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Autore: Gaia Bessie    26/09/2014    2 recensioni
Ed Annie arrivava alla sera che era inzuppata del suo pallore madreperlaceo, con il viso scheggiato, sfregiato, da un incontro troppo ravvicinato con degli scogli. Nei suoi momenti di lucidità, restava attaccata alla ragione come una bambina alle gonne della madre. Finché non calava la notte. Perché, allora, il suo senno se lo prendeva il buio.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Annie Cresta, Finnick Odair, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il fatto che io abbia postato due fanfiction in nemmeno tre giorni, è un fatto abbastanza grave. Perché, beh, sto accuratamente evitando i compiti di fisica (e io avrei la maturità. Massì, crediamoci) e perché questo Fandom è stato il mio grande blocco dello scrittore. Dopo l'inserimento fra le scelte di “Non cogli la neve”, mi sono congelata nel terrore di non riuscire a scrivere niente di altrettanto degno. Ma, poiché sono profondamente ribelle, sono tornata con una (mezza schifezza) nuova fanfiction. Mindless, stupido, sciocco. Scritta sulle note di “Smooth Criminal”, non dico l'autore perché sarebbe un po' ovvio, suvvia. E, beh, hope you like it. Essì mi ci sono bloccata, sul rapporto Annie/Figlio, compiangetemi.


C'è un confine lievissimo che separa i sogni dalla realtà. Anche se spesso, i deliri, nella loro realistica inclemenza sono soltanto qualcosa di meno reale dell'esistenza stessa ma anche più nitidi dei normali sogni. Annie non riusciva mai a dormire, diceva, perché continuava a vedere ombre che scavalcavano il balcone, per venirla a prendere. Suo figlio stava perdendo il senno per rincorrere quello della madre, che il buio aveva divorato anni prima. Non c'era mai nessuno, sotto il letto o dietro l'armadio e negli altri mille posti in cui Annie continuava a vedere le ombre. Per quanto entrambi cercassero, e quel mostro non era un mostro ma un fantasma dilaniato dagli Ibridi, non c'era nulla. Ed Annie arrivava alla sera che era inzuppata del suo pallore madreperlaceo, con il viso scheggiato, sfregiato, da un incontro troppo ravvicinato con degli scogli. Nei suoi momenti di lucidità, restava attaccata alla ragione come una bambina alle gonne della madre. Finché non calava la notte. Perché, allora, il suo senno se lo prendeva il buio.

 

***

 

Mindless

 

Annie, are you okay?

 

Fin non chiamava mai sua madre per nome. Era una delle cose che nessuno avrebbe mai potuto comprendere, poiché appariva sempre priva principio e di conclusione. Probabilmente era una conseguenza un po' ovvia dell'essere cresciuto con Johanna Mason, la quale evidentemente provava un certo gusto nel soffrire continuamente. Perché Fin potrebbe parlare per ore di tutti i giorni che Johanna passava a rabbrividire sulla sabbia, poiché il mare non le era mai piaciuto. Perché lo temeva. E magari, c'era anche da pensare che la vera pazza non fosse Annie. E magari nemmeno Johanna. Perché, parlando della sua infanzia, Fin potrebbe dire di non ricordare chi delle due fosse la madre. Con una certa probabilità, non lo erano entrambe. Se Johanna era diventata un mostro lei stessa, un collage di pezzi frantumati che si adattavano malamente fra di loro, in scricchiolii che avevano ben poco di musicale; Annie era la bambina che correva dietro al mostro sotto il letto. Se Fin aveva paura del buio, lei lo temeva in misura maggiore. Ed era il bambino a consolare lei e non viceversa. Annie, il buio, lo temeva come poche cose: finiva, con ogni sera che avanzava senza riserve, a rannicchiarsi al centro esatto del letto. Le palpebre sfumate di lillà, la bocca sfregiata dai segni dei suoi stessi denti, i capelli che si spargevano a ondate sul cuscino. Diventava irriconoscibile. Diventava la ragazzina che era stata, quella dal bagliore così chiaro e incontaminato che aveva preso anche Finnick Odair, che sembrava esser stato immerso nel catrame dalla fine dei suoi Giochi. Era una visione bellissima, Annie bagnata di argento e madreperla mentre tremava in ogni nervo del corpo. E Fin, nello slargarsi degli anni che si succedevano, uno dietro l'altro, era sempre finito per rannicchiarsi contro gli spigoli della madre. Contro quelle ossa che, nel succedersi degli anni, cominciavano a premere contro la pelle, che diventava una semplice pellicola colorata da avvolgere attorno all'ossatura fragile di Annie. Qualcosa che le desse una forma e un colore perché, altrimenti, Annie si sarebbe sciolta come sale nell'acqua. Ma, alla fine, era stata Annie a incastrarsi nel corpo del figlio, che a tentoni avrebbe potuto ricordare quello di Finnick. Ma Fin non aveva ereditato nulla del padre, se non quel sorriso che costringeva Annie a smettere di respirare.

Se solo una volta l'avesse chiamata mamma, forse, Annie avrebbe recuperato un poco della sua concezione del tempo. Ma non era mai successo. Così Annie si era svegliata, per anni, singhiozzando parole che Fin non comprendeva. E, nel buio, si doveva alzare per raccogliere quel fagotto piangente che era sua madre. Ogni notte. Ogni. Singola. Notte.

«Annie, stai bene?»

 

Will you tell us, that you're okay?

 

Ma Annie non stava mai bene. Continuava a oscillare fra sogni e realtà, in un dualismo che non lasciava tregua a nessuno. E, dando adito alle accuse implicite di Johanna, ha rovinato suo figlio. L'ha messo a conoscenza di un mondo di incubi da evitare. Annie stava come una proiezione di un fantasma che vedeva solo lei. E la notte, con la camicia troppo larga inzuppata di alghe e acqua di mare, vagava per il Distretto come un'anima in pena. A mezzanotte, come uno spettro, con il figlio e Johanna Mason che le correvano dietro, urlando parole che lei non udiva mai. Si fermava solo all'alba. E, mentre Fin finiva sempre per essere sporco e incrostato di salsedine, lei era illibata come la neve ancora al sicuro nelle nuvole. Qualche volta, però, piangeva. E, a quel punto, era chiaro a tutti che non avrebbe mai detto di stare bene.

 

He came into your appartment

Left blood stains on the carpet

 

Su una vecchia stuoia, ai piedi del letto, c'era una macchia di sangue. Di quando Annie si era sfracellata il volto, diventando una principessa sfregiata dalle onde, sugli scogli e Fin l'aveva ritrovata a piangere tutte le sue lacrime su quel tappetino. Chinandosi per pulirlo, aveva scoperto che era perché una volta, suo padre, vi aveva rovesciato un flacone del suo profumo, quello di Capitol City. Fin, quella stuoia, non l'aveva più toccata. E spesso vi aveva trovato sua madre rannicchiata sopra, la cicatrice a contatto con quel tessuto pungente. Diceva sempre le stesse cose, disorientandolo.

«Lui è qui, qui... è entrato dalla finestra, io l'ho visto. Ha macchiato di sangue il pavimento» rideva come una pazza, graffiandosi il viso con le sue stesse mani. «Hanno avuto la sua testa, dovrebbero prendere anche la mia!».

Fin viveva nella certezza che, un giorno, l'avrebbe morta lì.

 

***

 

E così è stato. Fin ha trovato sua madre morta, con un sorriso dolcissimo sulle labbra, con la faccia posata su quella stuoia sporca di sangue. Non ha pianto. “Annie è morta”, l'ha detto così. Non l'ha chiamata mamma o, almeno, l'ha fatto solo quando ha capito che nessuno l'avrebbe più ascoltato. La dimenticherà in fretta, credo, perché altrimenti il Distretto si ridurrebbe a una dinastia di fantasmi che, scavalcando le finestre, uccidono senza troppi pensieri.

«Annie, è tutto okay?». Il sussurro di Fin è qualcosa di inudibile. Non mi chiama mai per nome, così come non chiamava Annie “mamma”. Sorrido, mentre la bara viene calata nella sabbia – lei avrebbe voluto così.

Anche se, nella mia egoistica concezione dell'amore, devo dire che non m'importa poi molto. È okay: la mano di Fin stringe la mia1.

 


1Nemmeno a dirlo, Annie Cresta e la ragazza di Fin sono persone diverse. Però mi piaceva la cosa dello stesso nome.

   
 
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