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Autore: Alaire94    25/09/2014    3 recensioni
Molto bella, quanto crudele diceva la gente di Marfisa D'este, nobildonna ferrarese del XVI secolo.
La leggenda narra che il suo spirito si aggiri ancora tra le vie di Ferrara, alla guida di un cocchio trainato da cavalli bianchi e seguito dalla lunga schiera degli uomini a cui strappò il cuore dal petto. Qualcuno dice anche di averla vista girovagare tra le mura della palazzina a lei dedicata, la stessa dove Sabrina, una giovane donna appena laureata e con la repulsione verso gli uomini, ha appena trovato lavoro.
Terribili visioni, inspiegabili istinti omicidi perseguitano la ragazza, almeno finché non arriva un bizzarro e misterioso uomo che sostiene di poterla aiutare.
Genere: Mistero, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2 



Parte 2 



Quando mi alzai la mattina seguente, trovai Greta già sveglia, seduta al tavolo della cucina con le occhiaie sotto agli occhi e una tazza di tè fumante tra le mani. Fissava la bevanda come ci dovesse leggere il futuro.

«Ehi, buongiorno», la salutai.

Mi rispose con un grugnito indistinto e soltanto dopo qualche minuto notai che aveva ancora addosso il vestito da sera. «Ma sei appena tornata?». Per quanto la conoscessi già abbastanza bene, non finivo mai di stupirmi.

«Cavolo, Sabry, sono distrutta. E' stato uno sballo questa festa», affermò, con un filo di voce.

«Non ne dubito», dissi sarcasticamente mentre mi dirigevo verso il piano cucina dove già c'era una tazza di tè pronta per me.

«Dovevi esserci! C'erano un sacco di ragazzi carini»

«lasciamo perdere gli uomini, per favore», replicai con una nota amara nella voce, mentre dentro di me rivivevo le immagini sgradevoli del giorno prima.

«Immagino che tu abbia qualcosa da raccontarmi», commentò alla mia risposa piccata.

«Sì, ma ne riparleremo stasera, ora non voglio pensarci».

Greta annuì e finimmo di fare colazione. Andò a buttarsi a letto dicendo: "dicono che il sonno porti consiglio, magari passo l'esame" e io mi preparai in fretta e furia per andare al lavoro.

Una volta uscita di casa, avvolta nel mio cappotto marrone e nella sciarpa di lana che aveva cucito mia nonna a maglia, mi accorsi che quella mattina la nebbia si era un po' diradata; in compenso faceva molto freddo e il respiro mi usciva dalla bocca condensato in piccole nuvolette.

L'autobus era pieno come al solito, tanto che dovetti trascorrere quasi tutto il tragitto schiacciata contro le porte e muovendomi insieme a loro quando si aprivano e si chiudevano ad ogni fermata. Quando finalmente arrivai alla Palazzina il mio umore era già piuttosto basso: quel freddo che si insinuava nelle ossa mi indisponeva e le calche ancor di più, senza contare che la giornata precedente con tutta la sua carica di ansia e frustrazione mi pesava ancora sulla schiena come un masso da cinquanta chili.

Oltrepassai il cancello che portava al giardino del museo. Doveva essere magnifico durante l'estate, con la fontanella in azione e le aiuole fiorite, ma in quel periodo dell'anno mi dava quasi l'idea di qualcosa di abbandonato, di lasciato in sospeso: la statua del bambino al centro della fontanella aveva la bocca aperta, ma non ne usciva alcun rivolo d'acqua, le aiuole non erano altro che ramoscelli rinsecchiti.

Senza soffermarmi oltre, entrai nella Palazzina. Roberta doveva essere arrivata da poco: stava appendendo il suo giubbotto all'attaccapanni di fianco alla sua postazione e, vedendomi entrare, si girò a salutarmi. «Tutto bene questa mattina?», mi domandò non appena mi avvicinai per appendere il cappotto di fianco al suo.

«Diciamo di sì...c'è solo molto freddo», risposi, sebbene non fosse solamente il brutto tempo a mettermi di cattivo umore.

«Purtroppo l'inverno è così, se vivessimo su un'isola tropicale non avremmo di questi problemi», osservò Roberta sedendosi con un sospiro alla sua postazione.

Mi sedetti di fianco a lei. «Chissà, magari avremmo il problema opposto... soffriremmo per il troppo caldo».

Mentre pronunciavo quelle parole, il mio sguardo cadde sulla pila di fogli che avevo lasciato il giorno prima e il mio umore parve precipitare ancora più in basso.

«Sempre meglio di questo freddo», commentò Roberta, per poi prestare attenzione alla sua pila di fogli, mettendo così fine alla conversazione.

Per le seguenti due ore mi buttai a capofitto nei documenti, costretta a non dover pensare ad altro che a compilare moduli con i dati del museo che ormai cominciavo a conoscere a memoria, ma perlomeno tutto ciò mi impediva di pensare all'incontro inaspettato della sera prima, o a quanto mi aveva fatta innervosire papà con quella telefonata. Dopodiché cominciò ad arrivare qualche visitatore, a cui consegnai gli opuscoli informativi con un sorriso e qualche parola di circostanza. L'evento più significativo fu l'arrivo di una coppia di turisti tedeschi con cui dovetti sfoderare le mie discrete conoscenze di inglese e, con non poco stupore da parte mia, mi accorsi di essermela cavata piuttosto bene. «D'ora in poi so da chi mandare i turisti stranieri», si complimentò Roberta con un sorriso. «Il mio inglese è piuttosto maccheronico».

Stavo per replicare che neanche il mio era così perfetto quando Veronica spuntò dalla porta alle nostre spalle con uno scatolone tra le braccia e mi fece segno di seguirla. «Fai tu per un po' il lavoro di Sabrina nel caso arrivino visitatori», disse velocemente a Roberta, senza nemmeno aspettare una sua risposta.

Ritornò all'interno del suo ufficio e poi oltrepassò la porta sulla destra. Camminava veloce, coi tacchi che ticchettavano sul pavimento e io feci fatica a seguirla prima in un corto corridoio affiancato da scaffali e poi su per delle strette scalette che portavano al piano superiore, accessibile solo dal personale.

Qui vi era un altro corridoio, costeggiato da diverse porte chiuse. Veronica aprì la seconda a sinistra. Spinse un interruttore e dopo un breve sfarfallio le luci al neon illuminarono una stanza piena zeppa di scaffali ricolmi di carte ingiallite.

Con un gemito appoggiò lo scatolone su un vecchio tavolino a destra dell'entrata e lo aprì con pochi movimenti sicuri. Dal giorno prima quando mi aveva fatto firmare i documenti mi era sembrata una donna gentile, ma notai soltanto in quel momento quanto quel suo modo di fare rivelasse invece una personalità piuttosto grintosa, probabilmente quella di una donna nata per fare la leader.

«Questi sono documenti molto importanti» disse Veronica, guardandomi dritta negli occhi come per avvisarmi di stare molto attenta, «avrei bisogno che li tirassi fuori e li riordinassi».

Notai come avesse un atteggiamento autoritario, sintomo probabilmente di una buona esperienza, ma allo stesso tempo non troppo duro. Mi spiegò cosa fare: ordinare e fare l'inventario del materiale che mi aveva mostrato.

Passai un paio d'ore ad annotare i documenti che mi passavano sotto mano, mettendoci il massimo impegno e la massima attenzione come mi era stato richiesto.

Nonostante fosse un lavoro d'ufficio, notai quanto fosse faticoso e impegnativo mantenere la concentrazione per così tanto tempo, mi sentivo parecchio provata e non vedevo l'ora di finire per poter tornare a fare qualcosa di meno stressante.

Quasi come se avesse avuto un sensore radar, sentii arrivare Veronica alle mie spalle. «Allora Sabrina, a che punto sei?».

«Ho finito proprio adesso, devo solo rimettere i documenti nello scatolone», risposi sorridendo, mostrandomi soddisfatta per il lavoro concluso.

«Lascia pure finire a me, non preoccuparti, torna pure alla tua postazione al banco informazioni», disse prendendomi i documenti dalle mani.

La giornata stava trascorrendo velocemente; non mi aspettavo di riuscire a svolgere così tante mansioni al secondo giorno di lavoro e forse, dopotutto, avevo solo bisogno di un po' di tempo per adattarmi.

Scesi le scale con passo leggero e veloce; mi sembrava di essere già abituata all'ambiente. Eppure mi bloccai di colpo appena prima di arrivare alla reception, dove vidi Roberta che stava parlando con un ragazzo alquanto familiare.

«Ciao Sabry, mi avevi detto che lavoravi qui, ma non ero così sicuro di trovarti».

Tutto ad un tratto sentii come una scarica di ira percorrermi la schiena, facendomi stringere le spalle e chiudendo con forza i pugni.

Respirai profondamente. «Ciao Fede, sei venuto a visitare il museo?», domandai, fulminandolo con uno sguardo.

«Beh... ecco... in realtà speravo di poter parlare con te, quando hai un attimo di tempo?», rispose, sistemandosi il capellino con la visiera sulla testa; come avevo imparato dai mesi passati insieme era un gesto che compiva per scaricare la tensione.

Stavo per rispondere che dovevo continuare a lavorare, quando Roberta mi precedette:«Sabrina stava proprio per andare in pausa pranzo».

Voltò la testa verso di me e mi strizzò l'occhio, pensando evidentemente di farmi un enorme favore a darmi la possibilità di parlare con lui. Ovviamente aveva immaginato che fosse il mio fidanzato, o comunque un ragazzo con cui uscivo, non poteva sapere che non avevo la minima intenzione di parlargli; era stato un trauma sufficiente la sera precedente.

«Oh, perfetto allora...», commentò raggiante, rivolgendomi un sorriso così aperto che tempo prima mi avrebbe fatta sciogliere come un gelato.

Sospirai, cercando in me la forza per affrontarlo ancora.«Vieni, facciamo una passeggiata in giardino», dissi, facendogli segno di seguirmi. Avrei potuto invitarlo a pranzo, ma i pranzi solitamente si protraggono troppo a lungo mentre io preferivo qualcosa di rapido e indolore, senza considerare che bastava la sua presenza per farmi serrare lo stomaco.

Lui mi seguì in giardino. Camminammo per qualche secondo in silenzio verso la fontanella, poi finalmente lui si decise a parlare:«mi ha fatto piacere vederti ieri sera».

«Anche a me ha fatto piacere», dissi, più per gentilezza che per altro. «Beh, era solo questo che volevi dirmi?», domandai; volevo arrivare subito al sodo.

«Come al solito non perdi tempo, eh?!», scherzò, lasciandosi andare a una leggera risata.

Alzai le spalle.«Mi conosci, sai che voglio vederci chiaro».

«Vero. Allora, visto che preferisci saltare i convenevoli, arrivo subito al dunque». Prese un profondo respiro.«Ieri, quando ti ho rivista, ho provato qualcosa... e poi, quando sono tornato a casa, ho iniziato a pensare a te, a quando stavamo insieme e a quanto stavamo bene. Sei una ragazza fantastica e io sono stato stupido a lasciarti andare».

A quelle parole mi sentii mancare l'aria, come se fossi appena caduta in una piscina d'acqua gelata: le avevo sognate per tanto tempo nel profondo. Tutte le volte che avevo pianto per lui, insultandolo tra me e me per avermi lasciata per un'altra, in realtà sognavo questo momento più di ogni altra cosa. Ma ora... ora davvero sentivo una grande rabbia salire dentro di me.

«E quindi?», lo incalzai, sperando che la risposta non fosse proprio quella che pensavo.

«Quindi... tu non hai sentito niente?». Fissò lo sguardo su di me, uno sguardo bellissimo e implorante, un gioiello che stava proprio di fronte a me e a cui dovevo resistere.

«Sì, ho sentito qualcosa, ma... non capisco dove vuoi arrivare».

«Ti volevo chiedere se ti va di ricominciare ad uscire, di rivederci ancora», rispose e da come abbassò le spalle, capii che doveva essersi appena tolto un peso.

Io provai a trattenermi, a cercare di calmarmi ed eliminare la rabbia dentro di me, ma quelle parole, che mi risuonavano nella mente come un'eco, non facevano che fomentarla. Me ne ricordavano delle altre che aveva pronunciato soltanto la sera prima: io e la mia ragazza stiamo cercando casa.

E così scoppiai: «mi stai prendendo in giro?!».

Fede spalancò gli occhi, come fosse spaventato dalla mia reazione. D'altronde quando stavamo insieme non aveva incontrato quel lato di me.«No, perché dici questo?».

«Perché dico questo?!», urlai, fermandomi d'improvviso di camminare. Sentivo le guance avvampare e avevo la netta sensazione di non avere un bell'aspetto.«Vuoi farmi fessa, tu? Io non sono come pensi!».

«Sabry, io...», tentò di difendersi, ma lo fermai prima che potesse parlare.«Non c'è bisogno che ti dica perché sono arrabbiata, sono sicura che lo sai benissimo... e la tua ragazza dovrebbe solo ringraziarmi!».

«Se è lei che ti preoccupa, puoi stare tranquilla: so essere discreto, nessuno verrà mai a saperlo e poi...», mi lanciò uno sguardo intenso,«si tratta solo di qualche uscita insieme».

Non fu difficile carpire dal modo in cui mi guardava che non si sarebbe trattato solo di qualche uscita innocente. Forse, provava davvero qualcosa per me, ma non era sicuramente amore né amicizia; desiderava qualcosa che io non avevo nessuna intenzione di dargli perché per me sarebbe stato solamente squallido e autolesionistico.

Sentivo la rabbia pulsarmi nelle vene e annebbiarmi il cervello.«Sei proprio uno stronzo! Ora ho capito che cosa vuoi da me e ti dico una cosa: non avrai proprio nulla, né ora né mai, ficcatelo bene in quella testa di cavolo che ti ritrovi!». Le parole mi erano uscite dalla bocca come un fiume in piena, senza filtri e, senza nemmeno che me ne accorgessi, gli avevo sputato in faccia tutto il dolore e la rabbia che mi aveva fatto provare da quando c'eravamo lasciati.

Senza aggiungere altro, corsi via, dandogli una spallata e lasciandolo da solo con le aiuole incolte e la statua al centro della fontana.

Rientrai al museo e mi sedetti alla mia postazione buttandomi sulla sedia come un sacco di patate. Roberta mi guardò sorpresa, mentre io, senza una parola, avevo appena preso in mano dei fogli per ricominciare a lavorare.

«Beh, non sei in pausa pranzo?», mi domandò piuttosto perplessa.

«No, mi è passata la fame», replicai e, per quanto avessi cercato di nasconderlo, la rabbia che provavo trasparì nella mia voce.

«Problemi d'amore, eh?!», commentò Roberta, cercando di buttarla sullo scherzo, ma io non avevo nessuna voglia di scherzare.«Al diavolo l'amore», replicai piuttosto acida.

A quel punto Roberta capì che non era il caso di insistere.«Beh, visto che tu non vai in pausa, ci andrò io... ci vediamo dopo!», disse alzandosi dalla sua postazione e mettendosi il cappotto per uscire.

«Va bene, a dopo!», la salutai mentre mi immergevo completamente nel lavoro per soffocare i pensieri.

 

Fuori era buio; ormai erano solo le luci al neon a illuminare l'ingresso del museo, dove io, seduta al mio solito posto, continuavo a lavorare imperterrita. Ero rimasta da sola: Roberta e Veronica erano andate via, ma io dovevo rimanere perché quel giorno toccava a me chiudere il museo. Tutte quelle scritte, quei numeri e quelle date avevano cominciato da lungo tempo a stancarmi, ma mi costringevo a concentrarmi perché non volevo pensare a niente altro che alla mia mansione. Ma dopo otto ore di lavoro, la palpebra cominciava a calarmi e sapevo di non poter più resistere, così alzai lo sguardo dai fogli che avevo davanti e mi guardai attorno.

Mi sentivo inspiegabilmente vuota e senza energie, come se il lavoro e la rabbia insieme mi avessero prosciugata. Mi lasciai andare sulla sedia, ascoltando solo la musica grave proveniente dallo studiolo. Ora che ero rimasta sola mi pareva una colonna sonora alquanto lamentosa e un pochino inquietante. Con un sospiro voltai lo sguardo alla mia sinistra dove, sulla parete bianca era appeso un orologio che segnava le sette e mezza, proprio l'orario di fine lavoro.

Mi alzai dalla sedia con un altro sospiro, sentendo le gambe indolenzite dopo così tante ore a sedere e decisi di cominciare a fare il giro delle stanze per ordinare e chiudere tutto, ma soprattutto per spegnere quella musica che stava cominciando ad urtarmi i nervi.

Entrai nella Sala delle Imprese e ancora prima che potessi concentrarmi su qualcos'altro, il pensiero andò subito a quello che era successo con Fede. La rabbia cominciò nuovamente a farmi ribollire il sangue nelle vene; quelle erano state giornate lunghe e pesanti, in cui avevo dovuto abituarmi al nuovo ritmo, al nuovo ambiente, poi, a rovinare tutto ci si erano messi loro, gli uomini. Prima mio padre che invece di confortarmi e di incoraggiarmi non aveva fatto altro che farmi pressioni e rimproverarmi e infine Fede che, dopo quell'incontro del tutto inaspettato e indesiderato, si era ripresentato per farmi niente altro che una proposta indecente. Cominciavo a chiedermi se ci fosse un uomo in grado di amarmi.

Poi, mentre controllavo che nella sala fosse tutto in ordine, mi ritrovai davanti al quadro di Marfisa D'Este. I suoi occhi luminosi sembravano guardarmi con conforto e compassione come fosse partecipe al mio dolore. Forse avrei dovuto fare come lei: strappare agli uomini il cuore dal petto.«Tu sì che sapevi dare agli uomini quello che meritano!», esclamai rivolta al dipinto, ricordando la leggenda che mi aveva raccontato Roberta. Mi sentivo un po' cattiva a dire certe cose, ma se non altro mi era servito per sfogarmi.

Con un ultimo sguardo al quadro, procedetti verso le altre stanze finché non arrivai allo Studiolo, dove la musica del video acceso riempiva la stanza. Presi il telecomando, appoggiato sopra un'antica credenza, e spensi la televisione dallo schermo piatto. D'improvviso calò un silenzio tombale. Un silenzio completo, rotto solo dal lontano rumore delle auto che passavano su Corso Giovecca e dagli scricchiolii dei mobili. Era uno di quei silenzi che ti fanno sentire sola, che trasformano anche l'oggetto più banale in qualcosa di potenzialmente pauroso. Eppure era anche il silenzio più rumoroso che esista, quello che solo le antiche dimore hanno; quando il rumore del giorno, della vita del nostro presente se ne va, rimane quello del passato. Ogni oggetto sembra parlare, raccontare la sua storia, di tutte le persone che l'hanno toccato, che l'hanno usato. Che storia avrebbero raccontato le mura di quel palazzo? Di grandi balli e di amori, ma anche di tradimenti e cospirazioni, pettegolezzi. Sicuramente avevano custodito segreti, sconosciuti a tutti coloro che non avevano saputo ascoltare il loro silenzio.

Rimasi qualche minuto lì, a contemplare gli antichi mobili, gli affreschi e sentendo quel silenzio pesarmi sempre di più sulla schiena. Ogni secondo diventava sempre più opprimente; mi sentivo piccola, come se mi trovassi nella pancia di un mostro, in balia del suo appetito. Sentii il cuore aumentare il suo battito.

Arrivai fino all'ultima stanza, la Saletta degli Armadi, e poi tornai indietro, per chiudere le porte tra le diverse sale.

Poi, quando ritornai alla Sala delle Imprese, buttai un'ultima volta l'occhio verso il dipinto di Marfisa. Rimasi pietrificata.

All'inizio pensai di aver visto male, ma poi tornai a guardare e non ebbi più dubbi: aveva cambiato espressione. C'era un ghigno sul suo viso grazioso. Gli occhi erano più lucenti, più furbi; non c'era più gentilezza.

Non era possibile. Dovevo essermi sbagliata prima, quando l'avevo guardata e la volta prima ancora, quando Roberta mi aveva portata a fare il giro del museo. Un dipinto non poteva cambiare nel giro di così poco tempo. Eppure il suo ghigno era lì, davanti ai miei occhi e quel dato di fatto mi faceva battere il cuore all'impazzata.

Non feci in tempo a rifletterci ulteriormente che un rumore proveniente dalle mie spalle mi fece rizzare i capelli in testa. Un ticchettio, come di passi sul pavimento liscio. Mi voltai di scatto, ma non c'era nessuno né in quella stanza né in quella precedente. Eppure mi era sembrato vicino, fin troppo vicino.«Chi è là? C'è qualcuno?», urlai , con la paura che traspariva nella mia voce, ma non mi rispose altro che il rimbombo delle mie parole.

Quando voltai di nuovo lo sguardo verso il dipinto, l'espressione di Marfisa era tornata normale, gentile come sempre, come se il ghigno fosse stato qualcosa di fugace.

Decisi di non pensare più o il cuore mi sarebbe scoppiato nel petto. Chiusi le ultime porte, attivai l'allarme, presi la mia roba e corsi via alla velocità della luce.

Soltanto quando fui in autobus per tornare a casa, con le membra che tremavano dopo la tensione che avevo provato, cominciai a pensare a quello che era successo e mi convinsi che era stato tutto frutto della mia immaginazione. Doveva esserlo. 

***
Angolo autrice: 
Eccomi qui con la seconda parte del capitolo 2... e finalmente cominciamo ad entrare nel vivo! L'immagine che ho inserito è proprio il quadro di cui parlo nella storia che si trova nella Palazzina! Sembra molto bella, non trovate? 
A parte ciò, ringrazio tutti quelli che hanno letto e recensito per scambio recensioni e non e spero che continuerete a seguire perché da qui in poi comincia a farsi interessante, o almeno lo spero! 

   
 
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