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Autore: Padmini    25/09/2014    2 recensioni
{Fan fiction sulla serie di libri Sherlock Lupin e Io}
Dopo mesi e mesi di lontananza, Arsène finalmente riesce a raggiungere i suoi amici, Irene e Sherlock, a Londra, con il circo del padre. I tre ragazzi, che proprio non sanno tenersi fuori dai guai, verranno coinvolti in un mistero che avrà per teatro proprio il circo di Theophraste e dovranno cavarsela tra trapezisti, domatori, maghi e i loro sentimenti.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Irene Adler, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ansia e tranquillità

 

 

Quando, dopo aver cercato separatamente un'ultima volta, io e Arséne ci ritrovammo davanti all'ingresso del tendone, i nostri reciproci sguardi ci fecero immediatamente capire il risultato delle ricerce.

“Niente?” domandai, sperando ingenuamente che avesse buone notizie.

“Niente.” confermò lui, scuotendo la testa amareggiato “Se ne sarà andato a casa a badare a sua sorella, dopo quello che gli abbiamo detto ...”

Dal suo tono di voce e dall'espressione del suo viso sembrava addirittura dispiaciuto per ciò che era accaduto. Lo guardai stupita e non esitai ad esternare i miei dubbi.

“Spero che tu stia scherzando!” esclamai, afferrandogli un braccio “Hai sentito cosa ha detto prima, vi ha accusati di ...”

“Non lo ha fatto.” mormorò, interrompendomi “Sai anche tu come è fatto Sherlock, è razionale, non esclude nessuna possibilità fino alla fine e …” sospirò e si nascose il viso con la mano, come se si vergognasse di se stesso “... non aveva tutti i torti. Non possiamo sapere se uno degli altri abbia compiuto quei furti, almeno finché non troveremo il vero colpevole.”

Restai in silenzio qualche minuto, riflettendo su quelle parole, infine annuii rassegnata. Aveva ragione in effetti, Sherlock non aveva accusato nessuno, semplicemente aveva sottolineato come non potessimo escludere nessuna possibilità e soprattutto non farci influenzare dai sentimenti. Era una sua caratteristica, e lo sapevo, non farsi coinvolgere dalle emozioni, soprattutto durante le nostre avventure, durante le quali, per puro spirito di sopravvivenza avevamo imparato a dubitare di tutti. Mi passai la mano tra i capelli, sentendomi profondamente a disagio.

“Hai ragione, in effetti … F-forse dovremmo andare a casa sua e chiedergli scusa … credi che ci perdonerebbe?” chiesi, pur avendo poche speranze in merito.

“Possiamo provare” rispose lui, stringendosi nelle spalle “Ma francamente non saprei nemmeno da che parte iniziare … Non sono tanto bravo a chiedere scusa” ammise infine.

“Forse ...” iniziai, ricordando il disagio di Sherlock di quegli ultimi due giorni “Potrei chiedergli come sta sua sorella, mi sembrava piuttosto preoccupato per lei sia ieri che stamattina.”

Arséne mi squadrò per qualche istante e pensai che stesse valutando la mia proposta, infine annuì.

“Va bene. Va bene. Direi che è perfetto, almeno spero.” Si guardò attorno qualche istante, poi mi prese per mano e mi sorrise “Siamo amici, ci perdonerà se ammettiamo di aver sbagliato, giusto? Conosco Sherlock da anni e so per certo che non è per niente permaloso.”

Rincuorata da ciò sorrisi a mia volta e, ricambiata la stretta di mano, seguii Arséne fuori dal perimetro del circo. Riuscimmo a sgattaiolare fuori dalla recinzione senza farci vedere dagli agenti, che soprattutto avrebbero fatto problemi con Arséne, sapendo che faceva parte della compagnia del circo e, chiamata una carrozza, ci facemmo condurre verso casa sua.

 

Pagammo il vetturino e ci avvicinammo alla porta di casa di Sherlock. Non era un luogo al quale mi ero avvicinata molto spesso perché il mio amico odiava parlare o renderci partecipi della sua famiglia, e anche nelle rare occasioni in cui ci era capitato di dover passare di lì non ero mai riuscita ad andare più in là della porta. Destino fu che nemmeno quella volta riuscimmo ad oltrepassare l'ingresso, perché ci accolse suo fratello maggiore, Mycroft, che ci squadrò per un istante, prima di aggrottare le sopracciglia.

“Cosa ci fate qui?” ci domandò, con l'impazienza di chi è stato sottratto al suo lavoro.

“Stiamo cercando Sherlock” disse Arséne semplicemente.

“Credevo che fosse con voi” rispose lui, guardandosi per un istante indietro “Sono sicuro che non è tornato a casa da stamattina.”

Quelle parole ci raggelarono. Non lo avevamo visto allontanarsi dal tendone e non era tornato a casa. Arséne e io ci guardammo un attimo negli occhi e vedemmo il panico dilagare per un istante. Mycroft intuì che c'era qualcosa che non andava, ma preferì non intromettersi. Allora credetti che fosse per fiducia nei nostri confronti, oggi sono più propensa a pensare che fosse semplicemente troppo pigro.

Lo salutammo dicendo che lo avremmo cercato e ci allontanammo mentre man mano la preoccupazione cresceva in noi. Fatto qualche passo ci fermammo e vidi chiaramente la paura nel volto di Arséne. Non lo avevo mai visto così e la cosa preoccupò anche me, forse più del necessario.

“Dove credi che ...”

“Non lo hanno rapito.” dichiarò, con una fermezza nella voce che in qualche modo mi rassicurò, anche se per poco “Ne sono certo, altrimenti ci avrebbe lasciato qualche indizio laggiù, per farsi trovare, non credi? Siamo suoi amici e ...”

“... e lo abbiamo trattato malissimo” conclusi con un sospiro “Non credo che si fidi più di noi, dopo quello che gli abbiamo fatto.”

Arséne scosse la testa, come se una simile prospettiva non potesse avere posto nella sua mente, ma il suo sgaurdo tradiva una paura che non riusciva a confessare.

“Non abbiamo tempo per certe cose, ora” disse infine, prendendomi per mano e trascinandomi via “Dobbiamo cercarlo, ovunque sia!”

Era evidente il panico nella sua voce, nonostante cercasse con tutte le sue forze di nasconderlo, così gli strinsi la mano a mia volta e gli sorrisi.

“Lo troveremo.” dissi, e forse bastò per rassicurare sia lui che me.

 

Cercammo ovunque ci venisse in mente. Alla caffetteria, in biblioteca, a casa mia, a casa di Arséne, al giornale per il quale pubblicava i suoi enigmi, nei suoi nascondigli preferiti, nella vecchia stazione della metropolitana dove si esercitava nel tiro al bersaglio con la pistola, al porto, nei vari ospedali … fino a quando capimmo che era davvero sparito nel nulla. Lo avevo già intuito in passato, ma in quei momenti cominciavo a capire davvero che nessuno avrebbe potuto trovare Sherlock Holmes se lui non lo avesse voluto.

Solo a tarda sera, affamati e tristi, decidemmo di interrompere, almeno momentaneamente, le nostre ricerche. Avevamo camminato tutto il giorno, eppure la preoccupazione difficilmente ci avrebbe fatto fermare per riposare. Tornammo sconfitti al tendone dove, da dietro il cordone di agenti che ancora sorvegliavano la zona, ci attendeva un preoccupatissimo Theophraste.

“Si può sapere dove siete stati?!” ci domandò venendoci incontro “Ero in ansia!”

“Papà, eravamo andati a ...” cominciò Arséne, leggermente a disagio.

“ … cercare i ladri, i veri ladri!” conclusi io, togliendogli l'imbarazzo di dover confessare che avevamo litigato con Sherlock.

Theophraste annuì pensieroso e afferrò il figlio per una spalla.

“Questa situazione non è propizia per i nostri affari. Tutti ci credono dei ladri e nessuno si fiderà più di noi, anche se siamo innocenti.”

Arséne rimase immobile, pallido come un fantasma, in un silenzio che da solo denunciava quanto fosse a disagio. Mi sentivo esattamente come lui perciò, dal momento che non potevamo fare nulla per cambiare quella situazione, pensai che non ci avrebbe fatto male rilassarci un po'.

“Che ne dici di andare a prenderci una tazza di cacao?” domandai, cercando di sorridere.

“Credo che sia un'ottima idea!” mi diede man forte Theophraste “Andate pure e cercate di rilassarvi un po', va bene?”

Era evidente quanto Theophraste si sforzasse per rassicurarci, ma sembrava che nulla potesse ridargli il sorriso. Il recente furto e il litigio con Sherlock lo avevano prostrato. Lo afferrai per un braccio e lo trascinai via.

 

Restammo in silenzio fino a quando non fummo sufficientemente lontani per poterci parlare intimamente.

“Andiamo, Arséne, abbiamo anche noi bisogno di stare bene. Continuare a tormentarti così non ti farà bene anzi, ti impedirà di ragionare razionalmente e ...”

“Zitta, per favore, zitta!” gridò lui, fermandosi all'improvviso e portandosi le mani ai capelli “Stai zitta ...” sussurrò poi “Tu non …” si interruppe per qualche istante e lasciò cedere le braccia lungo il corpo, rassegnato o semplicemente stanco “C'è … c'è una cosa che devo dirti ...” mormorò infine, quasi balbettando.

Arséne non aveva mai balbettato in vita sua, era sempre stato sicuro di sé, fiero, intraprendente, anche nelle situazioni più incredibili, eppure in quel momento era rosso per l'imbarazzo e tremava come una foglia. Lo abbracciai stretto e lo cullai appena per cercare di farlo stare meglio.

“Non mi sembra il caso di starcene qui. Adesso andiamo a berci il cacao e lì mi dirai tutto, ma solo quando ti sarai completamente rilassato, va bene? Noi siamo amici, Arséne, qualsiasi cosa tu abbia da dirmi non cambierà nulla tra di noi!”

Lo sentii annuire e respirare profondamente per calmare i pensieri, ma solo dopo qualche minuto si staccò da me e mi sorrise o, meglio, finse di sorridermi.

“Come vuoi tu. Mi fido. Siamo amici, vero? Qualsiasi cosa accada siamo … amici ...” sussurrò infine, e fu proprio quell'ultima frase a farmi sospettare ciò che volesse confidarmi e che, in cuor mio, avevo sempre desiderato di voler sentire pronunciato da lui.

Dal primo momento in cui avevo posato gli occhi sui suoi avevo sentito un legame speciale. Era sempre stato gentile e galante con me e il sapore dei nostri baci permaneva nelle mie labbra come qualcosa della quale non avrei potuto mai liberarmi, né volevo farlo. Nonostante non fosse veramente il caso di essere felici, notai che mi fu quasi impossibile trattenere un piccolo sorriso di soddisfazione e gli presi la mano. Non so come recepì questo mio messaggio non verbale, ma strinse a sua volta e mi fece sentire felice come non accadeva da giorni.

 

Passeggiammo in silenzio, tenendoci per mano e percependo il reciproco respiro. Il cielo era velato da un leggero strato di nuvole che comunque permettevano di scorgere le stelle e l'aria era piacevolmente fresca. Tutto sembrava perfetto, eravamo come in una bolla in cui esistevamo solo noi due e nessun altro. Desiderai che quella passeggiata non finisse mai ma, mentre la presa della mano di Arséne si faceva via via più dolce, sintomo che anche lui si stava pian piano lasciando andare, ci avvicinammo alla caffetteria. Eravamo rilassati, finalmente dopo parecchie ore di tensione, ma nulla avrebbe potuto prepararci a ciò che ci sarebbe accaduto davanti al camino, seduti nelle nostre solite poltrone.

Una folata di vento particolarmente fredda ci convinse a interrompere la passeggiata e ad entrare. Quasi senza rendercene conto, come fosse una cosa automatica, e forse lo era proprio, ci avvicinammo al nostro angolino. Era un tavolino rotondo davanti al caminetto, dove ci ritrovavamo sempre perché era caldo d'inverno, fresco d'estate e sufficientemente isolato per permetterci di parlare in intimità. Ormai eravamo totalmente a nostro agio e forse fu proprio per quel motivo che restammo senza fiato e senza parole quando, seduto comodamente sulla sua solita poltrona, scuro in volto ed evidentemente immerso nelle sue riflessioni, trovammo Sherlock.

Il nostro amico ci fissava torvo in viso e, almeno per quello che avevo imparato da lui, il suo sguardo non prometteva nulla di buono.

   
 
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