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Autore: MM_White    19/09/2014    2 recensioni
- Allora Katniss, quale storia ci vuoi raccontare?
É la domanda di Caesar Flickerman. Katniss ci pensa su.
Gli Hunger Games sono finiti. La guerra, è finita. Ma non tutto è terminato.
Finchè esisteranno gli esseri umani, e finchè ci sarà anche solo una telecamera, allora ci sarà ancora un "pubblico".
E il pubblico vuole sentir parlare di sangue, di morte, di sofferenza.
Incombe il rischio che tutto possa ricominciare.
Anche perchè, in fondo, la voglia di autodistruggersi è semplicemente nascosta dentro noi.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caesar Flickerman, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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"Allora Katniss, quale storia ci vuoi raccontare?"



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Guardo per un attimo Caesar Flickerman, poi mi volto incerta verso il pubblico. Quale storia voglio raccontare? Non sono brava con le parole.

- Conoscete già quella del ragazzo del pane?

Il pubblico scoppia in una fragorosa risata e io sorrido, facendo credere a tutti che stessi scherzando. Ma ritorna il silenzio e Caesar mi inicita a continuare nonostante stessi parlando seriamente. Cosa vogliono sapere da me che già non sappiano? In fondo mi seguono con le telecamere giorno e notte.

Mi volto verso Peeta, seduto accanto a me. Mi sorride.

Allora, quale storia voglio raccontare?

Potrei raccontare di quando nuotavo con mio padre nel lago. Di quando sorridevo sotto il pelo dell'acqua, felice.

Potrei raccontare di quando correvo tra gli alberi, di quando tiravo con l'arco, di quando mi chinavo per raccogliere le more.

Potrei raccontare di quando me ne stavo sdraiata sul ciglio del Prato e guardavo le nuvole mutare forma e il cielo cambiare colore. E potevo guardare un tramonto senza pensare inevitabilmente a Peeta.

Potrei raccontare di quei giorni in cui sentivo il peso delle responsabilità sulle spalle, il macigno della fame nello stomaco e sulla mia testa incombeva la Mietitura.

Ma nonostante questo erano giorni felici.

Avevo il mio arco, il mio bosco e avevo la mia Prim.

E Gale era ancora mio amico.

Scuoto il capo lentamente.

No, non posso raccontare a loro di quei giorni. Quelli erano giorni felici ed erano miei. Solo miei.

Così come non posso raccontar loro di come ho vissuto gli Hunger Games, o peggio ancora, la guerra.

Di quando ho circondato di fiori la bambina del distretto 11 che mi ricordava tanto mia sorella.

E ancora oggi non capisco perchè abbiano continuato a chiamarmi «Ragazza in fiamme», visto che dopo quel giorno, insieme a Rue, mi spensi anch'io.

Di quando ho desiderato solo un po' d'acqua e del cibo, rimpiangendo i giorni al giacimento, in cui credevo si morisse di fame.

Di quando ero sempre indecisa, sempre insicura dei miei sentimenti. Ma di una cosa ero più che certa: avrei cercato in tutti i modi di tenere Peeta in vita, anche a costo di perdere la mia, di vita.

Di quando ho scoperto quanto truce e silenziosamente dolorosa fosse la guerra.

Di quando ho perso Prim per sempre.

E ritrovato Peeta un attimo prima di perdere le speranze.

Anche in questi ricordi si celano momenti drammatici, dolorosi e troppo intimi, da poterli esternare all'intera nazione.

Ma il conduttore vuole sentirmi raccontare una storia.

La platea, vuole sentirmi raccontare una storia.

Pendono tutti dalle mie labbra, attendendo una risposta. Ecco, gli uomini e una telecamera. Finchè ci sarà anche solo uno dei due, esisterà anche un pubblico. E io so già, il pubblico, cosa vuole che racconti. Gli spettatori vogliono sentir parlare di sangue, di morte, di sofferenza. Vogliono sentir parlare proprio di ciò che non vorrei si udisse mai. Amano le storie un po' macabre, i colpi di scena, il momento in sui si svelano i segreti. Sono sempre più convinta che potrebbero passare anche centinaia d'anni, ma che i loro interessi non cambieranno mai. Si tratta di qualcosa che non può essere in nessun modo modificato perchè è situato nell'animo umano. E tutto potrebbe ricominciare.

Ed è proprio il timore verso gli altri esseri umani che mi spinge ancora ad essere troppo diffidente, troppo timorosa. Della Katniss forte e coraggiosa che tutti osannavano non ne è rimasta che un fantasma o, ancora meglio, delle ceneri. Le fiamme che ardevano sul mio corpo quando venivo chiamata Ragazza di fuoco, si sono spente da tempo. Per non parlare delle ali di una certa Ghiandaia imitratrice, simbolo di libertà e di rivolta. Non ricordo più neanche quando è stata l'ultima volta che ho «spiccato il volo». Adesso sono solo una donna apatica, una moglie angosciata e una madre ansiosa. Sto solo cercando di ricomporre frammenti della mia anima. Secondo dopo secondo. Credo che sia quello che stiano cercando di fare un po' tutti, insomma. Ma gli incubi mi tengono ancora sveglia la notte, mentre di giorno, quando mi accorgo che la realtà è peggio di qualsiasi incubo, non riesco a placare la paura. Paura che si tramuta in vero e proprio terrore quando penso che non è ancora finita. Che la guerra non è ancora finita e che anche gli Hunger Games non avranno mai fine. Guerre e conflitti e ingiustizie vivranno sempre e per sempre con noi. Perchè sono dentro noi. Plutarch una volta mi disse che noi esseri umani siamo creature stupide e incostanti, con la memoria corta e un grandissimo talento per l'autodistruzione. Solo ora me ne rendo davvero conto.

Alzo lo sguardo verso il pubblico, guardo un'ultima volta Peeta. So già a cosa sta pensando, lo capisco da come mi stringe la mano. Vorrebbe dirmi: «Non devi farlo Katniss, non devi farlo se non vuoi».

Ma ormai ho deciso.

- Va bene Caesar, - Gli rivolgo lo sguardo. - Ti racconterò una storia.

   
 
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