Capitolo 15
Il
sole splendeva gioioso su Tokyo, riflettendosi in bagliori accecanti
sulla neve
che per tutta la notte non aveva cessato di fioccare. Al porto le
imbarcazioni
erano attraccate saldamente al pontile, incrostate da un sottile strato
di
ghiaccio.
Era
la mattina del 26 dicembre e Mimi inspirò a pieni polmoni
l’aria frizzante.
Seduta sul muretto che costeggiava il lungomare, il volto scoperto
rivolto
verso l’acqua, sembrava voler assorbire con un solo sguardo
l’intero paesaggio.
-
Ero
convinto che con la scusa del fuso orario avresti dormito per due
giorni di
fila. –
Non
c’era derisione nella voce del rosso, calda e dolce alle
orecchie della
ragazza.
Mimi
arrossì, voltandosi e incontrando il suo sguardo.
-
Koushiro!
- sgranò gli occhi, trovandosi a pochi centimetri dal volto
di lui.
-
Oh,
scusami, ti ho spaventata? –
Sembrava
sinceramente mortificato e lei non poté far altro che
scuotere il capo,
tentando di nascondere il rossore che le imporporava le guance.
Lui
si sedette accanto all’amica, allungando le gambe al di
là del parapetto.
-
Sai,
Koushiro…mi è mancato tutto questo. –
Le
lanciò un’occhiata di soppiatto e la vide
sorridere dolcemente verso
l’orizzonte, gli occhi luminosi alla luce del mattino.
Sorrise
a sua volta: quella ragazza non avrebbe mai smesso di sorprenderlo.
Ogni suo
gesto era talmente genuino e spontaneo da lasciarlo sbigottito.
Ricordò
l’avventura che avevano vissuto insieme diversi anni fa. Non
si conoscevano, ma
sin dal primo momento gli era parso chiaro che Mimi fosse
l’opposto di lui:
semplice, spontanea e passionale. Alle volte s’era sorpreso
ad invidiarla un
po’ per quelle qualità che spesso
l’avevano messa nei guai ma che in compenso
le avevano permesso di conquistare l’affetto di molti. Cosa
che non si poteva
dire di Koushiro, razionale e contenuto in ogni suo gesto. Sapeva
badare a se
stesso e non aveva mai avuto bisogno di nessuno. O almeno questo era
ciò che
credeva.
Era
stata la stessa Mimi a fargli capire il suo errore di giudizio, anche
se
probabilmente non se n’era mai accorta.
Koushiro
riportò lo sguardo sul mare, sorridendo sereno.
-
Allora,
cosa mi racconti di nuovo? – esordì la ragazza
dopo un lungo silenzio.
-
Cosa
vuoi sapere? –
-
Non
so… un po’ di pettegolezzi! – sorrise
lei, civettuola.
Lui
scoppiò a ridere, gettando il capo all’indietro:
non era cambiata di una
virgola! E la cosa gli riempiva il cuore di gioia.
“
Per fortuna certe cose non cambiano mai…”
pensò, riportando la mente ai fatti
che erano accaduti negli ultimi tempi.
Certo
nulla di grave, sicuramente molte persone ora erano serene e
spensierate, ma
ciò non di meno alcuni di loro avevano sofferto
ingiustamente. Ma non era
questo a preoccuparlo.
Corrugò
la fronte: da qualche tempo aveva una strana sensazione. Avvertiva una
tensione, nell’aria e nelle persone che lo circondavano, che
andava acuendosi
di giorno in giorno. Quasi che si stessero creando le premesse per il
compiersi
di un evento.
Mimi
dovette mal interpretare la sua espressione pensierosa.
-
Dai,
non vorrai dirmi che non è successo nulla da quando ci siamo
visti l’ultima
volta… -
Koushiro
le sorrise, chiudendo dentro di sé i suoi pensieri e i suoi
sentimenti. Come
era solito fare, d’altronde. Perché allarmarla
inutilmente? Gliene avrebbe
parlato quando ne avrebbe avuto le prove.
-
Beh
effettivamente sono successe diverse cose, dipende quali vuoi sentire
per
prime. –
-
Love
stories? –
“
Prevedibile” pensò lui, affettuosamente.
-
Yamato
e Sora si sono lasciati. –
-
Oh…
- si spense il sorriso della ragazza – Mi dispiace per lei,
deve esser stato un
duro colpo… -
-
È
stata lei a lasciarlo. –
-
Davvero?!
–
Koushiro
annuì, godendosi l’espressione stupefatta
dell’amica. Quanto le era mancato
quel volto tanto espressivo e sincero.
-
Come
mai si sono lasciati? –
Koushiro
alzò le spalle.
-
Lo
sai che i pettegolezzi non sono mai stati il mio forte. E poi non sono
il tipo
di persona da cui gli altri vengono per sfogarsi… -
Mimi
abbassò il capo. Conosceva Koushiro da tanti anni, forse
meglio di tutti gli
altri digiprescelti: un ragazzo timido e gentile, dolcissimo e
premuroso,
sebbene a modo suo. Quella che gli altri scambiavano per insofferenza e
circospezione
era in realtà un’impacciata modestia. Che lei
trovava adorabile.
-
Però
– continuò il rosso – credo che il loro
rapporto avesse diverse piccole
incrinature già da un po’ di tempo. Non parlavano
più come prima, non erano più
legati come una volta. –
Lei
sorrise dolcemente dell’innata perspicacia
dell’amico: chissà come, sapeva
sempre qualcosa in più di quello che si poteva supporre. Sin
da bambino, per
quanto taciturno e concentrato più sul suo computer che
sulle persone che lo
circondavano, aveva un acuto sesto senso. Col passare degli anni e
grazie
all’amicizia con gli altri digiprescelti, il rosso aveva
imparato a interagire
maggiormente col mondo, sviluppando la sua sensibilità. E in
tutto questo
processo, a Mimi piaceva pensare di aver avuto una parte
importante…ma non
gliel’aveva mai chiesto, timorosa di ricevere una grande
delusione.
-
Poi,
certo, è intervenuto un fattore esterno… -
-
“
Fattore esterno”… - levò gli occhi al
cielo lei – Koushiro, questa non è
scienza, ma pettegolezzo! – lo canzonò lei.
-
Hai
ragione, Mimi. Allora vogliamo chiamarla…ragazza? –
Come
aveva previsto gli occhi della castana s’accesero
d’entusiasmo e lei si
aggrappò con entrambe le mani al suo braccio. Koushiro
ringraziò di avere il
cappotto, altrimenti quelle dita artigliate gli avrebbero lacerato la
carne.
-
Una
ragazza?! Chi?! Yamato ha…?! –
-
No,
non penso l’abbia tradita. Ma credo che Sora abbia capito che
avrebbe potuto
farlo, perciò l’ha lasciato. –
-
Povera
cara… Se metto le mani su quella sciacquetta…!
– ruggì furiosa.
Koushiro
sospirò di fronte all’istinto protettivo suscitato
nella ragazza di fronte alle
disgrazie dell’amica. D’altronde era fatta
così: sensibile, impulsiva e
tremendamente testarda.
-
Non
le farai nulla, Mimi. – tentò di calmarla lui.
-
E
perché?! Credi che non ne sarei capace?! –
-
Oh,
non lo metto in dubbio! Ma probabilmente dovresti ingaggiare battaglia
non solo
contro Yamato, ma anche contro Sora, Taichi e
un’agguerritissimo Daisuke! –
La
vide sollevare un sopracciglio, perplessa.
-
Vedi,
prima che accadesse tutto quel trambusto, Rumiko aveva già
stretto amicizia con
tutti loro e dopo l’accaduto il rapporto tra lei e Sora
s’è addirittura
rafforzato, perciò… -
-
Come?
–
-
Dicevo
che Sora l’ha perdonata, dunque… -
-
No
no, come l’hai chiamata? –
Koushiro
cercò il suo sguardo, ma la ragazza pareva persa in foschi
pensieri.
“
No, non può essere lei…sarebbe
un
caso troppo fortuito, una coincidenza incredibile… eppure ho
come l’impressione
che si tratti proprio di lei,
perché
se così fosse…”
-
Rumiko…si
chiama Rumiko Kitamura. Ah, giusto, ha vissuto a New York per un
po’, per caso
la conosci? –
Ci
fu una breve pausa, troppo corta per lasciar spazio ad altre domande,
troppo
lunga per non indovinare la risposta.
-
No…
- fece lei, voltando il capo dalla parte opposta e nascondendo il viso
allo
sguardo indagatore dell’amico.
Koushiro
aggrottò la fronte.
“
Sei sempre stata negata per le bugie, Mimi. Che cosa mi stai
nascondendo?”
Una
cosa era certa: il nome di Rumiko le era tutt’altro che nuovo.
“Alla
fine è stato più semplice del previsto.”
Eppure
quel pensiero non le procurava alcun sollievo. Ora cominciava la parte
difficile.
Era
da un anno che la cercava, ma dopo quella notte la famiglia Kitamura
pareva
esser svanita nel nulla. I vicini avevano riferito che
s’erano trasferiti, ma
nessuno sapeva dire dove. Aveva fatto molte ricerche, ma senza
risultato. Poi
c’era stato uno spiraglio: un collega del signor Kitamura le
aveva riferito che
entro qualche mese il fotografo avrebbe allestito una mostra personale
a Tokyo.
Il tempo di organizzare la partenza e Mimi s’era messa in
viaggio. Non ne aveva
fatto parola con gli altri digiprescelti, nemmeno con Koushiro.
Innanzitutto
doveva trovarla e meno persone erano coinvolte, minore era la
possibilità che
lei se ne accorgesse.
“
Maledetta strega…”
Un
sonoro “etciù” ruppe il silenzio
dell’appartamento 18.
Yamato
sghignazzò.
-
Credi
che qualcuno stia parlando male di te? –
-
Non
escludo l’ipotesi, ma è più facile che
io mi sia raffreddata, non credi?! –
Il
biondo rise di gusto, sotto lo sguardo fulminante di Rumiko, seduta sul
divano
e avvolta da un morbido piumone blu.
-
Sei
sempre malata. – la beffeggiò lui, posando il
vassoio con la colazione sul
tavolino di fronte al sofà.
-
È
colpa tua se ho preso freddo! Tua, della tua moto e delle tue gite
notturne! –
Lui
si chinò sul suo volto, fermandosi a pochi centimetri di
distanza.
-
Vuoi
dire che non ti è piaciuto? – le
sussurrò con voce roca.
-
N-non
volevo dire questo. – borbottò lei, scostando lo
sguardo dai suoi occhi azzurri
e magnetici.
Yamato
le stampò un bacio sulla guancia.
-
Sei
adorabile. –
Rumiko
abbassò lo sguardo, impacciata. Non era abituata a riceve
complimenti tanto
diretti, soprattutto a doverli accettare senza ribattere con battute
sarcastiche.
-
Ho
dimenticato i cucchiaini, arrivo subito. – si
scusò il biondo, scomparendo in
cucina.
Rimasta
sola nel salotto di casa Ishida, Rumiko lasciò che la sua
mente volasse alla
sera precedente.
Yamato
l’aveva baciata. Era stato tutto perfetto, semplicemente
meraviglioso. Nella
sua testa risuonavano ancora le parole della canzone che le aveva
cantato. Una
melodia romantica e struggente…
Poi
erano tornati a casa. Ma anziché dividersi, lei era entrata
in casa Ishida. Non
era la prima volta che attraversava quella soglia, ma questa volta si
era
concentrata meglio su quanto la circondava.
Un
appartamento ordinato e moderno, arredato in maniera semplice ma
fornito di un
mega televisore al plasma, uno stereo di ultima generazione, molti cd,
dvd e,
immancabilmente, giochi per il computer. Mancavano i fiori e tende e
tovaglie
erano di un monotono bianco. In compenso le pareti erano costellate di
poster
d’arte contemporanea e paesaggi, sui mobili comparivano
cornicette che riquadravano
i volti sorridenti dei familiari. La casa di due uomini, insomma.
Yamato
aveva lasciato che desse un’occhiata in giro, poi
l’aveva condotta nella sua
stanza. Anche questa si era presentata esattamente come Rumiko se
l’era
immaginata: spaziosa e piena di musica. Le pareti erano un collage di
poster di
band e rock star. I cd parevano sbucare da dovunque, impilati su ogni
scaffale,
mensola o ripiano disponibile.
S’era
gettata sul letto per sfuggire all’abbraccio di Yamato, ma il
giovane l’aveva
seguita, stendendosi accanto a lei.
-
Quella
foto… -
Yamato
aveva seguito la direzione del suo sguardo.
-
Perché
l’hai appiccicata al soffitto? –
-
Per
poterla ammirare più comodamente. – aveva risposto
lui, senza distogliere lo
sguardo dall’immagine.
Il
silenzio era calato nella stanza, scandito dai loro respiri. Ciascuno
poteva
percepire il rincorrersi dei pensieri nella mente dell’altro,
senza però
riuscire a intuirne il contenuto.
Lui
si era alzato a sedere, probabilmente con l’intento di metter
fine alla
faccenda.
Rumiko
aveva fissato la sua schiena, spaziosa ed eretta, e le ampie spalle. E
aveva
provato l’irresistibile impulso di rifugiarsi dietro di esse,
di esser
rassicurata e consolata.
Invece
era rimasta immobile. Come sempre…
-
Ehi,
tutto bene? –
Rumiko
si riscosse improvvisamente dai suoi pensieri.
-
S-sì,
certo! Benissimo! – sbiascicò in fretta.
Yamato
non disse nulla, limitandosi a sedersi accanto a lei. Rumiko
afferrò la tazza
di caffè ancora calda e l’accostò alle
labbra.
-
Senti…
- sentì esordire Yamato – Forse io non sono la
persona più raccomandabile, ma
vorrei che ti fidassi di più di me. –
Rumiko
non osò guardarlo, fissando lo sguardo nel liquido scuro tra
le sue mani.
-
So
che non è facile, ma parlare a volte aiuta a capire, ad
accettare…anche a
dimenticare, se necessario. Ci sono passato anche io, tanto tempo
fa… -
-
Non
credo… – sussurrò lei, posando la tazza
sul tavolino.
-
Ne
sei sicura? –
Silenzio.
-
Il
fatto che due persone abbiano vissuto vicende diverse non significa che
non
possano capirsi l’un l’altra. Persone con
esperienze simili possono al
contrario confrontarsi, metter l’altro a parte delle
consapevolezze acquisite.
–
Silenzio.
-
Rumiko…
- le afferrò delicatamente le mani nelle sue – Io
voglio aiutarti, per quanto
mi sia possibile. Ma non posso farlo se non mi parli. –
La
vide tremare impercettibilmente. Allora temette di aver esagerato.
L’abbracciò
e la cullò dolcemente sul suo petto, senza dire
più nulla.
“
Io voglio fidarmi di te! Voglio
davvero fidarmi di te! Perché tengo molto a
te…”
-
Quella
foto… -
Yamato
smise di cullarla, ma non la lasciò.
-
Quella
foto è molto importante…riguarda il mio passato,
un passato che ormai mi sono
lasciata alle spalle... –
-
Che
tipo di passato? –
Lei
parve pensarci un attimo su.
-
Non
saprei nemmeno io come definirlo… Facevo qualcosa che mi
entusiasmava, che mi
faceva sentire forte, quasi invincibile. Anche se forse non sempre era
giusto… Ho
trascorso dei bei momenti, ma poi è morta mia madre e tutto
è cambiato… O forse
è solo cambiato il mio modo di vedere il mondo.
D’improvviso quelle cose che
avevo fatto mi sono sembrate mostruose e solo l’idea di
rifarle mi procurava
disgusto. Fino a quel momento non avevo pensato alle conseguenze delle
mie
azioni, ma ripensandoci mi accorgevo del dolore che dovevo aver
procurato a
molti, seppur indirettamente. Ho cominciato a chiedermi
perché avessi compiuto
certe azioni, ma ogni risposta mi sembrava insoddisfacente. –
Sospirò.
-
Ho
cominciato a cercare all’esterno le riposte di cui avevo
bisogno. E sono venuta
a conoscenza di alcune verità che hanno accresciuto la mia
amarezza, aumentando
anziché dissipando i miei dubbi. Ho capito di non esser mai
stata messa al
corrente di tutta la verità. Ho provato rancore per quelli
che avrebbero dovuto
aiutarmi e guidarmi e che invece mi avevano lasciata in balia della
sorte. Mi
sono sentita abbandonata e usata. E impotente. Perché ormai
quelle cose erano
già successe e non avrei potuto far nulla per cambiarle.
–
Lui
non aveva ancora proferito parola, immobile e attento.
-
Non
penso di rinnegare del tutto quel mio passato, ma andandomene da New
York ho
deciso di porvi la parola “fine”. È un
capitolo chiuso della mia vita… -
Yamato
annuì, sebbene non fosse affatto sicuro di aver capito.
-
Quella
foto me lo ricorda continuamente, perché ne ha immortalato
un momento
rappresentativo. –
Yamato
ripensò alla figura dai capelli lunghi che si stagliava
sulla cima del
grattacielo. Osservandola con attenzione aveva notato che portava uno
strano
copricapo, con due punte sulla cima. Un mano teneva un bastone. Era una
teppista?
“
Beh, col caratterino che ha non mi stupirebbe…”
Era
possibile che dopo la scomparsa della madre avesse capito il
significato della
morte e del dolore che poteva arrecare ad altre persone. Forse aveva
messo la
testa a posto per non impensierire ulteriormente il padre,
già abbattuto dalla
perdita della moglie. O forse da quel giorno qualcosa s’era
spento dentro di
lei e non aveva più trovato una ragione per continuare con
quello stile di
vita.
“
Ti prego, non chiedermi altro…non posso dirti nulla di
più. Quelle cose che ho
fatto, quella che ero e quello che è successo nessuno
dovrà mai saperlo! Perciò
ti prego, non chiedermi altro, non riuscirei a
mentirti…”
Probabilmente
lei non intendeva andare più a fondo con le spiegazioni e
lui non avrebbe
insistito. Però c’era ancora una cosa che voleva
sapere.
-
Mi
hai regalato quella foto per disfarti di un ricordo doloroso?
–
Sapeva
che prima o poi gliel’avrebbe chiesto. Lei aveva provato
diverse volte a
elaborare una risposta soddisfacente. Ma gli sforzi non
l’avevano condotta da
nessuna parte.
-
Non
lo so… - si scostò da lui.
Lui
attese che continuasse, cercando d’intercettare il suo
sguardo evasivo.
-
È
stato un gesto… -
-
Impulsivo?
–
-
Direi
piuttosto istintivo… -
Rumiko
scrollò le spalle, come a volersi arrendere.
-
Ok,
lo ammetto: non avevo un regalo per te. Cioè sì,
ce l’avevo, ma l’ho dato a
Mei. -
-
Credevo
avessimo fatto pace alla festa della scuola. Mi odi così
tanto? – rise lui.
-
No,
certo che no! Il regalo te l’avevo preso già prima
della festa… -
Il
sorriso del ragazzo si allargò e lei s’accorse di
aver parlato troppo.
-
Comunque
l’ho dato a Mei perché Daisuke non le aveva preso
nulla e non volevo che si
sentisse esclusa…poi tu mi hai regalato i cd e non volevo
lasciarti a mani
vuote, così sono andata in camera mia in cerca
di… -
-
Di
qualcosa da riciclare! – scoppiò a ridere lui.
Lei
lo fulminò.
-
Tu
mi avevi fatto un regalo bellissimo, mi avevi regalato qualcosa di tuo.
E io
avrei voluto fare altrettanto…ho cercato qualcosa che
potesse piacerti, che mi
rappresentasse, che potesse farti pensare solo a me… -
Yamato
non rideva più, fissandola serio.
-
Ho
pensato alla foto e prima che me ne accorgessi te l’avevo
già impacchettata… -
Lui
le afferrò una mano, ma lei parve non accorgersene e
continuò imperterrita la
sua spiegazione disordinata.
-
Non
sapevo nemmeno io come dovessi interpretarla, non so cosa ho pensato in
quel
momento. –
Lei
non s’accorse del corpo di lui che s’accostava al
suo.
-
Ma
per quanto a me possa rievocare spiacevoli ricordi, è
qualcosa di mio, di
personale. Qualcosa che nessun altro ha. Perciò
io… -
La
interruppe con un bacio.
Sapeva
che l’interruzione avrebbe potuto farla inviperire, ma non
aveva potuto
trattenersi.
Gli
bastava incontrare quegli occhi viola, smarriti e turbati per aver
voglia di
stringerla tra le sue braccia. Rumiko era forte e coraggiosa, ne era
convinto.
Ma nel suo sguardo vedeva il suo tormento interiore,
l’intensità delle sue
emozioni, i fantasmi del suo passato misterioso.
“
Voleva regalarmi qualcosa di solamente suo...”
Sentirle
pronunciare quelle parole gli aveva fatto battere il cuore a mille.
Sapere che
lei lo pensava, che voleva che anche lui la pensasse…
Le
credeva. Voleva credere ad ogni sua parola. Perché
l’amava.
Quando
scese la notte, le nuvole si muovevano lente, ora oscurando, ora
rivelando
piccoli scorci di una pallida sfera sopra Tokyo.
Tutto
era silenzioso.
Poi
improvvisamente si levò l’ululato del vento, che
scacciò rapidamente le nubi.
Una
luna piena brillava ora nel cielo, proiettando la sua luce sulle alture
alle
spalle della città, insinuandosi tra rocce ed alberi, fino a
rivelare le
colonne di un tempio scintoista dedicato al dio Inari, la
divinità del riso.
L’alone
latteo scivolò sulle lisce superfici e sulle mattonelle del
sentiero, sino
all’ingresso del santuario. Ma non proseguì oltre:
la statua di una volpe si
ergeva ai piedi di un antico ciliegio, le fauci spalancate e minacciose.
L’ululato
del vento si fece più insistente, rimbombando sulle pendici
del promontorio e agitando
le chiome dell’albero.
Poi
tutto tacque.
Le
nubi tornarono a coprire la luna e tutto venne nuovamente avvolto
dall’oscurità. Eppure un debole biancore
s’aggirava ancora nel cortile del
santuario, quasi che la luna avesse scordato di ritirare uno dei suoi
raggi
luminosi.
Continua…