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Autore: Sibylla    25/09/2014    5 recensioni
E se Kate non avesse mai accettato la proposta di matrimonio di Castle? E se il destino non si fosse ancora arreso, a differenza di loro stessi?
Dal prologo:
"Erano già passati due anni. [...]
Lo aveva detto lui, entrambi meritavano di più: più della paura di rivelarsi cosa fossero e più di un forse. E un forse era proprio ciò che gli aveva dato lei. Tutta l'esitazione concentrata nel rapido scatto delle sue iridi verdi. Avevano ceduto un solo istante all'attrazione dei loro sguardi, per posarsi su un punto troppo distante da loro due, tradendo il proprio desiderio di fuga.
[...]
Da quel giorno non aveva mai più visto Rick.
Castle, invece, lo aveva incontrato altre volte."
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro, Più stagioni
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Everything I can't be

And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)


L'orologio a muro dell'ingresso segnava le nove e quaranta, quando Kate finalmente rientrò a casa.
Gettate le chiavi sulla prima superficie piana disponibile, si trascinò stancamente fino al bagno, lasciandosi dietro una scia di vestiti frettolosamente dismessi e malamente abbandonati sul pavimento.
In altre circostanze si sarebbe rimproverata per quell'incuria, ma in quel momento -lanciata una breve occhiata dietro di sé, prima di svoltare l'angolo del corridoio- ritrovò in quello scenario l'esatta riproduzione della sua mente: un motore che si ostinava a tirare avanti, perdendo ad ogni passo un piccolo pezzo di sé.
Raccogliere quei vestiti, mettere ordine, avrebbe reso tutto sbagliato. E fasullo.
Sarebbe stato l'ennesimo ipocrita tentativo di fingere che tutto fosse a posto, di costringersi dentro uno schema di abitudini e di regole che, se non interrotto ogni tanto, rischiava di soffocarla.
C'erano momenti in cui semplicemente sapeva di dover allentare la presa su sé stessa e lasciare che un po' di verità trapelasse da quella fortezza di mattoni entro la quale si era di nuovo rifugiata: in parte perché -si ripeteva- aveva anche lei il diritto di essere debole qualche volta, ma soprattutto per evitare che, in assenza di sbocchi controllati, tutto quel ribollire rischiasse di farla esplodere in situazioni in cui davvero non avrebbe potuto permettersi di farlo.
Protetta dalla sola biancheria intima, si sedette sul pavimento, rabbrividendo al contatto con le fredde piastrelle del bagno, e abbandonata la testa sul bordo della vasca, si perdette nel lento scroscio dell'acqua che presto avrebbe ospitato il proprio corpo.
Quella appena trascorsa si era già preannunciata come una giornata pesante fin dalle prime luci dell'alba: un arresto e una pila inattesa di scartoffie non avevano fatto altro che rubarle quell'ultimo briciolo di energia rimastole.
Lasciarsi avvolgere dal calore di un bagno le era sembrata l'unica soluzione logica al proprio stato d'animo, e mentalmente ringraziò per l'ennesima volta sé stessa di non aver dato retta al suo agente immobiliare nell'anteporre la comodità di una doccia ai benefici di una vasca.
Guardarla colmarsi pigramente sotto i propri occhi si era poi rivelato uno spettacolo ipnotico, e mentre le dita distrattamente disegnavano timidi archi sulla superficie dell'acqua, la mente si era ritrovata a rievocare un ricordo che non sapeva d'aver custodito fino ad allora: davanti a lei le volute di vapore avevano così preso le forme di sua madre, Johanna, intenta a districare i capelli di una Kate ancora bambina, il cui viso livido e macchiato di fango raccontava una qualche delusione ormai persa nel tempo. La voce della donna invece sembrava essersi conservata intatta nelle sue memorie, e stava ora dolcemente ripetendole ancora e ancora parole a cui Kate aveva adesso un disperato bisogno di aggrapparsi: “Katy potrà sembrarti sciocco, ma un bagno è molto più di quello che appare. È magico. Se sei abbastanza coraggiosa da lasciare che i tuoi pensieri scivolino indisturbati fuori dalla tua mente, e non hai paura di affrontarli, allora finiranno per sciogliersi nell'acqua, e alla fine andranno via con lei giù per le tubature”.
Gli occhi le si fecero umidi, e non seppe dire con sicurezza se per colpa del vapore.


Quaranta minuti dopo Kate era già stesa sul letto, in pigiama; le mani giunte sopra lo stomaco e il relax di qualche istante prima già un lontano ricordo.
Per quanto il bagno l'avesse aiutata, alleviando la sua stanchezza, adesso che era rimasta sola con sé stessa -senza l'acqua o la schiuma a distrarla- il peso dei suoi pensieri si stava facendo insopportabilmente pressante.
Ruotò la testa verso destra e la sua guancia si beò del tocco fresco delle lenzuola di cotone, mentre lo sguardo si andava a posare sul disordine in fondo alla stanza, reduce ancora della seppur breve permanenza di Lanie in casa sua.
Una settimana era passata in fretta: tra giri della città, cene nei ristoranti più stravaganti e chiacchiere notturne, il tempo era volato, ed entrambe avevano avuto l'impressione che il giorno della partenza fosse arrivato prima del previsto. D'altronde avevano tanto da recuperare, ora che erano lontane, e anche se questo fortunatamente non sembrava aver intaccato il loro rapporto, la felicità di vedersi per un periodo tanto lungo le aveva chiaramente travolte.
Quando quella mattina l'aveva infine accompagnata in aeroporto, nel vederla scomparire dietro la porta a vetri dell'edificio col suo trolley rigonfio di abiti, non aveva però potuto non notare la punta di sollievo che l'aveva colta sul momento.
Adesso che ci ripensava, al buio e nella ritrovata solitudine della propria camera, si sentiva in colpa per aver gioito, seppur lievemente, della partenza della propria migliore amica; una parte di lei tuttavia continuava ad essere in disaccordo, e per quanto Kate si odiasse per questo, non poteva davvero biasimarla.
Quei pochi giorni in sua compagnia avevano riportato nella propria vita, insieme a un'allegria smarrita da tempo, anche un turbinio di emozioni tale da farla cadere nel più nero sconforto. Era stata brava a nasconderlo -o quantomeno, Lanie era stata brava a farglielo credere-, ma era certa che non sarebbe potuta andare avanti per molto.
E se all'inizio aveva creduto di poter gestire la propria mente, e l'intero mondo di cui Lanie -come anche lei in passato- faceva parte, c'era poi stata una sera, la quarta per l'esattezza, in cui si era davvero resa conto di stare scivolando in un pericoloso abisso di fantasticherie.
Lanie di fianco a lei aveva già preso sonno, stremata da un'intera giornata di passeggiate per le vie del centro, mentre lei come al solito era stata colta dalla più vispa delle insonnie. La stanchezza, se anche ci fosse stata, era ormai rassegnata, e da molto tempo aveva smesso di farsi sentire in quelle circostanze, conscia del fatto che non sarebbe comunque riuscita a convincere Kate ad addormentarsi; si sarebbe riproposta più tardi, nei momenti meno adatti, durante i peggiori turni di lavoro, a presentarle il conto e vendicarsi per essere stata così arrogantemente ignorata durante la notte.
Era il plenilunio e i raggi di luna entravano a sprazzi nella camera, attraverso le fessure della tenda, creando pozze argentee e nastri di luce pallida tutto intorno a lei. Uno di questi le si era posato addosso, e quando Kate aveva mosso le mani nell'oscurità alla ricerca della coperta, il filamento argenteo le si era appollaiato sulle dita creando un insolente gioco di luci tale da farle sembrare di stare indossando un impalpabile anello. Senza che se ne rendesse conto era stata rapita da quella vista e solo parecchi, interminabili, istanti dopo si era scoperta assorta in imprudenti congetture circa il come indossare un altro tipo di anello -uno più materiale- l'avrebbe fatta sentire.
Quel pensiero l'aveva terrorizzata.
Quando aveva affrontato la discussione con Lanie, la loro prima sera insieme, le aveva detto che vedere un anello al suo dito non le aveva fatto male, che era passato ormai tanto tempo dall'ultima volta in cui si era sentita trafiggere dalla semplice vista di un solitario. Ed era stata sincera.
Passare davanti le vetrine delle gioiellerie, incappare erroneamente su programmi tv di matrimoni, non erano più cose che la costringevano a scappare via, lontano da tutto e da sé stessa. Anche il semplice immaginarsi sposata, in un lontano futuro -un'eventualità su cui il suo lato più femminile amava rimuginare talvolta, sebbene distante anni luce dalle sue reali intenzioni- era adesso diventata una fantasia sostenibile.
Non necessariamente tutto riportava a lui ormai; e comunque lei col tempo era diventata brava a capire in anticipo quando mettere un freno ai propri pensieri.
Ma quella notte al suo anulare non aveva immaginato un diamante qualsiasi: a contornarlo era stata invece una pietra ben precisa e fin troppo familiare, una pietra che l'ultima volta aveva visto sparire tra le pieghe di tessuto blu di un'incriminata scatoletta, e a cui non sapeva di aver prestato tanta attenzione da poterne ricordare perfettamente le forme ancora oggi, a distanza di anni.
Se Lanie non fosse stata lì, a un paio di centimetri di distanza da lei, probabilmente avrebbe scaraventato contro il muro la lampada sul comodino, colpevole di essere l'oggetto più prossimo alle sue mani, che invece erano rimaste ancorate al lenzuolo, tremanti e imperlate da una patina di freddo sudore, e al sicuro finalmente dall'ingombrante presenza di quei fasci di luce incriminata.
A ripensarci adesso, Kate riusciva ancora a sentire i residui di angoscia albergare tra le pieghe della propria anima, e non poté trattenersi dal lanciare una rapida occhiata alle proprie mani, le cui dita affusolate giacevano placidamente intrecciate tra loro, vestite di un rassicurante buio pesto. Le tende erano state accortamente tirate a coprire l'intera finestra, e la luna sembrava troppo stanca per tentare di violare quella barriera, limitandosi a qualche bagliore annoiato contro il davanzale.
Quella notte sarebbe riuscita a dormire -questo fu l'ultimo pensiero di Kate, prima di crollare esausta in un sonno senza sogni, giunto così improvviso da non permetterle nemmeno di scivolare prima sotto le coperte.



La pioggia ottobrina la colse impreparata.
Avvolta nel suo cappotto blu Kate affrettò il passo, zigzagando tra marciapiede e ballatoi degli edifici, sperando potessero darle una seppur breve tregua dalle gocce sempre più fitte.
Quando l'acqua aveva iniziato a minacciare anche le sue calze, oltre che le scarpe, scorse finalmente l'insegna de “Le Café Charbon”, ed evitando l'ultima pozzanghera, ne afferrò la maniglia e vi si fiondò dentro.
Il tepore del locale l'avvolse all'istante, mentre l'aroma ormai familiare dei croissant già le solleticava le narici e il palato.
Aveva scoperto quel posto dopo appena un mese da che si era trasferita: una domenica mattina, la prima che aveva avuto davvero libera da quando era a Washington, si era finalmente decisa a dare un primo sguardo rilassato alla città che aveva ora il privilegio di chiamare casa, e per pura fatalità aveva finito per imbattersi nelle vetrine colme di paste di quel caffè.
Era stato amore a primo sguardo.
Non seppe dire se ad averla convinta ad entrare fosse stato più il profumo che si sprigionava dall'interno ogni volta che un cliente ne usciva , o l'atmosfera intima e accogliente che già da fuori era in grado di respirare; l'unica cosa certa era che, nel momento in cui aveva varcato la porta del locale, aveva già deciso che il tintinnio di quel campanello, posto in cima all'infisso, avrebbe accompagnato tutte le sue giornate da lì in avanti.
Nonostante fosse ancora piuttosto presto, il locale era già colmo di gente.
Le ci vollero ben due ricognizioni, ma alla fine Kate scorse un tavolino vuoto in un angolino appartato del caffè, e un sorriso fece timidamente capolino tra le labbra: era uno dei suoi preferiti. Insieme a un paio di altri tavoli, quello era il solo abbastanza vicino alla vetrata e sufficientemente distante dal resto dei presenti da permetterle di osservare il mondo circostante senza venirne osservata a sua volta.
Accomodatasi sulla sedia, e liberatasi dell'ingombro del cappotto umido, Kate allungò le braccia sulla superficie di legno e le incrociò davanti a sé, lasciando le proprie dita libere di giocare distrattamente col menù e con i bordi ruvidi del tovagliolo.
Non dovette aspettare troppo prima che il viso bonaccione di Alan, il proprietario, prendesse a trotterellare verso di lei, solcato da un profondo sorriso che Kate trovò, come al solito, irrimediabilmente contagioso.

«Buongiorno Katherine, come andiamo stamattina?»
«Alan, lo sai che non devi farmi certe domande prima che abbia preso il mio caffè»
Il sorriso dell'uomo si trasformò in una grassa risata, incrinata forse dagli ultimi strascichi di una bronchite.
«Piuttosto, dov'è Sabine? È strano non vederla dietro al bancone»
«È in cucina. Stamattina ha bruciato un'intera infornata di biscotti, il che l'ha resa particolarmente nervosa, e quando Sabine è nervosa si sfoga andando nel retro e dando ordini a chiunque, giusto per il piacere di tormentarli» 
Un'alzata di spalle rassegnata accompagnò quelle sue ultime parole, ma a tradirlo furono gli occhi, traboccanti di adorazione per quella donna che pure lo faceva esasperare a volte.
Alan infatti amava enormemente Sabine, e Kate riusciva facilmente a capirne il motivo.
Prese singolarmente erano due delle persone migliori che lei avesse avuto la fortuna di incontrare, uniti formavano un sodalizio perfetto. Erano la classica coppia fatta per stare insieme che, dopo anni di duro lavoro per costruirsi una famiglia e un futuro, si erano goduti i frutti di tanti sacrifici viaggiando alla scoperta del mondo, e ora che gli anni iniziavano a farsi più ingombranti per entrambi, avevano deciso di realizzare il sogno di una vita: aprire un loro locale.
Sabine era figlia di un panettiere, e l'amore per certe preparazioni l'aveva sempre avuto nel sangue. Alan invece era stato un giovane avventuroso che, prima di mettere la testa a posto al college, aveva deciso di concedersi l'ultima follia adolescenziale andando a vivere a Parigi per un anno, mantenendosi facendo il garzone proprio per il padre di Sabine. Si erano conosciuti così, e da allora erano stati inseparabili: seguire Alan in America, per quanto sofferta, era stata una decisione semplice, ma la Francia era rimasta sempre nei loro cuori, e quando il sogno di aprire un locale si era fatto realtà non c'erano stati dubbi su che direzione far prendere a quel progetto.
Più aveva modo di frequentarli, più Kate se ne innamorava: avevano un coraggio, un'energia e una fiducia l'uno nell'altra che lei non era certa sarebbe mai riuscita a provare. Quando li osservava poi, aveva la curiosa e confortante sensazione di stare guardando i propri genitori: se le cose fossero andate diversamente, e sua madre fosse stata ancora viva -si era detta-, probabilmente lei e suo padre nella vecchiaia le sarebbero apparsi esattamente così.
Alan e Sabine erano stati i primi a farla sentire davvero a casa una volta arrivata a Washington.
Conoscerli le aveva dato una ragione in più per legarsi a quel posto.


Cinque minuti dopo, Kate stava già assaporando una squisita brioche alla crema.
Trascorse il resto del tempo a osservare fuori dalla vetrata, sorseggiando di tanto in tanto il proprio caffè, persa nel groviglio confuso dei propri pensieri. Uomini e donne sepolti sotto strati di vestiti le passavano davanti sollevando spruzzi d'acqua che, puntualmente, finivano per posarsi su qualcun altro, la cui espressione corrucciata rendeva perfettamente l'idea di quanto poco gradita la cosa fosse loro.
Apparentemente nessuno in quella città amava la pioggia, fatta eccezione per i bambini che avevano inaugurato il salto della pozzanghera come nuovo sport nazionale. 
Lei era come uno di quei bambini.
Non perché avesse voglia di abbandonare il contegno imposto dalla propria età per andare a infangarsi senza troppi pensieri per strada -non solo almeno-, semplicemente amava la pioggia.
L'odore di erba bagnata, il freddo pungente che preannuncia le prime gocce... erano tutte cose che avevano il potere di rasserenarla.
Inoltre, in quel momento, quella vista unita al profumo di croissant, che l'avvolgeva in una vellutata spirale di dolcezza, le ricordavano intensissimamente il viaggio in Francia di tanti anni addietro, e una dolce nostalgia aveva preso possesso del suo corpo.
«Sembra che l'inverno sia arrivato in anticipo quest'anno»
Alan, giunto all'improvviso a pulire i resti della colazione della donna, ne interruppe il corso dei pensieri.
«Già, non che mi dispiaccia. Anche se sembra che l'inverno abbia aspettato che io finissi di mangiare, e dovessi uscire fuori, per dare il via al diluvio. E stamattina ho fatto il grosso errore di non controllare il tempo prima di scendere, quindi niente ombrello»
Kate rivolse un ultimo sghembo sorriso al suo interlocutore – un mix di mestizia e ironica esasperazione-, prima di tornare a studiare le gocce di pioggia infrangersi sulla vetrata.
Per quanto amasse quel tempo dovette ammettere che raggiungere il posto di lavoro sotto un acquazzone del genere non si prospettava come una bella avventura. Senza la protezione di un ombrello, e senza la sua macchina -ancora in officina per la revisione-, giungere asciutta alla meta appariva come un'impresa impossibile.
Come se avesse letto nei suoi pensieri, Alan tornò pochi istanti dopo con il conto e un ombrello color porpora tra le mani. Kate gli lanciò uno sguardo esterrefatto, già pronta a rifiutare, ma Alan fu più svelto a parlare.
«Come ho già detto, Sabine è parecchio nervosa oggi, e mi ha incaricato di dirti che se non lo accetti con le buone sarà costretta a venire lei e fartelo accettare con le cattive. Personalmente non te lo consiglio» il volto di Alan si illuminò di un bonario sorriso mentre le porgeva l'oggetto «Potresti anche tenerlo, ma poichè sono certo che non lo farai, riportalo tranquillamente domani. Ho il sospetto che ti troverò di nuovo qui»
Detto questo si allontanò, l'andatura traballante a causa del peso non indifferente.
Alternando lo sguardo tra lui e l'ombrello, adesso stretto tra le proprie mani, Kate non riuscì a trattenere un sorriso.


Dopo un paio di minuti da che aveva lasciato “Le Café Charbon”, Washington sembrava aver concesso ai suoi abitanti una breve tregua dalla pioggia, che era notevolmente diminuita. Kate comunque ringraziò di avere un ombrello sopra la testa perché senza, anche in assenza del diluvio di alcuni minuti prima, non se la sarebbe cavata di certo altrettanto bene.
Quella mattina, essendo priva dell'auto, era scesa un po' più presto del solito da casa, per cui aveva potuto fare le cose con maggiore calma prima che il momento di timbrare il cartellino arrivasse, e adesso poteva concedersi una passeggiata piuttosto che una forsennata corsa verso l'ufficio.
Col senno di poi si sarebbe pentita amaramente di quella scelta.
Aveva appena superato la libreria lungo Grosberry Street che qualcosa in quella vetrina catturò la sua attenzione. Aveva in realtà dato un breve sguardo distratto al suo contenuto, ma il proprio inconscio era stato abbastanza rapido da registrare qualcosa di anomalo in quello scenario. Titubante rallentò il passo e fece dietro front, temendo già di conoscere la risposta a cosa avrebbe trovato una volta faccia a faccia con la vetrina.
E infatti eccolo lì, in piedi nel suo solito abito scuro, con un libro in mano e la solita espressione di tronfio orgoglio scolpita in viso. Erano tutti così i suoi cartelloni pubblicitari, tanto che a volte si era chiesta se non ve ne fosse in realtà soltanto uno cui puntualmente cambiavano soltanto copertina al libro.
Era così impegnata ad essere sorpresa che non sentì la sgradevole fitta che, ostinata, stava premendo per trafiggerle lo stomaco. Inoltre, si sentiva infastidita: innanzitutto da quel sorriso, che lui aveva smesso di rivolgerle da tanto tempo -e a buon diritto- ma che ora stava generosamente concedendo a chiunque passasse da lì, e poi perché quella era la sua città adesso, e per quanto potesse essere lei quella in torto, lui non aveva il diritto di disturbarla nella sua città.
E fu allora che la notò, la scritta alla base del cartonato: Richard Castle vi aspetta il 22 novembre in occasione dell'uscita del suo nuovo libro. Ai primi 25 fan che si presenteranno una copia autografata in omaggio, non mancate!
Dovette rileggere parecchie volte prima che il suo cervello fosse in grado di processare la cosa, e le ci vollero parecchi profondi respiri per calmarsi non appena ci fu riuscito. In fondo, si disse, non era nulla di così catastrofico.
Washington era una grande città e lei era sempre oberata di lavoro: le probabilità di incontrarlo erano minime, e anche in quel caso sarebbe stata in grado di gestire la situazione. Non sarebbe certo stato il loro primo incontro da quando la loro relazione era finita e stavolta le circostanze erano persino più favorevoli, non essendoci di mezzo alcun evento che richiedesse la loro contemporanea presenza e che li costringesse a passare insieme più del tempo necessario a un breve saluto.
Mentre rifletteva su questo, e il cervello iniziava a metabolizzare lo shock iniziale, le gambe avevano preso però un'altra direzione, così come ogni muscolo del suo corpo, e nel giro di pochi istanti si era ritrovata a chiedere al gestore del bar adiacente alla libreria dove fosse il bagno.
Senza sapere come o perché fosse arrivata lì, due minuti dopo era già chiusa in uno dei loculi, seduta a gambe incrociate sulla tavoletta, col telefono in una mano.
Uno squillo, due squilli, tre squilli...
«Pronto»
«Lanie, ciao»
«Kate, non pensavo di sentirti così presto, è successo qualcosa?»
«Lui è qui Lanie. Cioè non ancora, ma lo sarà tra due settimane. Castle intendo»
«Oh...»
«Oh? Che vuol dire “oh”? Tu lo sapevi?»
«Beh, sì... senti tesoro mi dispiace, pensavo di dirtelo mentre ero lì da te, ma non ho mai trovato il modo o il momento adatto per tirare fuori l'argomento...»
Kate si agitò scomodamente sull'improvvisato sedile di plastica sul quale era appollaiata: il telefono incastrato tra la spalla e l'orecchio, mentre con le mani tentava di aiutare le gambe a sistemarsi in una posizione, se non confortevole, quantomeno stabile.
«Ma per te non è un problema, no? Tu stessa mi hai detto che ormai non ti fa più effetto la cosa. E poi non è neanche detto che lo incontrerai, ti basterà evitare la zona dell' Hartfort Hotel, è lì che starà»
Prima che potesse rispondere, il rumore dello sciacquone e di una porta sbattuta distrassero entrambe dalla domanda, e forse evitarono a Kate una risposta scomoda.
«Tesoro... ma dove sei?»
«In un bagno. Di un bar. Non so il nome, non c'ero mai entrata prima»
«Ok... e perchè mi chiami da un bagno di un bar che non conosci?»
«Beh avevo bisogno di parlarti, e non potevo aspettare di arrivare in ufficio. Inoltre non potevo restare per strada. Mi stava fissando.»
«Chi ti stava fissando?»
«Lui, Castle! Dovevi vederlo, con quell'aria boriosa e soddisfatta. Se non ci fosse stata una vetrina a dividerci probabilmente gli avrei sferrato un pugno in faccia»
«Immagino tu stia parlando del cartonato pubblicitario...»
«Beh sì, certo... non sferrerei mai un pugno a Castle, quello vero. Credo.»
Una risata cristallina risuonò attraverso l'apparecchio telefonico e Kate si sentì leggermente rinfrancata. E anche un po' stupida. In effetti, ora che ci pensava, l'essersi rinchiusa in un bagno pubblico per parlare al telefono con la propria migliore amica del proprio ex fidanzato aveva del ridicolo. Era dai tempi del liceo che non si dava a certi comportamenti, e forse neanche allora avrebbe reagito in quel modo.
«Ad ogni modo Kate ripeto, se anche doveste incontrarvi dov'è il problema? Non sarebbe certo la prima volta, e forse sarebbe anche un bene. È da mesi che non avete contatti, magari il fatto di rivedervi prima del matrimonio, in una situazione meno... carica, potrebbe essere di aiuto»
«No, hai ragione Lanie. Non c'è nessun problema infatti. È stato solo strano, credo: quando torno a New York sono consapevole che lo vedrò, e sono preparata. Non mi aspettavo di vederlo qui, ecco tutto»
«Ma certo, lo capisco»
«Adesso ti saluto, sarebbe anche ora che uscissi dal bagno e andassi a lavorare. Ti chiamo più tardi»
«D'accordo tesoro, buon lavoro»
Kate riattaccò subito, ma le ci vollero cinque minuti buoni per decidersi ad alzarsi e ad uscire da quel bagno. Col telefono ancora tra le mani non riusciva a non ripetersi nella mente le parole di Lanie: aveva ragione lei, se anche si fossero incontrati dove sarebbe stato il problema?
Da nessuna parte. Il problema non esiste.
Era come aveva detto lei, non si era rintanata in bagno per paura o per dolore, soltanto per la sorpresa di trovarselo davanti all'improvviso, anche se fatto di cartone -e a testimoniarlo c'era il fatto che nel vederlo non era stata male, non come lo sarebbe stata tempo addietro.
Forte di queste riflessioni si rimise in piedi, uscendo finalmente dal loculo dentro cui si era rinchiusa.
Prima di lasciare la stanza si diede un'ultima occhiata allo specchio e si lavò le mani, giusto per dare l'impressione di aver usato il bagno per scopi più maturi di quelli reali.
Lo specchio le rimandò un'immagine contorta: l'aspetto sembrava normale ma i suoi occhi parevano deriderla.
E Kate tornò a chiedersi se invece un problema non ci fosse. E se questo suo neo-riacquistato senso di impotenza e ansia legati alla sua presenza -o alla mera possibilità di essa- non fosse per caso dovuto alle fantasie della notte recentemente trascorsa.
L'ombra dell'anello sembrava essere tornata, indelebile sul dito come il segno di un'abbronzatura lunare.







  
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