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Autore: Bess Black    12/09/2014    8 recensioni
Odette Gauthier viene trasferita all'età di due anni in un orfanotrofio, in Corsica; un orfanotrofio disciplinato, dedito all'istruzione, osservante delle buone maniere e con ottimi contatti con titolate quanto clandestine cerchie di prostituzione protetta.
A quattordici anni viene venduta al circolo.
A diciannove anni riesce a fuggire e scopre che sua madre l'ha trasferita nell'orfanotrofio, ma è rimasta nella loro residenza a Marseille, in Francia, insieme agli altri tre figli. Non capisce.
Sempre all'età di diciannove decide che non le importa più capire, vuole solo vendicarsi.
Dal testo:
«Se il nome che mi avete dato non è falso, se vi chiamate davvero Odette Gauthier, allora forse posso dirvi il motivo per il quale vostra madre vi ha confinata in uno squallido e corrotto orfanotrofio, in Corsica. [...] Voi siete quattro ereditari, due dei quali a titolo pieno poiché maschi. Tuttavia, vostro padre ha lasciato interamente l'eredità a vostro nome. Non vi è alcun testamento, ma l'eredità risulta a voi e voi soltanto trasmessa.»
L'atto del decesso che aveva in mano era firmato da un medico legale ed una corte giudiziaria con la data del ventidue Febbraio 1945, in alto era chiaramente indicato il suo nome.
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento, Dopoguerra
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Capitolo II
Uomini d'affari
 
 
 
 
Bonifacio, Corsica – Orfanotrofio femminile di S. Héloïse
 
 
 
Manon tremava.
Camminavano scalze e in punta di piedi lungo il corridoio, tenendosi per mano. Manon stava in mezzo e guidava Odette e Geneviève, mentre moderava silenziosamente il proprio respiro affinché non se ne percepisse l’affanno. Il suo volto, insolitamente truccato, era deformato dal un livido scuro che le metteva in ombra ogni naturale punto luce sul viso. Era paura. Ed il tremolio non era altro che il suo sforzo per controllarla e nasconderla.
Si fermarono davanti alle scale. Arrestarono il passo bruscamente tutt’e tre, in parte perché la prudenza di Manon si era concretizzata in una stretta improvvisa alle loro mani, in parte perché non erano distanti dall’atrio centrale e, per Dio, già a quella distanza si sentivano le voci dall’atrio.
«Credo che la selezione sia già iniziata.» Le parole uscirono alla ragazza in un soffio spinto, spinto da quella che senza dubbio era ansia e dallo sforzo di ridurre il bisbiglio a semplice aria emanata dal vento marino della Corsica occidentale.
Manon era stata trasferita nell’orfanotrofio di S. Héloïse all’età di undici anni. Era già ragazzina, sufficientemente matura per porsi delle domande e abbastanza sveglia per focalizzarsi su quelle giuste. Nascondeva ancora la fame ed i lividi delle punizioni che aveva subito nel tentativo di trovarne le risposte.
La prima domanda che si fece, la notte del suo arrivo nell’orfanotrofio assieme allo zio, fu basilare, semplice, quasi banale. La carrozza che li aveva accompagnati dal porto si era fermata a distanza ed il cocchiere aveva insistito per non procedere ulteriormente, nemmeno in cambio di una dignitosa mancia; avevano colmato quella distanza a piedi, trascinandosi dietro il baule che raccoglieva tutti i suoi averi – abiti, libri, scarpe; album di famiglia e lettere erano stati tutti bruciati dallo zio diversi mesi prima. L’edificio dell’orfanotrofio era in cima ai ripidi scogli e in un qualche modo si mimetizzava con i massi sui quali era stato edificato. La Manon undicenne si chiese come facessero durante le tempeste, visto che si affacciava sul mare. Tre settimane dopo il suo arrivo scoprì che esistevano dei sotterranei all’interno degli scogli, costruiti in risposta al fenomeno naturale. La mattina dopo, invece, quando la tempesta era finita e poterono risalire nelle loro stanze, trovandole interamente allagate, si pose la seconda domanda. Lei era svizzera, veniva dal cuore dell’Europa, allora perché suo zio aveva scelto un orfanotrofio che addirittura dava sul Mediterraneo, quasi dall’altra parte del continente? Perché tanto lontano?
Dopo essere entrata più approfonditamente a contatto con i meccanismi rigidi della realtà dentro l’orfanotrofio, nei mesi successivi, aveva deciso di scrivere allo zio e chiedergli espressamente il perché della sua scelta. Non ricevette mai alcuna risposta.
Dunque, si pose ancora un’altra domanda che la tormentò per qualche altra lettera ancora, finché – circa due anni dopo la sua permanenza, intrufolatasi furtivamente nello studio di Sœur Françoise – aveva trovato le sue lettere indirizzate allo zio in un cassetto dietro la scrivania. La risposta tanto attesa portò ad inevitabili altre domande, ma un’idea nuova aveva preso forma nella sua mente: non aveva mai ricevuto risposta alle sue lettere semplicemente perché queste non erano mai state spedite, e questo in realtà non la sconvolse più di tanto; piuttosto, la sua personalità era stata scalfita un concetto netto ed indelebile che non l’accompagnò solo per il resto della sua permanenza nell’istituto, ma per molti anni a seguire, e Manon si era addormentata ripetendoselo tutte le notti, tutte quante: lei era sola.
Ma la solitudine è la definizione degli orfani per principio e questo lo dimostrava il fatto che nessuna delle lettere scritte dai bambini veniva spedita, non solo le sue. Era rimasta china sulla scrivania a frugare nel cassetto fino a quando la custode non l’aveva trovata, presa per i capelli e chiusa in dormitorio per due giorni senza cibo, ma era riuscita a trovare una reazione abbastanza logica alla sua domanda iniziale. Tutte le lettere scritte venivano aperte, lette e messe ordinatamente nel cassetto dopo essere state distinte e catalogate in base al proprietario; a parte quelle per Babbo Natale, quelle non le aprivano.
Tuttavia, si rese presto conto che l’abbandono era individuale, quasi intimo, per niente condiviso. In quei cinque anni nell’orfanotrofio, Manon aveva dovuto applicare un distorto principio di sopravvivenza che consisteva innanzitutto nella diffidenza – non ci si poteva fidare di nessuno – e all’egoismo – bisognava difendersi certamente, ma era necessario anche saper attaccare. Manon era stata educata alla diffidenza e all’egoismo.
Però la ragazzina che era stata non fu mai abbastanza ottusa da trarre insegnamento da quello che veniva subdolamente propinato in quell’orfanotrofio e le sue mani arpionare a quelle di Odette e Geneviève ne erano una leale dimostrazione.
«Scendo io per prima.»
Si fece avanti e scese gli scalini a spalle curve nel tentativo di rimpicciolirsi il più possibile, ma si fermò a metà scale perché il tendine delle caviglie tremava e lei temeva di cadere. Aveva un intoppo che scendeva e risaliva acido lungo l’esofago, ma non deglutì perché era un suono che rimbalzava nelle sue orecchie e temeva si potesse sentire anche al di fuori di esse.
Fece segno alle due ragazzine di avvicinarsi e seguitò a finire gli ultimi scalini. Strisciò lungo il muro ed accavallò lo sguardo all’angolo che portava alla cucina. Notò immediatamente che la finestra era aperta, lo capiva dal vento pronto a schiaffeggiarla ogni volta che si voltava a spiare.
Afferrò frettolosamente il braccio di Geneviève e se la avvicinò. «Forza, dammi le chiavi!»
La vide infilare una manina all’interno degli indumenti e ritirarla successivamente con due chiavi il cui tintinnio palesava il suo tremore.
Manon gliele arpionò via ed entrò subito in cucina. Il pavimento non rivestito, a freddo contatto coi suoi piedi nudi, la fece tremare ancor di più; il vento era talmente gelido che per un momento pensò di chiudere la finestra, ma fu solamente un’intenzione astrusa perché si era già inconsapevolmente fermata davanti alla porta della dispensa.
Infilò la chiave nella serratura attentamente e ad agio affinché non s’intoppasse, la girò con una lieve pressione del pollice ed avvicinò la porta con uno strattone in modo da attutire lo scatto dello sblocco.
Schioccò le dita uno, due, tre volte e Geneviève e Odette entrarono in cucina tenendosi per mano.
Indicò loro la dispensa, esortandole ad entrarvi mentre lei spingeva la porta.
I cardini cigolarono.
Respirò a fondo, una sola volta. Guardò prima una e poi l’altra.
«Dentro! Subito!»
Le spinse e chiuse velocemente la porta, facendo stridere ancora una volta i perni. Si inginocchiò e spiò dalla serratura, ma vide solamente i capelli rossastri di Geneviève.
«Andate in fondo!» Le sgridò.
«Manon, ci hanno sentite?»
«Probabile.» Annuì. «Per questo devo andare, d’accordo?» Nessuna delle due rispose e lei ne approfittò. «Nel mio materasso, dentro il materasso, ci sono dei soldi e qualche gioiello che sono riuscita a rubare. Non molto, ma l’orologio di Monsieur Dupont dovrebbe valere un centinaio di sterline.» Avvicinò la bocca al chiavistello. «A Natale, durante le preghiere di mezzogiorno, Sœur Françoise non c’è mai.» Aveva verificato. «Prendete tutto e scappate.»
Spiò ancora e questa volta vide solamente un occhio sgranato, subito al di là della serratura, e lo riconobbe come quello di Geneviève dal verde chiaro, ora lucido; di Odette udiva solo qualche bisbiglio esagitato.
Vivevano nell’orfanotrofio già da diversi anni quand’era arrivata lei, non appena le aveva viste, aveva pensato che fossero piccolissime, belle da morire e decisamente troppo sole. Avvicinarsi a loro era stato inevitabile poiché erano le uniche due a parlare francese, siccome tutte le altre bambine erano tedesche o italiane.
Le aveva nutrite, togliendosi il cibo dalla bocca; le aveva protette con la propria pelle dal freddo e dal dolore, prendendosi i loro brividi ed i loro lividi; le aveva curate e lavate, con acqua, sapone, medicinali e fiabe inventate sul momento. Manon era la loro mamma.
«A Françoise non piacerà, no.»
Anche a distanza di anni, si era domandata come avesse fatto a non sobbalzare nell’udire una voce così categorica, insolitamente virile e pericolosamente vicina; si era chiesta se avesse preferito che l’azzurro vivido dei suoi occhi dilatati si rispecchiasse nell’occhio sbarrato di Geneviève o se, infondo, l’avesse sempre saputo che c’era qualcuno dietro – non per forza alle sue spalle. Forse, se l’era aspettato sin dal principio.
Quando si voltò, il primo elemento che individuò e prontamente elaborò fu la giacca blu, il secondo, fu il modo col quale il proprietario la guardava.
Gli uomini covano un piacere primordiale – famelico quanto sadico – nel guardare le donne dall’alto.
Lo vide piegare la testa di lato, come a volerla guardare meglio. La cintura di cuoio dei suoi pantaloni le arrivava all’altezza del viso e lei non poté far altro che rimpicciolirsi ancor di più, mentre la sua schiena aderiva al freddo metallo della porta della dispensa.
«Come ti chiami, fanciulla?»
Glielo chiese con garbo ed una certa eleganza espressiva che, se non avesse saputo chi fosse e perché fosse lì, forse Manon gli avrebbe anche risposto. In effetti, poco dopo, il tale annuì pensieroso e si chinò su di lei. Pensò che l’avrebbe strozzata, ma semplicemente le stava toccando il collo; le tastò le spalle, la nuca, la guancia, le labbra. Nessuno l’aveva mai toccata in quel modo.
«Avevi ragione, la prendo.»
Non capì a cosa si riferisse o con chi parlasse, fino a quando Sœur Françoise non spinse la porta-finestra alla sua destra ed entrò nella cucina. «Immaginavo. Era proprio di lei che vi parlavo, Monsieur Lacroix.»
Manon chiuse gli occhi. La finestra.  Se l’avesse chiusa…
«Che cosa combinavi tu qua, eh?» La suora l’afferrò per un braccio, tirandola.
Manon si alzò in piedi, velocemente. «Nulla, Sœur Françoise.»
Sœur Françoise l’afferrò per i capelli. Le piaceva troppo tirarglieli. «Bastarda e pure bugiarda.» Serrò le ciocche bionde di Manon ancor di più tra le sue dita. «Guarda un po’, ti sei fatta bella, sapevi che ti tenevo d’occhio, eh?»
La presa della custode si allentò dopo un ultimo strattone e Monsieur Lacroix  si frappose tra lei e la suora. «Il pagamento è già stato effettuato.» Scrollò le spalle. «Questo significa che è roba mia, ora.» Fece un cenno a Manon. «Nulla di personale, eh. Però mi serve intatta e per di più vorrei salire sul traghetto prima dell’alba.»
Sœur Françoise serrò le labbra, marcando le rughe ruvide e mettendo su un cipiglio torvo, sgradevole alla vista. «Convincetela voi a dirvi dove si trova la settima, allora.»
L’uomo sorrise. Manon lo osservò nascondendo il proprio sguardo attraverso le ciglia e la prudenza. Gli si piegava solo un lato delle labbra che distendeva i lineamenti sinistri del viso; l’altro lato rimaneva fermo. L’espressione che ne risultava era sbarazzina e spudorata. Manon non lo sapeva ancora, ma quello era il sorriso di un uomo che conosce bene le donne.
Quando si voltò a guardarla, Manon sgranò gli occhi.
«D’accordo, bella fanciulla.» La guardò dall’alto, ancora una volta. «Posso avere la chiave di quella porta?»
«Le hai nascoste nella dispensa?» Non riusciva a vedere Sœur Françoise, ma immaginò comunque il volto arcigno, cattivo.
Monsieur Lacroix continuò a dare le spalle alla suora. Prese le chiavi dai pugni sudaticci di Manon – agilmente, quasi non se ne accorse da quanto tremava – e le porse alla custode senza voltarsi. Dunque, non si allontanò, piuttosto la prese per mano.
Sœur Françoise fu veloce. Uscì dalla dispensa con le mani sulla nuca di Odette e, in un qualche modo, il suo gesto strozzò anche Manon.
Non aveva il diritto di toccare le sue bambine.
«Direi che possiamo andare.» Riassunse la situazione Monsieur Lacroix. Prese per mano anche Odette e si frappose tra loro.
Quando uscirono dalla cucina, Manon trattenne il respiro e fece quasi per fermarsi. Sembrava essere tutto finito lì, non riusciva a concepire l’esistenza di un dopo, di un seguito. L’uomo con la giacca blu e la suora l’avevano inconsapevolmente convinta che non ne sarebbero mai uscite e che tutto quanto sarebbe giunto a termine esattamente così: lei che tremava, Odette che piangeva e Geneviève ancora nascosta dietro la scatola delle bustine di thè.
Geneviève.
Deglutì. La paura non c’entrava. Era sul serio finito tutto lì.
 
Le fecero salire sul traghetto scalze, insieme ad altre cinque ragazze – tre italiane e due tedesche.
Lacroix e la custode avevano discusso delle ultime incombenze davanti a loro. Si erano fermati giusto per stringersi la mano e, già che c’erano, per permettere ad Odette di vomitare.
Il traghettò partì immediatamente, non appena vi salirono. Un altro uomo con la giacca blu, notando i loro piedi nudi, promise che arrivati a destinazione avrebbero ricevuto indumenti nuovi; aggiunse anche qualcosa riguardo al fatto che quelli che indossavano sarebbero stati bruciati, promettendo con tanto di occhiolino che le gonne nuove sarebbero piaciute loro molto di più.
 
Era il 1957. Manon Piaget aveva sedici anni, Odette Gauthier aveva quattordici anni e Geneviève Dufour ne aveva tredici.
 

 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
 
21 Novembre 1962
Sharm El Cheich, Egitto – Centro sociale
 
 
 
 
«Odette Gauthier, figlia di Fédor Gauthier e Aurélie Dumas, nata il 7 Marzo 1943.» Il dottor Aymen conosceva un poco di francese.
Odette era stata diretta, intenzionalmente avventata e gli aveva rivelato la propria identità, ammettendo di non essere minorenne e che, quindi, i documenti che aveva presentato alla stazione di polizia erano falsi; tuttavia, al contrario, l’uomo era stato giudizioso, accorto e le aveva permesso di spiegarsi. Così, Odette – decisamente meno franca, ma più prudente – gli aveva rifilato un paio di ragioni sentimentali che aveva ritenuto essere sufficienti, insieme ad occhi lucidi e singhiozzi, per ottenere il suo aiuto: voleva trovare la sua famiglia.
«La vostra residenza è a Marseille.»
Era passata una settimana da quando aveva confessato il suo vero nome. Il dottor Aymen l’aveva fatta condurre un una stanza e rinchiudere. Aveva sperato di tenere il conto dei giorni in base alla frequenza dei pasti; ma questi non erano né veri pasti, né approssimativamente frequenti. Le prime volte aveva preferito tenere sulle spine il proprio appetito piuttosto che mettere in bocca la minestra che le avevano lasciato dal buco della porta, il secondo giorno l’appetito tramutò in fame e la fame ignorata portò all’inevitabile dolore, il terzo, si fiondò sulla minestra e si appurò a leccare il fondo della ciotola arrugginita. La stanza era un massimo di tre metri quadrati, non c’erano finestre e doveva essere anche piuttosto isolata poiché non vi arrivava mai alcun suono – a parte un ratto, forse un topo, in un angolo della stanza –, nessun odore – esclusa la propria puzza e assolutamente niente luce – almeno non quando teneva gli occhi aperti. Alla fine, constatò che era passata all’incirca una settimana da quanto le erano cresciuti i peli sotto le ascelle.
«Mi risulta che un vostro famigliare è morto nel 1945.» Le riportò il dottore, tenendo gli occhi attentamente saldati ai documenti che aveva davanti.
Le suore all’orfanotrofio le avevano rigidamente insegnato che la vita è un dono; però un dono può essere rubato, può essere danneggiato, lo si può perdere. La morte, invece, era una certezza, forse l’unica; Odette concepiva la morte come una garanzia, un diritto unanime, di eguaglianza. Muoiono tutti: uomini, donne, mostri.
«Vostro padre.» Precisò Aymen. «Fédor Gauthier risulta deceduto nel Febbraio del 1945.» Rialzò lo sguardo su di lei. «Non sono specificati né la data giornaliera, né i motivi.» Sospirò in segno di condoglianza.
La ragazza si nascose il volto tra le mani.
Suo padre era morto.
La prima volta che Odette aveva visto qualcuno morire aveva quindici anni. Dai documenti nel portafoglio dell’uomo, era venuta a sapere che si chiamava Diego Santos, che aveva quarantatré anni ed era sposato, con due figlie. L’aveva annusato ed aveva avuto conferma che non era ubriaco; non era nemmeno dopato poiché la droga che avrebbe dovuto consegnargli era ancora ben nascosta nella sua biancheria, non aveva fatto in tempo ad effettuare lo scambio per il quale era stata incaricata. Erano a San Rafael, in Argentina, era luglio, faceva caldo, il sangue si era incrostato subito  sul suo palmo destro e sulle dita; questo era tutto ciò che meglio ricordava, assieme a Manon che la lavava e scongiurava un uomo con la giacca blu affinché la coprisse. Questo aveva versato lo scambio di tasca sua e disciolto il cadavere di Diego Santos nell’acido. A pagare il tutto era stata Manon, alla fine.
Suo padre era morto, ma lei non riusciva a provare assolutamente nulla.
«Avete due fratelli ed una sorella.» L’uomo iniziò a parlare più lentamente, scandendo le parole ritmicamente. «Risiedono attualmente nella residenza dei Gauthier, nella vostra residenza, sotto la podestà di vostra madre.»
Odette iniziò a prestare per la prima volta attenzione alle informazioni che il dottor Aymen era riuscito a racimolare in meno di una settimana. «Abitano con lei? Non…»
«Siete stata trasferita all’orfanotrofio di S. Héloïse all’età di due anni. Vostro fratello Roméo ne aveva quattro, Étienne aveva la vostra stessa età e Désiréé è nata cinque mesi dopo.»
Roméo, Étienne, Désirée… Odette.
«Ho trovato qualcos’altro.» Aymen si prese un istante per schiarirsi la voce. «Vostra madre detiene l’eredità dei Gauthier, ma solamente in quanto tutrice.»
«Non ha senso.»
«Io credo che abbia perfettamente senso.» Scosse il capo e le porse alcuni documenti. «Se il nome che mi avete dato non è falso, se vi chiamate davvero Odette Gauthier, allora  forse posso dirvi il motivo per il quale vostra madre vi ha confinata in uno squallido e corrotto orfanotrofio, in Corsica.»
Prese in mano quello che riconobbe immediatamente, dal timbro, essere un atto di decesso.
«Voi siete quattro ereditari, due dei quali a titolo pieno poiché maschi. Tuttavia, vostro padre ha lasciato interamente l’eredità – con tanto di residenza, fabbrica, terre e acconti – a vostro nome. Non vi è alcun testamento, ma l’eredità risulta a voi e voi soltanto trasmessa.»
Il foglio che aveva in mano era firmato da un medico legale ed una corte giudiziaria con la data del ventidue febbraio 1945, in alto era chiaramente indicato il suo nome.
«Sono morta.» Le venne quasi da ridere, voleva piangere. «Il mondo crede che io sia morta.»
Aymen si alzò e le prese i documenti di mano. «Forse è meglio se vi ritirate, vi farò trasferire un una delle stanze per ospiti d’onore. Decideremo come agire quando sarete più stabile.»
«Risulto morta arsa.» Ridacchiò, portandosi le mani in bocca.
Il dottor Aymen era un uomo sulla cinquantina, con una carriera non abbastanza illustre da giustificare i suoi guadagni. Laureato in psicoanalisi in Inghilterra, era stato costretto a tornare subito dopo in Egitto a causa della guerra. Aveva trovato occupazione in quel turpe e sordido riformatorio per disgraziati e aveva dovuto agire di conseguenza. Non cercava prestigio, nemmeno fama o gloria, Mohammed Aymen aveva una madre, una moglie, due fratelli, e cinque figli da mantenere. Era un uomo d’affari prima di tutto per necessità.
«L’infermiera vi scorterà nella vostra nuova stanza, signorina Gauthier.» Nascose i documenti dietro la copertina del Corano. «Se doveste mai aver bisogno di qualsiasi cosa, non esitate a chiedere. Sarò al vostro servizio.»
Odette nascose prima il viso e poi il capo tra le mani, si fece piccola sulla sedia. «A dire il vero ho bisogno del vostro aiuto per contattare una persona che so essersi data alla macchia più di cinque mesi fa, l’ultima avvistamento è stato in Turchia, ad Istanbul.» Poggiò i gomiti sulle coscia nude, sotto gli stessi capi che indossava dalla sera in cui l’avevano arrestata di gendarmi.
L’uomo annuì, invitandola a circostanziare meglio le sue indicazioni, e lei lo fece, con ferma chiarezza.
«Manon Piaget.»
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Prima di dire qualsiasi cosa, voglio un applauso alla mia sbadataggine perché lavoro su questa storia da circa due anni e ho passato gli ultimi sei mesi a chiedermi in quale accidenti di sezione avrei potuto inserirla, prima di rendermi conto che essendo ambientata negli anni Sessanta è di genere Storico.
Già che ci sono vi do un indizio: le date – nessuna data, come nessun dato – è casuale. Tenete gli occhi aperti.
La storia si concentra in modo particolare sulla vendetta di Odette – vendetta diretta verso sua madre e i suoi fratelli, non dimentichiamocelo – e i flash back che vanno dalla sua vendita in poi.
Tuttavia, indipendentemente dai pairings che si delineeranno ed i personaggi che verranno introdotti, Manon rimane uno degli elementi di cui sono più fiera. Ammiro con tutta me stessa le donne come lei.
Prima di scomparire, c’è un’ultima cosa che volevo dire: la storia è intitolata “Chandelier” per esigenze di trama – il motivo si saprà solamente alla fine –, tuttavia ho scoperto recentemente una canzone omonima – oltretutto molto bella, anche se non c’entra nulla con la storia LOL. Mi ha preso una sottospecie di fobia ed ho paura che la gente pensi che la storia sia in un qualche modo ispirata alla canzone, nonostante, ripeto, non c’azzecchi nulla.
In ogni caso, io ero originariamente indecisa tra tre titoli perciò volevo informarmi che è molto probabile che io lo cambi. A meno che Sia non ammetta una volta per tutte che legge questa storia e le ha dedicato la colonna sonora.
 
Okay, questa storia è forever alone quanto Geneviève ed Odette prima che arrivasse Manon, perciò se qualcuno volesse lasciare un parere costruttivo e personale mi farebbe veramente molto piacere.
 
Grazie per aver letto,
a presto,
Bess
   
 
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