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Autore: Alaire94    17/09/2014    6 recensioni
Molto bella, quanto crudele diceva la gente di Marfisa D'este, nobildonna ferrarese del XVI secolo.
La leggenda narra che il suo spirito si aggiri ancora tra le vie di Ferrara, alla guida di un cocchio trainato da cavalli bianchi e seguito dalla lunga schiera degli uomini a cui strappò il cuore dal petto. Qualcuno dice anche di averla vista girovagare tra le mura della palazzina a lei dedicata, la stessa dove Sabrina, una giovane donna appena laureata e con la repulsione verso gli uomini, ha appena trovato lavoro.
Terribili visioni, inspiegabili istinti omicidi perseguitano la ragazza, almeno finché non arriva un bizzarro e misterioso uomo che sostiene di poterla aiutare.
Genere: Mistero, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2


Parte I




La serratura malandata dell'appartamento scattò dopo due tentativi e un paio di imprecazioni. Fui fagocitata dal buio al di là della porta. A tentoni cercai l'interruttore, mentre con un piede chiudevo la porta dietro di me. La luce del lampadario sfarfallò qualche secondo per poi illuminare il tavolo della cucina dove appoggiai le chiavi di casa. Proprio affianco le chiavi trovai un biglietto firmato da Greta, la mia coinquilina.

Sono uscita, torno tardi, recitava.

La cosa non mi stupiva: probabilmente era una delle solite feste sesso, droga e rock n'roll a cui era abituata.

Un leggero sorriso mi increspò le labbra: proprio quella mattina mi aveva detto che il giorno seguente avrebbe avuto una lezione importante.

Le avevo detto mille volte che avrebbe dovuto rinunciare alla vita mondana se voleva laurearsi, ma lei non mi dava mai ascolto. Infatti i suoi risultati non erano sempre eccellenti, ma finché c'era suo padre a mantenerla...

Speravo di rilassami un po' buttandomi direttamente sul divano, ma appena mi accorsi dei vestiti da lavare

accatastati ovunque e della pila di piatti sporchi nel lavello, capii che avrei dovuto rimandare. Nella mia testa maledissi cento volte Greta per essersene andata, lasciandomi tutte quelle incombenze.

Ero immersa fino ai gomiti nell'acqua sporca del lavandino, quando il cellulare squillò. Mentre asciugavo le mani nello strofinaccio, gettai un occhio allo schermo dove un nome si illuminava ad intermittenza. Era mio padre.

Per qualche secondo ponderai se rispondere o lasciarlo suonare fino a far partire la segreteria, poi lo presi in mano e pigiai il tasto verde.

«Ciao bambina mia», mi salutò.

Cercai di trattenermi dal controbattere: sapeva che odiavo quando mi chiamava così, mi faceva sentire piccola. E poi mi ricordava la mia infanzia, quando mi spingeva sull'altalena e andavamo d'amore e d'accordo. Ormai non era più così e ricordarlo era alquanto triste. «Ciao papà», risposi in tono neutro.

«Allora? Come è andata la prima giornata di lavoro?»

«E' andata», mi limitai a dire, buttandomi sul divano: in quel momento ero troppo stanca per fare due cose in una volta sola.

«Come è andata? Cos'è successo?».

Sospirai, cercando di trovare la forza per raccontare quella giornata.«Ho fatto qualche gaffe», dissi infine, accorgendomi di non avere molta voglia di raccontare cose che in fondo avrei desiderato dimenticare.

«Ti devi impegnare! E' il momento che cominci a camminare con le tue gambe!», esclamò papà dall'altro capo del telefono con una nota di rimprovero nella voce che mi urtò i nervi.

«Io e la mamma non abbiamo più soldi per mantenerti fuori casa», continuò.

Ancora prima che pronunciasse quelle parole sapevo già dove voleva arrivare. Quando avevo cominciato l'università avevo deciso di studiare fuori sede, pesando sulle loro tasche. Nonostante fossero passati cinque anni, papà tutte le sante volte non faceva che rivangare la mia decisione che non gli era mai andata a genio. Dopo la laurea sperava che ritornassi a casa, ma ormai ero troppo abituata a vivere per conto mio e tornare a vivere coi miei mi sarebbe stato stretto. Così avevo deciso di attingere dai miei risparmi per trovare un appartamento a Ferrara dove vivere con qualche coinquilina e tre mesi prima avevo preso in affitto una camera vicino alla stazione; era così che avevo conosciuto Greta.

«Lo sai, vi ho promesso che non chiederò più soldi da voi», replicai, facendo trasudare l'irritazione che mi aveva suscitato.

Mi aspettavo sempre che papà mi tirasse su di morale quando ero triste o frustrata, invece non imparavo mai che lui non faceva altro che buttarmi ancora più giù. Aveva lo strano potere di farmi sentire un'incapace.

«E tu sai invece che è a casa che dovresti stare, non ancora in giro visto che non ce n'è più necessità»

«tu stesso hai detto pochi secondi fa che devo cominciare a camminare con le mie gambe, come posso farlo se rimango ancora a casa con voi?».

Con soddisfazione per qualche secondo non ricevetti risposta: forse finalmente avrebbe ammesso che avevo ragione.

«Ad ogni modo, ti devi impegnare o ti cacceranno via!».

Avrei voluto ribattere in mille modi, ma invece tenni per me ciò che pensavo, lasciando ribollire per conto suo il sangue nelle vene: era inutile discutere con lui, sarebbe solo stato nocivo per il mio umore già fin troppo compromesso.

«Va bene, papà, non te ne devi preoccupare e comunque adesso ti saluto perché ho un mucchio di cose da fare prima di andare a dormire», dissi, non vedendo l'ora di chiudere al più presto quella chiamata: avevo i nervi tesi quanto una corda di violino e volevo evitare che scattassero.

«Ok, buonanotte bambina mia, ci sentia...». Chiusi la chiamata senza nemmeno sentire la fine del saluto.

Ero piena di irritazione e frustrazione, ma costringendomi a non pensarci riuscii a mantenere il controllo e a terminare di sistemare l'appartamento.

Guardai l'orologio appeso alla parete e mi accorsi che non era troppo tardi. Nonostante la giornata intensa pensai che una passeggiata per il centro, appena dopo cena, mi avrebbe distratto un po'.

 

Camminavo lungo una via del centro. La strada era stretta,fiancheggiata su un lato da un antico portico e sotto di esso scorrevano i negozi di abbigliamento, con le loro luci al neon che illuminavano il buio di quella sera d'inverno. Vi erano anche alcuni piccoli bar, quelli dove i ragazzi universitari erano soliti ritrovarsi la sera e che, a differenza dei negozi, che ormai avevano abbassato le serrande, stavano aprendo proprio in quel momento. Tuttavia la piazza non era affollata: erano appena le nove di giovedì sera e di solito gli studenti si ritrovavano al mercoledì e non prima delle undici. Soltanto qualche coppietta se ne stava abbracciata sui gradini degli edifici antichi, a scambiare baci e carezze. Eppure, svoltato un angolo, non potei fare a meno di notare che uno di quei bar era già in piena attività, forse per seguire la moda degli aperitivi, e alcuni ragazzi ridevano e scherzavano con bottiglie di birra in mano e urlando come fossero allo stadio.

«Ciao bella, ti va di bere qualcosa insieme a noi?», fece uno di questi non appena vi passai davanti. Era un tipo smilzo, alto, coi capelli tagliati a spazzola e un accenno di barba sulle guance che mi fece pensare che fosse almeno di due anni più piccolo di me. A giudicare dal suo tono strascicato doveva essere già alticcio.

Li bruciai con un'occhiata indifferente e continuai a camminare, mentre dentro di me pensavo che gli uomini erano tutti uguali: pensano solo a divertirsi con qualche birra e a fare baccano in strada. O almeno io, nella mia poca esperienza, li avevo conosciuti tutti così, con la tendenza a ubriacarsi e a fare i cascamorti.

Prima che potessi impedirlo, il mio pensiero volò alla mia ultima storia, finita poco meno di tre mesi prima. L'avevo conosciuto in palestra, bello, muscoloso e, strano a dirsi, perfino con una buona dose di sale in zucca. Anche lui ovviamente amante delle partite di calcio, dei locali affollati e dall'alcol, mi aveva travolta come un uragano per quella sua aria sicura e per il suo spiccato senso dell'umorismo. Poi, dopo sette mesi, mi aveva lasciata di punto in bianco e dopo poco mi era stato riferito che aveva già una nuova fidanzata, più bella di me chiaramente. Non che io sia brutta, anzi, devo ammettere di avere un bel fisico e i miei occhi verdi di solito riscuotono successo, ma niente in confronto a un bel seno prosperoso o a un bel fondoschiena.

Mentre mi arrovellavo con pensieri malinconici, raggiunsi la piazza principale, dove il Duomo svettava in tutta la sua maestosità.

Da esperta quale ero, ero sempre stata colpita dalla sua struttura così ricca di storia, dalle logge e dalle decorazioni gotiche che caratterizzavano la parte alta della facciata, che con le luci della sera si riempivano di ombre in risalto sulla pietra bianca.

D'improvviso fui attratta da qualcos'altro. Era una figura - un uomo, a giudicare dalle spalle larghe - con un cappello a borsalino calato sulla fronte e il colletto alto del cappotto scuro a coprirgli parte del viso. Gironzolava di qua e di là con quello che apparentemente sembrava essere un orologio da taschino. Lo muoveva attorno a sé, in basso, in alto, a destra e a manca come se quello fosse un cellulare e stesse cercando una connessione.

Per qualche secondo lo guardai, chiedendomi chi fosse e che cosa stesse facendo quel tipo strano e forse con qualche rotella fuori posto.

Mi avvicinai discretamente con la speranza di riuscire a vedere meglio il volto, visto che l'ombra del cappello e il colletto del cappotto lo nascondevano, quando sentii una voce familiare che mi chiamava.

Mi voltai per capire da dove provenisse quella voce. E mi pietrificai sul posto, come se una qualche strega malvagia mi avesse lanciato un sortilegio. Eccolo, il famoso uomo incontrato in palestra, davanti ai miei occhi, come se fosse stato sufficiente rievocarlo nei miei ricordi per farlo comparire in carne e ossa.

Proprio come lo ricordavo fra l'altro: stessi capelli bruni tagliati corti, nascosti sotto il solito cappellino blu con la visiera che portava sia d'estate che d'inverno, stessa nota di sicurezza negli occhi scuri e stesso pizzetto sul mento. «Allora sei tu», affermai stupidamente non appena mi fui ripresa dallo stupore. D'altronde quello fu il massimo che riuscii a dire considerando che mi sentivo una stretta al petto, come se la cassa toracica dovesse esplodermi da un momento all'altro, più o meno la stessa sensazione che avevo provato per molto tempo dopo che mi aveva lasciata.

«Sì, sono io». Seguì qualche secondo di imbarazzante silenzio in cui ci guardammo senza sapere cosa dire. «Ciao, Sabry, è un piacere vederti».

Cercai di mandare giù il groppo acido che avevo in gola, ma con poco successo; le parole mi uscirono dalla bocca strozzate: «anche per me, Fede». Mentre altri secondi di silenzio seguirono il mio saluto, pensai che avrei preferito che fosse passato oltre, che non mi avesse chiamata, così che io potessi continuare la mia vita e non vederlo mai più.

«Allora? Cosa mi racconti? Qualche novità?», chiese, curioso.

Avrei voluto liquidarlo con una scusa, senza rispondere, ma poi pensai che mi avrebbe dato una sorta di sollievo raccontargli che la mia vita era andata a gonfie vele senza di lui. «Tutto bene, ho iniziato a lavorare in un museo qui in città... per ora ne sono entusiasta!», esclamai sfoggiando un sorriso forzato.

«Mi fa piacere! E di che museo si tratta?», mi domandò, cercando di ricambiare il mio sorriso.

«Palazzina Marfisa D'Este, non so se hai presente...». Dalla sua espressione capii immediatamente che non ne aveva idea; d'altronde non ne era un gran frequentatore. «E' qua vicino, in Corso Giovecca».

Lui annuii. «Sai, anche per me è un buon periodo: io e la mia ragazza stiamo cercando casa, abbiamo già trovato qualcosa di carino», disse, quasi come per difendersi.

Quell'affermazione fu come ricevere una stilettata in un fianco, ma mi costrinsi a non mostrare alcuna reazione. «Sono molto contenta per voi». Feci finta di dare uno sguardo all'orologio: era arrivato il momento di tagliare la corda. «Oh, scusa, s'è fatto un po' tardi, devo proprio scappare».

«Sì, anche io...». Esitò qualche attimo ancora, sistemandosi meglio il cappellino sulla testa. «Beh, allora ci si vede, Sabry».

Ci salutammo brevemente con un cenno della mano e poi corsi via più veloce del vento. Ci mancava soltanto lui a peggiorare la mia giornata!

***

Angolo autrice
Grazie a chi ha letto il prologo e il primo capitolo! Ho deciso di dividere il capitolo 2 in due parti perché era piuttosto lungo per una lettura su schermo e quindi così non vi sareste trovati un immenso testo da leggere! A parte ciò, la storia è ancora all'inizio... queste non sono altro che le premesse indispensabili per dare il via agli eventi... 
Spero di avervi incuriosito almeno un po'! Alla prossima!

   
 
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