And
right now
there's a war between the vanities
But all I see it's you and
me
The fight for you is all I've ever known
(Come
Home - One
Republic)
L'orologio
a muro dell'ingresso segnava le nove e quaranta, quando Kate
finalmente rientrò a casa.
Gettate le chiavi sulla prima
superficie piana disponibile, si trascinò stancamente fino
al bagno,
lasciandosi dietro una scia di vestiti frettolosamente dismessi e
malamente abbandonati sul pavimento.
In altre circostanze si
sarebbe rimproverata per quell'incuria, ma in quel momento -lanciata
una breve occhiata dietro di sé, prima di svoltare l'angolo
del
corridoio- ritrovò in quello scenario l'esatta
riproduzione
della sua mente: un motore che si ostinava a tirare avanti, perdendo
ad ogni passo un piccolo pezzo di sé.
Raccogliere quei vestiti,
mettere ordine, avrebbe reso tutto sbagliato. E
fasullo.
Sarebbe stato l'ennesimo ipocrita tentativo di fingere
che tutto fosse a posto, di costringersi dentro uno schema di
abitudini e di regole che, se non interrotto ogni tanto, rischiava di
soffocarla.
C'erano momenti in cui semplicemente sapeva di dover
allentare la presa su sé stessa e lasciare che un po' di
verità
trapelasse da quella fortezza di mattoni entro la quale si era
di nuovo rifugiata: in parte perché -si ripeteva- aveva
anche lei il
diritto di essere debole qualche volta, ma soprattutto per evitare
che, in assenza di sbocchi controllati, tutto quel ribollire
rischiasse di farla esplodere in situazioni in cui davvero non
avrebbe potuto permettersi di farlo.
Protetta dalla sola
biancheria intima, si sedette sul pavimento, rabbrividendo al
contatto con le fredde piastrelle del bagno, e abbandonata la testa
sul bordo della vasca, si perdette nel lento scroscio dell'acqua che
presto avrebbe ospitato il proprio corpo.
Quella appena trascorsa
si era già preannunciata come una giornata pesante fin dalle
prime
luci dell'alba: un arresto e una pila inattesa di scartoffie non
avevano fatto altro che rubarle quell'ultimo briciolo di energia
rimastole.
Lasciarsi avvolgere dal calore di un bagno le era
sembrata l'unica soluzione logica al proprio stato d'animo, e
mentalmente ringraziò per l'ennesima volta sé
stessa di non aver
dato retta al suo agente immobiliare nell'anteporre la
comodità di
una doccia ai benefici di una vasca.
Guardarla colmarsi pigramente
sotto i propri occhi si era poi rivelato uno spettacolo ipnotico, e
mentre le dita distrattamente disegnavano timidi archi sulla
superficie dell'acqua, la mente si era ritrovata a rievocare un
ricordo che non sapeva d'aver custodito fino ad allora: davanti a lei
le volute di vapore avevano così preso le forme di sua
madre,
Johanna, intenta a districare i capelli di una Kate ancora bambina,
il cui viso livido e macchiato di fango raccontava una qualche
delusione ormai persa nel tempo. La voce della donna invece sembrava
essersi conservata intatta nelle sue memorie, e stava ora dolcemente
ripetendole ancora e ancora parole a cui Kate aveva adesso un
disperato bisogno di aggrapparsi: “Katy
potrà sembrarti
sciocco, ma un bagno è molto più di quello che
appare. È magico.
Se sei abbastanza coraggiosa da lasciare che i tuoi pensieri
scivolino indisturbati fuori dalla tua mente, e non hai paura di
affrontarli, allora finiranno per sciogliersi nell'acqua, e alla fine
andranno via con lei giù per le tubature”.
Gli occhi le si
fecero umidi, e non seppe dire con sicurezza se per colpa del
vapore.
Quaranta
minuti dopo Kate era già stesa sul letto, in
pigiama; le mani
giunte sopra lo stomaco e il relax di qualche istante prima
già un
lontano ricordo.
Per quanto il bagno l'avesse aiutata, alleviando
la sua stanchezza, adesso che era rimasta sola con sé stessa
-senza
l'acqua o la schiuma a distrarla- il peso dei suoi pensieri si stava
facendo insopportabilmente pressante.
Ruotò la testa verso destra
e la sua guancia si beò del tocco fresco delle lenzuola di
cotone,
mentre lo sguardo si andava a posare sul disordine in fondo alla
stanza, reduce ancora della seppur breve permanenza di Lanie in casa
sua.
Una settimana era passata in fretta: tra giri della città,
cene nei ristoranti più stravaganti e chiacchiere notturne,
il tempo
era volato, ed entrambe avevano avuto l'impressione che il giorno
della partenza fosse arrivato prima del previsto. D'altronde avevano
tanto da recuperare, ora che erano lontane, e anche se questo
fortunatamente non sembrava aver intaccato il loro rapporto, la
felicità di vedersi per un periodo tanto lungo le aveva
chiaramente
travolte.
Quando quella mattina l'aveva infine accompagnata in
aeroporto, nel vederla scomparire dietro la porta a vetri
dell'edificio col suo trolley rigonfio di abiti, non aveva
però
potuto non notare la punta di sollievo che l'aveva colta sul
momento.
Adesso che ci ripensava, al buio e nella ritrovata
solitudine della propria camera, si sentiva in colpa per aver gioito,
seppur lievemente, della partenza della propria migliore amica; una
parte di lei tuttavia continuava ad essere in disaccordo, e per
quanto Kate si odiasse per questo, non poteva davvero
biasimarla.
Quei pochi giorni in sua compagnia avevano riportato
nella propria vita, insieme a un'allegria smarrita da tempo, anche un
turbinio di emozioni tale da farla cadere nel più nero
sconforto.
Era stata brava a nasconderlo -o quantomeno, Lanie era stata brava a
farglielo credere-, ma era certa che non sarebbe potuta andare avanti
per molto.
E se all'inizio aveva creduto di poter gestire la
propria mente, e l'intero mondo di cui Lanie -come anche lei in
passato- faceva parte, c'era poi stata una sera, la quarta per
l'esattezza, in cui si era davvero resa conto di stare scivolando in
un pericoloso abisso di fantasticherie.
Lanie di fianco a lei
aveva già preso sonno, stremata da un'intera giornata di
passeggiate
per le vie del centro, mentre lei come al solito era stata colta
dalla più vispa delle insonnie. La stanchezza, se anche ci
fosse
stata, era ormai rassegnata, e da molto tempo aveva smesso di farsi
sentire in quelle circostanze, conscia del fatto che non sarebbe
comunque riuscita a convincere Kate ad addormentarsi; si sarebbe
riproposta più tardi, nei momenti meno adatti, durante i
peggiori
turni di lavoro, a presentarle il conto e vendicarsi per
essere
stata così arrogantemente ignorata durante la notte.
Era il
plenilunio e i raggi di luna entravano a sprazzi nella camera,
attraverso le fessure della tenda, creando pozze argentee e nastri di
luce pallida tutto intorno a lei. Uno di questi le si era posato
addosso, e quando Kate aveva mosso le mani nell'oscurità
alla
ricerca della coperta, il filamento argenteo le si era appollaiato
sulle dita creando un insolente gioco di luci tale da farle sembrare
di stare indossando un impalpabile anello. Senza che se ne rendesse
conto era stata rapita da quella vista e solo parecchi,
interminabili, istanti dopo si era scoperta assorta in imprudenti
congetture circa il come indossare un altro tipo di anello -uno
più
materiale- l'avrebbe fatta sentire.
Quel pensiero l'aveva
terrorizzata.
Quando aveva affrontato la discussione con Lanie, la
loro prima sera insieme, le aveva detto che vedere un anello al suo
dito non le aveva fatto male, che era passato ormai tanto tempo
dall'ultima volta in cui si era sentita trafiggere dalla semplice
vista di un solitario. Ed era stata sincera.
Passare davanti le
vetrine delle gioiellerie, incappare erroneamente su programmi tv di
matrimoni, non erano più cose che la costringevano a
scappare via,
lontano da tutto e da sé stessa. Anche il semplice
immaginarsi
sposata, in un lontano futuro -un'eventualità su cui il suo
lato più
femminile amava rimuginare talvolta, sebbene distante anni luce dalle
sue reali intenzioni- era adesso diventata una fantasia
sostenibile.
Non necessariamente tutto riportava a lui ormai; e
comunque lei col tempo era diventata brava a capire in anticipo
quando mettere un freno ai propri pensieri.
Ma quella notte al suo
anulare non aveva immaginato un diamante qualsiasi: a contornarlo era
stata invece una pietra ben precisa e fin troppo familiare, una
pietra che l'ultima volta aveva visto sparire tra le pieghe di
tessuto blu di un'incriminata scatoletta, e a cui non sapeva di aver
prestato tanta attenzione da poterne ricordare perfettamente le forme
ancora oggi, a distanza di anni.
Se Lanie non fosse stata lì, a
un paio di centimetri di distanza da lei, probabilmente avrebbe
scaraventato contro il muro la lampada sul comodino, colpevole di
essere l'oggetto più prossimo alle sue mani, che invece
erano
rimaste ancorate al lenzuolo, tremanti e imperlate da una patina di
freddo sudore, e al sicuro finalmente dall'ingombrante presenza di
quei fasci di luce incriminata.
A ripensarci adesso, Kate riusciva
ancora a sentire i residui di angoscia albergare tra le pieghe della
propria anima, e non poté trattenersi dal lanciare una
rapida
occhiata alle proprie mani, le cui dita affusolate giacevano
placidamente intrecciate tra loro, vestite di un rassicurante buio
pesto. Le tende erano state accortamente tirate a coprire l'intera
finestra, e la luna sembrava troppo stanca per tentare di violare
quella barriera, limitandosi a qualche bagliore annoiato contro il
davanzale.
Quella notte sarebbe riuscita a dormire -questo fu
l'ultimo pensiero di Kate, prima di crollare esausta in un sonno
senza sogni, giunto così improvviso da non
permetterle nemmeno
di scivolare prima sotto le coperte.
La
pioggia ottobrina la colse impreparata.
Avvolta nel suo cappotto
blu Kate affrettò il passo, zigzagando tra marciapiede e
ballatoi
degli edifici, sperando potessero darle una seppur breve tregua dalle
gocce sempre più fitte.
Quando l'acqua aveva iniziato a
minacciare anche le sue calze, oltre che le scarpe, scorse finalmente
l'insegna de “Le Café Charbon”,
ed evitando l'ultima
pozzanghera, ne afferrò la maniglia e vi si
fiondò dentro.
Il
tepore del locale l'avvolse all'istante, mentre l'aroma ormai
familiare dei croissant già le solleticava le narici e il
palato.
Aveva scoperto quel posto dopo appena un mese da che si
era trasferita: una domenica mattina, la prima che aveva avuto
davvero libera da quando era a Washington, si era finalmente decisa a
dare un primo sguardo rilassato alla città che aveva ora il
privilegio di chiamare casa, e
per pura fatalità aveva finito per imbattersi nelle vetrine
colme di
paste di quel caffè.
Era stato amore a primo sguardo.
Non
seppe dire se ad averla convinta ad entrare fosse stato più
il
profumo che si sprigionava dall'interno ogni volta che un cliente ne
usciva , o l'atmosfera intima e accogliente che già da fuori
era in
grado di respirare; l'unica cosa certa era che, nel momento in cui
aveva varcato la porta del locale, aveva già deciso che il
tintinnio
di quel campanello, posto in cima all'infisso, avrebbe accompagnato
tutte le sue giornate da lì in avanti.
Nonostante fosse ancora
piuttosto presto, il locale era già colmo di gente.
Le ci vollero
ben due ricognizioni, ma alla fine Kate scorse un tavolino vuoto in
un angolino appartato del caffè, e un sorriso fece
timidamente
capolino tra le labbra: era uno dei suoi preferiti. Insieme a un paio
di altri tavoli, quello era il solo abbastanza vicino alla vetrata e
sufficientemente distante dal resto dei presenti da permetterle di
osservare il mondo circostante senza venirne osservata a sua
volta.
Accomodatasi sulla sedia, e liberatasi dell'ingombro del
cappotto umido, Kate allungò le braccia sulla superficie di
legno e
le incrociò davanti a sé, lasciando le proprie
dita libere di
giocare distrattamente col menù e con i bordi ruvidi del
tovagliolo.
Non dovette aspettare troppo prima che il viso
bonaccione di Alan, il proprietario, prendesse a trotterellare verso
di lei, solcato da un profondo sorriso che Kate trovò, come
al
solito, irrimediabilmente contagioso.
«Buongiorno
Katherine, come andiamo stamattina?»
«Alan, lo sai che non devi
farmi certe domande prima che abbia preso il mio
caffè»
Il
sorriso dell'uomo si trasformò in una grassa risata,
incrinata forse
dagli ultimi strascichi di una bronchite.
«Piuttosto, dov'è
Sabine? È strano non vederla dietro al bancone»
«È in cucina.
Stamattina ha bruciato un'intera infornata di biscotti, il che l'ha
resa particolarmente nervosa, e quando Sabine è nervosa si
sfoga
andando nel retro e dando ordini a chiunque, giusto per il piacere di
tormentarli»
Un'alzata di spalle rassegnata accompagnò
quelle sue ultime parole, ma a tradirlo furono gli occhi, traboccanti
di adorazione per quella donna che pure lo faceva esasperare a
volte.
Alan infatti amava enormemente Sabine, e Kate riusciva
facilmente a capirne il motivo.
Prese singolarmente erano due
delle persone migliori che lei avesse avuto la fortuna di incontrare,
uniti formavano un sodalizio perfetto. Erano la classica coppia fatta
per stare insieme che, dopo anni di duro lavoro per costruirsi una
famiglia e un futuro, si erano goduti i frutti di tanti sacrifici
viaggiando alla scoperta del mondo, e ora che gli anni iniziavano a
farsi più ingombranti per entrambi, avevano deciso di
realizzare il
sogno di una vita: aprire un loro locale.
Sabine era figlia di un
panettiere, e l'amore per certe preparazioni l'aveva sempre avuto nel
sangue. Alan invece era stato un giovane avventuroso che, prima di
mettere la testa a posto al college, aveva deciso di concedersi
l'ultima follia adolescenziale andando a vivere a Parigi per un anno,
mantenendosi facendo il garzone proprio per il padre di Sabine. Si
erano conosciuti così, e da allora erano stati inseparabili:
seguire
Alan in America, per quanto sofferta, era stata una decisione
semplice, ma la Francia era rimasta sempre nei loro cuori, e quando
il sogno di aprire un locale si era fatto realtà non c'erano
stati
dubbi su che direzione far prendere a quel progetto.
Più aveva
modo di frequentarli, più Kate se ne innamorava: avevano un
coraggio, un'energia e una fiducia l'uno nell'altra che lei non era
certa sarebbe mai riuscita a provare. Quando li osservava poi, aveva
la curiosa e confortante sensazione di stare guardando i propri
genitori: se le cose fossero andate diversamente, e sua madre fosse
stata ancora viva -si era detta-, probabilmente lei e suo padre nella
vecchiaia le sarebbero apparsi esattamente così.
Alan e Sabine
erano stati i primi a farla sentire davvero a casa una volta arrivata
a Washington.
Conoscerli le aveva dato una ragione in più per
legarsi a quel posto.
Cinque
minuti dopo, Kate stava già assaporando una squisita brioche
alla
crema.
Trascorse il resto del tempo a osservare fuori dalla
vetrata, sorseggiando di tanto in tanto il proprio caffè,
persa nel
groviglio confuso dei propri pensieri. Uomini e donne sepolti sotto
strati di vestiti le passavano davanti sollevando spruzzi d'acqua
che, puntualmente, finivano per posarsi su qualcun altro, la cui
espressione corrucciata rendeva perfettamente l'idea di quanto poco
gradita la cosa fosse loro.
Apparentemente nessuno in quella città
amava la pioggia, fatta eccezione per i bambini che avevano
inaugurato il salto della pozzanghera come nuovo sport
nazionale.
Lei era come uno di quei bambini.
Non perché
avesse voglia di abbandonare il contegno imposto dalla propria
età
per andare a infangarsi senza troppi pensieri per strada -non solo
almeno-, semplicemente amava la pioggia.
L'odore di erba bagnata,
il freddo pungente che preannuncia le prime gocce... erano tutte cose
che avevano il potere di rasserenarla.
Inoltre, in quel momento,
quella vista unita al profumo di croissant, che l'avvolgeva in una
vellutata spirale di dolcezza, le ricordavano intensissimamente il
viaggio in Francia di tanti anni addietro, e una dolce nostalgia
aveva preso possesso del suo corpo.
«Sembra che l'inverno sia
arrivato in anticipo quest'anno»
Alan, giunto all'improvviso a
pulire i resti della colazione della donna, ne interruppe il corso
dei pensieri.
«Già, non che mi dispiaccia. Anche se sembra che
l'inverno abbia aspettato che io finissi di mangiare, e dovessi
uscire fuori, per dare il via al diluvio. E stamattina ho fatto il
grosso errore di non controllare il tempo prima di scendere, quindi
niente ombrello»
Kate rivolse un ultimo sghembo sorriso al suo
interlocutore – un mix di mestizia e ironica esasperazione-,
prima
di tornare a studiare le gocce di pioggia infrangersi sulla
vetrata.
Per quanto amasse quel tempo dovette ammettere che
raggiungere il posto di lavoro sotto un acquazzone del genere non si
prospettava come una bella avventura. Senza la protezione di un
ombrello, e senza la sua macchina -ancora in officina per la
revisione-, giungere asciutta alla meta appariva come un'impresa
impossibile.
Come se avesse letto nei suoi pensieri, Alan tornò
pochi istanti dopo con il conto e un ombrello color porpora tra le
mani. Kate gli lanciò uno sguardo esterrefatto,
già pronta a
rifiutare, ma Alan fu più svelto a parlare.
«Come ho già detto,
Sabine è parecchio nervosa oggi, e mi ha incaricato di dirti
che se
non lo accetti con le buone sarà costretta a venire lei e
fartelo
accettare con le cattive. Personalmente non te lo consiglio»
il
volto di Alan si illuminò di un bonario sorriso mentre le
porgeva
l'oggetto «Potresti anche tenerlo, ma poichè sono
certo che non lo
farai, riportalo tranquillamente domani. Ho il sospetto che ti
troverò di nuovo qui»
Detto questo si allontanò, l'andatura
traballante a causa del peso non indifferente.
Alternando lo
sguardo tra lui e l'ombrello, adesso stretto tra le proprie mani,
Kate non riuscì a trattenere un sorriso.
Dopo
un paio di minuti da che aveva lasciato “Le
Café Charbon”,
Washington sembrava aver concesso ai suoi abitanti una breve
tregua dalla pioggia, che era notevolmente diminuita. Kate comunque
ringraziò di avere un ombrello sopra la testa
perché senza, anche
in assenza del diluvio di alcuni minuti prima, non se la sarebbe
cavata di certo altrettanto bene.
Quella mattina, essendo priva
dell'auto, era scesa un po' più presto del solito da casa,
per cui
aveva potuto fare le cose con maggiore calma prima che il momento di
timbrare il cartellino arrivasse, e adesso poteva concedersi una
passeggiata piuttosto che una forsennata corsa verso l'ufficio.
Col
senno di poi si sarebbe pentita amaramente di quella scelta.
Aveva
appena superato la libreria lungo Grosberry Street che qualcosa in
quella vetrina catturò la sua attenzione. Aveva in
realtà dato un
breve sguardo distratto al suo contenuto, ma il proprio inconscio era
stato abbastanza rapido da registrare qualcosa di anomalo in quello
scenario. Titubante rallentò il passo e fece dietro front,
temendo
già di conoscere la risposta a cosa avrebbe trovato una
volta faccia
a faccia con la vetrina.
E infatti eccolo lì, in piedi nel suo
solito abito scuro, con un libro in mano e la solita espressione di
tronfio orgoglio scolpita in viso. Erano tutti così i suoi
cartelloni pubblicitari, tanto che a volte si era chiesta se non ve
ne fosse in realtà soltanto uno cui puntualmente cambiavano
soltanto
copertina al libro.
Era così impegnata ad essere sorpresa che non
sentì la sgradevole fitta che, ostinata, stava premendo per
trafiggerle lo stomaco. Inoltre, si sentiva infastidita: innanzitutto
da quel sorriso, che lui aveva smesso di rivolgerle da tanto tempo -e
a buon diritto- ma che ora stava generosamente concedendo a chiunque
passasse da lì, e poi perché quella era la sua
città adesso, e per
quanto potesse essere lei quella in torto, lui non aveva il diritto
di disturbarla nella sua città.
E fu allora che la notò, la
scritta alla base del cartonato: Richard Castle vi
aspetta il
22 novembre in occasione dell'uscita del suo nuovo libro. Ai primi 25
fan che si presenteranno una copia autografata in omaggio, non
mancate!
Dovette rileggere parecchie volte prima che il
suo cervello fosse in grado di processare la cosa, e le ci vollero
parecchi profondi respiri per calmarsi non appena ci fu riuscito. In
fondo, si disse, non era nulla di così catastrofico.
Washington
era una grande città e lei era sempre oberata di lavoro: le
probabilità di incontrarlo erano minime, e anche in quel
caso
sarebbe stata in grado di gestire la situazione. Non sarebbe certo
stato il loro primo incontro da quando la loro relazione era finita e
stavolta le circostanze erano persino più favorevoli, non
essendoci
di mezzo alcun evento che richiedesse la loro contemporanea
presenza e che li costringesse a passare insieme più del
tempo
necessario a un breve saluto.
Mentre rifletteva su questo, e il
cervello iniziava a metabolizzare lo shock iniziale, le gambe avevano
preso però un'altra direzione, così come ogni
muscolo del suo
corpo, e nel giro di pochi istanti si era ritrovata a chiedere
al gestore del bar adiacente alla libreria dove fosse il bagno.
Senza
sapere come o perché fosse arrivata lì, due
minuti dopo era già
chiusa in uno dei loculi, seduta a gambe incrociate sulla tavoletta,
col telefono in una mano.
Uno squillo, due squilli, tre
squilli...
«Pronto»
«Lanie, ciao»
«Kate, non
pensavo di sentirti così presto, è successo
qualcosa?»
«Lui
è qui Lanie. Cioè non ancora, ma lo
sarà tra due settimane. Castle
intendo»
«Oh...»
«Oh? Che vuol dire “oh”? Tu lo
sapevi?»
«Beh, sì... senti tesoro mi dispiace,
pensavo di
dirtelo mentre ero lì da te, ma non ho mai trovato il modo o
il
momento adatto per tirare fuori l'argomento...»
Kate si agitò
scomodamente sull'improvvisato sedile di plastica sul quale era
appollaiata: il telefono incastrato tra la spalla e l'orecchio,
mentre con le mani tentava di aiutare le gambe a sistemarsi in una
posizione, se non confortevole, quantomeno stabile.
«Ma per te
non è un problema, no? Tu stessa mi hai detto che ormai non
ti fa
più effetto la cosa. E poi non è neanche detto
che lo incontrerai,
ti basterà evitare la zona dell' Hartfort Hotel,
è lì che
starà»
Prima che potesse rispondere, il rumore dello
sciacquone e di una porta sbattuta distrassero entrambe dalla
domanda, e forse evitarono a Kate una risposta scomoda.
«Tesoro...
ma dove sei?»
«In un bagno. Di un bar. Non so il nome, non
c'ero mai entrata prima»
«Ok... e perchè mi chiami da un
bagno di un bar che non conosci?»
«Beh avevo bisogno di
parlarti, e non potevo aspettare di arrivare in ufficio. Inoltre non
potevo restare per strada. Mi stava fissando.»
«Chi ti stava
fissando?»
«Lui, Castle! Dovevi vederlo, con quell'aria
boriosa e soddisfatta. Se non ci fosse stata una vetrina a dividerci
probabilmente gli avrei sferrato un pugno in faccia»
«Immagino
tu stia parlando del cartonato pubblicitario...»
«Beh sì,
certo... non sferrerei mai un pugno a Castle, quello vero.
Credo.»
Una risata cristallina risuonò attraverso l'apparecchio
telefonico e Kate si sentì leggermente rinfrancata. E anche
un po'
stupida. In effetti, ora che ci pensava, l'essersi rinchiusa
in
un bagno pubblico per parlare al telefono con la propria migliore
amica del proprio ex fidanzato aveva del ridicolo. Era dai tempi del
liceo che non si dava a certi comportamenti, e forse neanche allora
avrebbe reagito in quel modo.
«Ad ogni modo Kate ripeto, se
anche doveste incontrarvi dov'è il problema? Non sarebbe
certo la
prima volta, e forse sarebbe anche un bene. È
da mesi
che non avete contatti, magari il fatto di rivedervi prima del
matrimonio, in una situazione meno... carica, potrebbe essere di
aiuto»
«No, hai ragione Lanie. Non c'è nessun problema
infatti. È stato solo strano, credo: quando torno a New York
sono
consapevole che lo vedrò, e sono preparata. Non mi aspettavo
di
vederlo qui, ecco tutto»
«Ma certo, lo capisco»
«Adesso
ti saluto, sarebbe anche ora che uscissi dal bagno e andassi a
lavorare. Ti chiamo più tardi»
«D'accordo tesoro, buon
lavoro»
Kate riattaccò subito, ma le ci vollero cinque
minuti buoni per decidersi ad alzarsi e ad uscire da quel bagno. Col
telefono ancora tra le mani non riusciva a non ripetersi nella mente
le parole di Lanie: aveva ragione lei, se anche si fossero incontrati
dove sarebbe stato il problema?
Da nessuna parte. Il problema
non esiste.
Era come aveva detto lei, non si era rintanata in
bagno per paura o per dolore, soltanto per la sorpresa di trovarselo
davanti all'improvviso, anche se fatto di cartone -e a testimoniarlo
c'era il fatto che nel vederlo non era stata male, non come lo
sarebbe stata tempo addietro.
Forte di queste riflessioni si
rimise in piedi, uscendo finalmente dal loculo dentro cui si era
rinchiusa.
Prima di lasciare la stanza si diede un'ultima occhiata
allo specchio e si lavò le mani, giusto per dare
l'impressione di
aver usato il bagno per scopi più maturi di quelli reali.
Lo
specchio le rimandò un'immagine contorta: l'aspetto sembrava
normale
ma i suoi occhi parevano deriderla.
E Kate tornò a chiedersi se
invece un problema non ci fosse. E se questo suo neo-riacquistato
senso di impotenza e ansia legati alla sua presenza -o alla mera
possibilità di essa- non fosse per caso dovuto alle fantasie
della
notte recentemente trascorsa.
L'ombra dell'anello sembrava essere
tornata, indelebile sul dito come il segno di un'abbronzatura lunare.