importante almeno un po’! Oppure devi abituarti all’idea che non ti ronzerò più attorno.»
Un lungo, orribile istante di silenzio.
Akeru capì che non significava niente di buono ancor prima di rendersi conto che Chiharu non sembrava stupita, smarrita, o, per assurdo, imbarazzata. Sembrava, come dire, traboccante di gelido disprezzo; sì, era un vocabolo adatto.
Non cercò nemmeno più di liberare il polso dalla sua stretta e, quando parlò, ogni parola fu come una sottile lama di ghiaccio nell’orgoglio di Akeru.
«Non ci credo, non pensavo l’avresti detto davvero» quasi sputò. «Mi ero stupidamente illusa che, in quanto essere umano, dovessi avere della materia grigia dentro la scatola cranica. Esattamente, cosa cercavi di ottenere con questo lungo e stupidissimo discorso? Volevi smuovere la mia coscienza, il mio supposto affetto per te, o, addirittura, il mio cuore? Pensavi che se ho passato gli ultimi cinque anni a lasciarti ‘ronzare’, come dici tu, sbattermelo in faccia cambi qualcosa? Potevi almeno salvare la faccia stando zitto!»
Akeru si trovò a bocca spalancata, e si affrettò a richiuderla avvampando bruscamente. Lasciò di scatto il braccio di Chiharu e stese i pugni contro i fianchi, con la curiosa sensazione di avere un palloncino troppo gonfio che premeva contro le pareti interne del cranio.
«Tu... Tu come... No, dico... E’... E’ assolutamente...» balbettò, la mente offuscata dall’indignazione, l’umiliazione e l’imbarazzo. «Tu non sei normale!» esplose alla fine, fissandola sconvolto. «Forse non sarò il miglior oratore del mondo, ma... ma ti ho messo in mano il mio cuore! Ti ho praticamente supplicato di dirmi che non sono uno zerbino, e tu mi hai detto esattamente che sono un fottuto zerbino! Cosa diavolo c’è che non va in te?»
Chiharu si irrigidì sollevando il mento. «Il problema è cosa non va in te» puntualizzò. «Sono cinque anni che mi giri attorno, e lo sai tu, lo so io, e sai che io lo so. E se fino ad oggi non ho mai fatto nulla per incoraggiarti vorrà ben dire che una dichiarazione è la cosa più stupida che possa venirti in mente, no? Hai creato dell’inutile imbarazzo a te stesso e a...»
«No! Tu hai fatto qualcosa per incoraggiarmi! Tu non mi hai mai allontanato, tu restavi a guardare i miei tentativi di attirare l’attenzione! Quando ho deciso di diventare un ninja medico sono venuto a dirlo a te! E tu lo sapevi, lo sapevi perfettamente che lo facevo perché cinque anni fa mi sei piombata addosso mezza morta! Lo sapevi che lo facevo per causa tua, e anche se non hai neanche alzato lo sguardo da quello che stavi leggendo, non mi hai nemmeno detto ‘lascia perdere, non rovinarti la vita, non ho intenzione di morire a breve’. Mi hai lasciato fare, perché... perché... Oh, non lo so nemmeno io perché!»
«Perché sono fatti tuoi quel che decidi di fare con la tua vita!»
«Oh, bene, bello! Quindi è questa la misura in cui ti importa di me? Tutto ciò è davvero confortante!»
«Non ti ho detto io di preoccuparti di quel che pensavo. Non ti ho mai detto di fare niente.»
«Non a voce, Chiharu. Ma me lo hai detto in mille altri maledetti modi!»
Frustrato, Akeru si passò una mano tra i capelli, con la forte voglia di piantare un pugno contro il muro più vicino, o, magari, nella faccia di Chiharu. «Perché?» chiese, scoccandole un’occhiata sconcertata. «Perché, se riesci a demolirmi pezzo dopo pezzo ora, mi hai tollerato fino a dieci minuti fa? Non potevi semplicemente allontanarmi prima? Sarebbe bastata mezza parola di tutte le centoventi che mi hai detto adesso, soltanto mezza! Cinque anni fa mi sarei offeso e ti avrei lasciata in pace, e ora non saremmo qui a fare questa conversazione!»
«Non saremmo qui a farla se tu avessi un cervello» sbuffò lei, incrociando le braccia. «Sai cosa? Nonostante il tuo supposto amore mi stai semplicemente scaricando addosso le colpe, dalla prima all’ultima. Molto altruista. Anzi, no, molto Stupido.»
Akeru digrignò i denti. «Amore? Di che amore parli?» replicò tagliente. «Al momento per te provo qualcosa di molto diverso dall’amore. Al momento ho una gran voglia di prenderti a pugni. E se mi trattengo è solo perché... perché...»
Non poteva buttarla sul suo cuore malandato, perché così l’avrebbe spinta a dimostrarle che funzionava perfettamente. Altre motivazioni non gli venivano.
«Oh, al diavolo!» esclamò, e la sua pressione sanguigna schizzò alle stelle. «Sei la cosa peggiore che mi sia mai capitata! Rimpiango il giorno in cui ho salvato la tua cazzo di vita!»
Chiharu non si lasciò impressionare. «Lieta di saperlo.»
E a quel punto lui, semplicemente, se ne andò.
Come si può parlare con una persona mentre quella si mette un tovagliolo intorno al collo e viviseziona il tuo cuore per mangiarselo?

Poi, ciliegina sulla torta, Jiraya aveva avuto la brillante idea di trasporre la sua edificante esperienza in versione cartacea. Splendido. Un balsamo per il suo ego maciullato.
Steso sul prato a braccia conserte, si trovò a fissare il sole finché non iniziarono a lacrimargli gli occhi. Arrivato a quel punto si tirò a sedere.
«Me ne vado» annunciò cupo. «Così magari quello sfigato di Jukon diventa un po’ meno sfigato, senza attingere alle mie esperienze personali»
«Quanto la fai lunga» sbuffò Jiraya. «Hai diciotto anni, le donne vanno e vengono, e Chiharu è sempre stata un po’ problematica. La prima volta che mi ha visto ha alternato ‘sei il mio eroe’ a ‘i tuoi libri fanno schifo’! E anche quando li ha letti davvero non ha saputo vedere l’ampiezza di respiro delle trame, lo stile sobrio ma elegante, il romanticismo intrinseco... Ehi, grazie per l’attenzione!» gridò, quando si accorse che Akeru si stava già allontanando.
Sospirò, grattandosi il mento ruvido di barba, poi fissò la pagina in cui Miko si lasciava convincere dalle argomentazioni di Jukon, o, per dirla con parole sue, si davano le prime soddisfazioni al lettore.
Leggendo della sua eroina dai liberi costumi Jiraya provò un po’ di pena per tutti i ragazzi che come Stupido si facevano fregare dalla frigida di turno. Si chiese se Tsunade avesse mai avuto un comportamento simile. No, rifletté. Tsunade era umana, aveva le sue debolezze. Tsunade arrossiva, Tsunade si preoccupava, Tsunade lo aveva amato, e l’unica ragione per cui aveva sempre rifiutato di sposarlo era che non vedeva l’utilità di perder tempo e denaro in una cerimonia puramente formale. Credeva nelle persone, Tsunade, non nelle istituzioni.
Chiharu, invece, credeva solo in sé stessa. E in quello era molto più simile a Orochimaru che a Tsunade.




  
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