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Autore: Alaire94    02/10/2014    1 recensioni
Molto bella, quanto crudele diceva la gente di Marfisa D'este, nobildonna ferrarese del XVI secolo.
La leggenda narra che il suo spirito si aggiri ancora tra le vie di Ferrara, alla guida di un cocchio trainato da cavalli bianchi e seguito dalla lunga schiera degli uomini a cui strappò il cuore dal petto. Qualcuno dice anche di averla vista girovagare tra le mura della palazzina a lei dedicata, la stessa dove Sabrina, una giovane donna appena laureata e con la repulsione verso gli uomini, ha appena trovato lavoro.
Terribili visioni, inspiegabili istinti omicidi perseguitano la ragazza, almeno finché non arriva un bizzarro e misterioso uomo che sostiene di poterla aiutare.
Genere: Mistero, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3



Quando entrai in casa Greta era sdraiata sul divano del salotto a guardare la televisione con l'aria di un vegetale. Girò a malapena la testa e assunse un'aria perplessa. «Che cosa hai fatto? Sei pallida come uno straccio».

Per qualche secondo ponderai l'idea di raccontarle cos'era successo nella Sala delle Imprese, ma poi pensai che mi avrebbe data della pazza e mi avrebbe consigliato un buon psichiatra. Così decisi di raccontarle solo la prima parte degli eventi di quella giornata, ovvero quella in cui avevo incontrato Fede.

«Ah e così l'hai insultato per bene, eh?», commentò alla fine del racconto con un sorrisetto compiaciuto. «Non pensavo che ci saresti riuscita dopo la tragedia greca che hai fatto quando vi siete lasciati».

«E' passato del tempo», osservai mentre tiravo fuori dal mobiletto sopra il fornello della cucina qualche tegame per preparare la cena.

«Sì, ma ti piace ancora, lo vedo dall'espressione che fai quando parli di lui», affermò, affiancandomi per aiutarmi in cucina.

Le diedi un paio di carote da grattugiare. «Che espressione faccio?».

Estrasse la grattugia dal cassetto sotto il ripiano della cucina e cominciò a dedicarsi alle carote. «Il tuo sguardo diventa cupo, come se avessi una nuvola nera sopra la testa».

«Beh, ad ogni modo sicuramente ora non ce l'avrò più: mi ha proprio rotto», commentai mentre affettavo con rabbia un pomodoro.

Greta mi assestò una gomitata e mi lanciò uno sguardo malizioso. «Di' la verità: sotto sotto ti sarebbe piaciuto andare ancora a letto con Fede».

Io scoppiai a ridere. «Non hai idea di cosa stai dicendo: si vantava tanto, ma quella carota che hai in mano è più grande di quello che ha in mezzo alle gambe!».

Greta scoppiò a ridere e per cinque minuti buoni non facemmo altro che ridere a crepapelle, inventandoci battute divertenti e decisamente vietate ai minori. Durante la cena mi raccontò della sua giornata, di come nell'esame fosse riuscita ad ottenere un discreto risultato grazie a una compagna studiosa e disponibile a darle una mano e alle domande riguardo gli unici argomenti che aveva studiato.

«Sei la persona più sfacciatamente fortunata che io conosca!», commentai, scuotendo la testa.

Lei si limitò a rivolgermi un sorriso a trentadue denti. «La fortuna mi sorride sempre».

«Ricorda che non lo farà per sempre», la avvertii, ma Greta si limitò a scrollare le spalle.

Mi faceva uno strano effetto essere il suo grillo parlante, proprio io che non ero per niente adatta a dare consigli a nessuno, ma quando si trattava di Greta... lei era un caso a parte. Era uno strano misto di maturità e immaturità; era un'adulta che giocava a fare la bambina, ma quello che non sapeva era che non avrebbe potuto giocare per sempre e che prima o poi avrebbe dovuto mettere tutti e due i piedi nel mondo degli adulti.

Prima di andare a dormire ci sdraiammo insieme sul divano a guardare una serie televisiva che io non riuscii a vedere fino alla fine.

 

Era una bella giornata di sole, di quelle che ti mettono di buon umore soltanto con uno sguardo fuori dalla finestra. Gli uccellini cinguettavano, le farfalle si spostavano di fiore in fiore, il cielo era di un azzurro intenso, tempestato solo da qualche nuvola bianca. E poi c'erano gli alberi fitti di un boschetto che gettavano sull'erba ombre rassicuranti quanto un abbraccio materno.

Proprio lì, dietro un cespuglio, c'erano due giovani. Lei aveva i capelli castani, raccolti in quella che doveva essere stata una complicata acconciatura, la pelle bianca e una bocca dalle labbra sottili e rosse che risaltavano sul suo viso . Il suo vestito era verde, lungo, pomposo e creava una sorta di nuvola attorno a lei, si confondeva con l'erba.

Lui aveva i capelli ambrati che gli ricadevano in morbide onde sulle tempie, occhi scuri e profondi, spalle larghe e braccia robuste. A differenza della ragazza, era vestito in modo più semplice: una camicia bianca e larga, dei pantaloni rattoppati, eppure nessuno dei due sembrava farci caso. Anzi, se ne stavano vicini, mano nella mano, e si guardavano con quello sguardo inconfondibile, quello del vero amore.

«Vi amo», le sussurrò lui con un tono suadente, elegante.

Lei gli prese il viso fra le mani, delicatamente, e appoggiò le sue labbra rosse sulle sue, lo baciò con impeto. «Anche io ti amo, non potrò mai amare nessun altro come amo te», rispose lei, guardandolo dritto negli occhi. C'era qualcosa nel suo sguardo che faceva pensare che non l'avesse mai detto prima, che fosse la cosa più vera e sentita che avesse mai detto.

Lui, però, si incupì. «Dovrete amare qualcun altro».

«Perché dici questo?», chiese lei allontanandosi leggermente da lui.

«Perché non potrete mai sposarmi, mia signora», affermò lui, senza mostrare emozioni, come fosse un semplice dato di fatto su cui non aveva nessun potere.

Lei scosse la testa. «Ti sposerò».

La mascella del ragazzo si contrasse leggermente; stava soffrendo. «Non fate promesse che non potete mantenere».

Lei abbassò gli occhi; probabilmente era costretta ad ammettere a se stessa che lui aveva ragione e che non c'era niente che loro potessero fare per cambiare la realtà.

Lui le mise le dita sotto il mento e la spinse ad alzare la testa. «Te la faccio io una promessa, vera questa volta». Le prese la mano e se la mise sul petto. «Io vi amo, e vi prometto che il mio cuore sarà vostro per sempre come lo è ora».

Sul viso della ragazza apparve un leggero sorriso, ma non proferì parola: non servivano in quel momento. Si chinò in avanti e premette ancora le labbra su quelle di lui, ma questa volta fu il ragazzo a stringerla a sé, ad approfondire quel bacio, a farlo diventare rovente. Era un bacio colmo di un desiderio che chiedeva solo di essere soddisfatto.

Le mani della ragazza si insinuarono sotto la camicia leggera di lui, accarezzandogli il petto e la schiena come se ormai ne conoscessero ogni centimetro. Lui non trovò alcuna resistenza nel sbottonarle il vestito e poi allentarle il corsetto, nell'accarezzarle i seni lentamente e con mano esperta, lasciandole sfuggire un gemito che si disperse nel bosco. E nemmeno ne trovò in seguito, quando le tolse anche la sottoveste e...

 

Aprii gli occhi all'improvviso e mi accorsi nel giro di pochi istanti che la sveglia suonava. Mi sentivo accaldata, come ci fossi stata io al posto della ragazza e quel risveglio era stato fin troppo traumatico, come se avessi attraversato epoche intere.

Mi guardai attorno, alla ricerca del cellulare che stava squillando insistentemente.

La luce del mattino entrava dalla finestra della camera, proiettando una scia di luce proprio sui miei occhi e rendendomi difficile trovare il telefono sul comodino.

Quando finalmente riuscii a spegnere la sveglia, mi alzai per dirigermi in cucina a bere un caffè: la mattina per me era come una linfa vitale e senza di esso non riuscivo proprio a cominciare la giornata. Era ciò che riusciva a ricaricarmi le batterie. Tuttavia, quella mattina lo era più del solito: mi sentivo ancora in stato confusionale perché non capivo come mai avessi fatto certi sogni. Forse dovevo solo smettere di guardare fiction alla televisione insieme a Greta: sono piene di scene di sesso che quasi dovrebbero essere vietate ai minori. Eppure quel sogno mi era sembrato così reale...

Riuscii a smettere di pensarci solamente quando Greta sbucò fuori dalla sua camera. «Buongiorno Sabry, tutto bene?», mi domandò come se sapesse cosa mi turbava.

«Si, direi di si, come mai me lo chiedi?».

«Sembrava che ci fosse qualcuno in camera con te questa notte: sussurri e strani cigolii del letto», insinuò , ammiccando con fare malizioso.

«Non ti fare strane idee: ho solo avuto un sonno piuttosto irrequieto. Probabilmente avrò parlato e avrò fatto la lotta con le coperte mentre dormivo», mi giustificai, cercando di non addentrarmi nei particolari: in fondo quello che avevo sognato non era tanto lontano da quello che Greta pensava che avessi fatto.

«Va bene, se lo dici tu», disse rivolgendomi un altro occhiolino malizioso, «E comunque un po' di divertimento non ti farebbe male sai?».

Guardai Greta fulminandola con lo sguardo, lasciandola sola in cucina mentre mi dirigevo verso la camera per prepararmi alla giornata al museo. A dire il vero Greta non aveva tutti i torti: era da non so quanto tempo che non facevo sesso.

Mentre mi davo una rinfrescata veloce sotto la doccia cercai di richiamare alla mente il mio ultimo amplesso e con tristezza mi ricordai delle scarse prestazioni di Fede; forse al mio cervello avrei dovuto suggerire di aggiungere soddisfacente nell'effettuare la ricerca del mio ultimo rapporto. Con non poca amarezza mi accorsi che quella nuova ricerca non produceva risultati: probabilmente quei dati erano talmente vecchi che erano già stati archiviati chissà dove.

Con un sospiro mi sistemai per bene i capelli raccogliendoli dietro la nuca in una crocchia e mi avviai verso l'uscita.

Prima di aprire la porta, Greta con lo sguardo di qualcuno che sta tramando qualcosa disse: «buona giornata Sabry, e tieniti libera uno di questi giorni».

 

Ecco, la fine della giornata lavorativa stava arrivando senza quasi che me ne accorgessi. Fortunatamente quel giorno c'era stato un buon afflusso di visitatori; erano in gran parte gruppi di turisti stranieri, tedeschi o russi, più una classe di studenti delle scuole medie che mi avevano rotto i timpani a forza di urlare. Mi chiesi come facesse Marfisa D'Este a non rivoltarsi nella tomba udendo tutte quelle grida nella sua dimora. Certo, durante la storia quella palazzina doveva aver sentito qualsiasi rumore, ma immaginavo soprattutto musica celestiale e sagge parole, non schiamazzi caotici.

Tuttavia, questi ragazzini mi diedero piuttosto da fare perché gli insegnanti avevano richiesto l'audio guida per incuriosirli di più, ma loro avevano cominciato a usare gli apparecchi come giocattoli divertenti e alcuni erano stati danneggiati.

Perciò, per quanto la giornata fosse trascorsa in fretta, mi ritrovai alla fine con un malessere fisico che mi permeava le ossa e mentre davo un'occhiata a delle carte, mi si incrociavano gli occhi.

Poi, d'improvviso, il telefono cominciò a suonare, facendomi sobbalzare. In velocità mi infilai il cappotto, uscii in giardino e risposi.

«Ciao pulcina», sentii dire dalla voce squillante di mia madre dall'altro capo del telefono.

Aveva come al solito un tono così allegro che mi faceva sempre sentire di buon umore. «Ciao, mamma, tutto bene?».

«Sì, certo, alla perfezione! Sto cucinando una bella torta per te», dichiarò, mentre in sottofondo udivo il rumore di tegami che sbattevano.

«Per me?!». Dovevo ammettere che ero piuttosto sorpresa: tempo prima mamma era restia a preparare torte perché diceva che i dolci fanno male.

«Sì, per te! Mi manchi tanto, pulcina e ti volevo chiedere di venire a cena da noi stasera».

Ci pensai qualche secondo: in effetti era da tempo che non tornavo a casa, mamma mancava anche a me ed era da una vita che non mangiavo una cena come si deve.

«Va bene! E papà?», domandai; ero piuttosto preoccupata di rivederlo dopo la litigata al telefono.

«Sì, c'è anche lui». Sospirò attraverso il telefono. «Lo sai com'è fatto: non prendertela per la storia dell'altro giorno. Vieni qui e vedrai che sistemate tutto».

Mamma era sempre fin troppo ottimista, ma d'altronde mi faceva solo bene un po' del suo sano ottimismo.

Dopo esserci messe d'accordo sull'orario, chiusi la telefonata con un sospiro, pensando che non avevo nessuna voglia di ritornare al mio ultimo quarto d'ora di lavoro. Proprio quando mi ero convinta a sottostare al mio dovere, notai una musica. Era soave, leggera, sembrava accarezzarti l'anima e allo stesso tempo strappartela dal petto. Per qualche secondo pensai potesse essere il video dello Studiolo, ma poi mi resi conto che non poteva essere perché era totalmente diverso. La colonna sonora del video era grave, inquietante; ricordava i rintocchi di una campana che suonava per un funerale. Quella invece era celestiale; la voce che cantava era celestiale.

Senza che me ne accorgessi già stavo camminando in direzione della melodia, attraverso il giardino, verso la Loggia degli Aranci, un grande ambiente porticato la cui volta era decorata a tralci di vite. Con la notte ormai calata, le luci del giardino tracciavano inquietanti chiaroscuro sulle pareti bianche.

Con il cuore che mi batteva nel petto, camminai sul pavimento della Loggia. I miei passi ticchettavano e sembravano rimbombare in quell'enorme spazio in cui avevo la sensazione di perdermi.

Senza soffermarmi troppo a lungo continuai verso l'origine della musica: la Sala della Grotta, a cui dava accesso la Loggia degli Aranci. Era usata per spettacoli e conferenze, quindi probabilmente vi era una qualche prova in atto.

Eppure, per quanto cercassi di convincermi per fermare il cuore che mi batteva nel petto, avevo la netta impressione che ci fosse qualcosa di immensamente sbagliato. Feci un bel respiro e spinsi la porta della Sala della Grotta.

Il canto risuonava per tutta la stanza, potente e coinvolgente, mentre i brividi cominciavano a corrermi lungo la schiena, incontrollabili. Ora il cuore mi stava letteralmente scoppiando nel petto e niente avrebbe potuto arrestarlo. Nemmeno quel niente che accadeva nella sala: tutto era immobile, statico. Le sedie tutte in fila le une vicine alle altre, il telo del proiettore in fondo alla stanza era bianco. Soltanto un fascio di luce penetrava dalla finestra per colpire quell'unico clavicembalo appoggiato al muro sulla destra che stava suonando da solo: i tasti si alzavano e abbassavano secondo la melodia.

Volevo scappare: non sapevo com'era possibile e in quel momento non volevo nemmeno saperlo sebbene ci fosse sicuramente una motivazione logica. Volevo solo fuggire, ma le mie gambe avevano piantato radici e farle muovere mi provocò quasi un dolore fisico. Quando ci riuscii, chiusi la porta dietro di me e corsi attraverso il prato, incurante dell'orlo dei pantaloni che si bagnava per l'erba umida.

Rientrai nella biglietteria, dirigendomi verso la postazione di lavoro con il battito accelerato e il timore di risentire quei suoni.

Mi rasserenai vedendo Roberta che mi accoglieva con un sorriso. «Che faccia! Era quel ragazzo, vero?», esclamò con fare malizioso, riferendosi molto probabilmente a Fede. Stava cominciando ad innervosirmi il fatto che si impicciasse sempre nei fatti miei, ma se non altro era di buona compagnia.

«No no, era solo mia madre al telefono», risposi, sedendomi sulla sedia e riprendendo il controllo.

«Dalla tua espressione non deve essere stata una conversazione piacevole, ma, sai, fare il genitore non è mai semplice», sospirò, «e te lo dico per esperienza...», aggiunse poi con una nota di amarezza nella voce. Avrei voluto chiederle qual era questa sua esperienza, ma pensai che fosse meglio non impicciarsi.

«In realtà questa espressione è solo il risultato della stanchezza che mi gioca brutti scherzi», dissi, restando sul vago. In effetti, mi accorgevo che raccontare a qualcuno di queste mie allucinazioni avrebbe potuto farmi sembrare pazza. Tuttavia era vero: erano frutto della stanchezza. Forse avevo bisogno solo di un po' di vitamine per abituarmi ai nuovi ritmi.

«Capisco, beh... vai pure a casa a riposarti! Oggi tocca a me restare qui da sola!», mi ricordò Roberta.

Non ti invidio per niente , avrei voluto dirle, ma pensando alla sensazione che avevo avuto l'ultima volta che ero rimasta lì fino a tardi, un brivido mi corse lungo la schiena, sottraendomi la parola. Mi limitai invece a mettermi il cappotto.

«Ci saranno quelle belle scartoffie a farti compagnia», scherzai, indicando i fogli che aveva in mano.

«Una compagnia vivace, non c'è che dire!», replicò con una considerevole dose di sarcasmo.

Raccolsi la borsa e mi avviai verso la porta. «Buona continuazione!», la salutai, prima di essere avvolta dall'aria fredda della sera.

 

Eravamo tutti e tre a tavola. Mamma aveva apparecchiato la tavola con una tovaglia bianca ricamata e tovaglioli coordinati, aveva messo al centro anche una piccola piantina di decorazione. D'altronde lei era fatta così: le piacevano le cose fatte bene e soprattutto belle. Aveva il culto della bellezza; era sempre elegante senza essere volgare, ci teneva al trucco e all'acconciatura ma senza rinunciare alla naturalezza. Era innegabile: mamma, con i suoi capelli castani ondulati e lunghi fino alle spalle, gli occhi verdi, quelle rughe agli angoli degli occhi che gli davano un'aria di saggezza e conforto e le sue fini camicette bianche, era ancora una bella donna nonostante i suoi cinquant'anni.

Papà invece era tutto l'opposto: aveva lasciato che la calvizie avanzasse senza porvi rimedio, la barba era sempre trascurata da due o più giorni, l'abbigliamento trasandato e fuori moda. Tuttavia papà aveva altre qualità, come il suo spiccato senso dell'umorismo e la sua vasta cultura. Potevano sembrare due rette parallele senza punti in comune, ma forse era proprio questo che li aveva resi affiatati in tanti anni di matrimonio: le loro differenze li avevano spinti a creare dal nulla dei punti d'incontro.

E poi c'ero io che avevo preso il meglio da tutti e due; mamma lo diceva sempre che ero io il suo miglior capolavoro. Ed era vero: avevo i suoi stessi occhi verdi e i suoi stessi capelli ondulati, e avevo preso da papà l'intelligenza e la vivacità.

Purtroppo però quella sera in casa non c'era una bella atmosfera: papà era visibilmente nervoso, probabilmente per la conversazione di qualche giorno prima al telefono e mamma cercava di sopperire al silenzio di papà con discorsi futili e noiosi su come aveva preparato l'arrosto.

«Allora raccontami un po' del tuo nuovo lavoro», disse mamma quando finalmente si decise a cambiare discorso.

«L'inizio è stato piuttosto traumatico, ma adesso mi sto iniziando ad ambientare e... », ripensai a come avevo trascorso le mie ultime giornate lavorative, «tutto sommato mi sta piacendo».

Mamma assunse un'aria soddisfatta. «Sono contenta che finalmente stai diventando indipendente, quand'è che metterai su famiglia?».

Per un attimo restai allibita. «Non pensi sia un po' troppo presto?»

«Non fare come quei ragazzi che si sposano a quarant'anni...», per qualche secondo sembrò riflettere su qualcosa,«e quel ragazzo? Com'è che si chiamava? Federico? Che fine ha fatto?».

Solo sentire quel nome mi fece ribollire il sangue nelle vene facendomi ripensare all'incontro nel giardino.

«Mamma, lascia stare è una storia chiusa e non ho nessuna intenzione di riaprirla... la famiglia dovrà aspettare».

Proprio quando mamma stava per rispondere fu papà a intervenire dopo circa un'ora di silenzio. «E sarà meglio che la famiglia aspetti ancora un po', anzi dovresti ritornare a casa con noi, non mi sembra naturale una ragazza così giovane come te lontano dalla sua famiglia».

Buttai gli occhi al cielo: papà era certo tanto simpatico e spiritoso quando voleva, ma sicuramente non spiccava per le sue vedute moderne. Per lui una ragazza doveva lasciare la casa dell'infanzia solo dopo il matrimonio. «Papà mica vivo nel Far West... sono a cinque minuti di macchina e poi non siamo più nell'Ottocento: non c'è niente di male se vivo con una coinquilina e non a casa con voi», replicai piuttosto seccata.

«Ma se vivessi qui avresti meno problemi, tua madre ti darebbe una mano e saresti più tranquilla», insistette. «Papà, questa stessa identica discussione l'avremmo intrapresa almeno altre trenta volte e non ho intenzione di farla un'altra volta. Tanto io non cambio idea», affermai perentoria.

A quel punto intervenne mamma a salvare la situazione, ancora prima che papà potesse controbattere di nuovo.«Carlo, devi fartene una ragione: Sabrina è diventata grande e ha il diritto di vivere la sua vita. Su, prendete un po' di torta e smettetela di discutere...», disse e sapevamo tutti e tre che quando era mamma a parlare, non si poteva fare altro che darle ascolto.

Concludemmo la cena parlando del più e del meno; anche papà aveva riacquistato la parola e finalmente potemmo avere una conversazione serena senza tensioni, sebbene non fossi del tutto certa che papà avesse davvero ceduto, ma almeno, da quel momento in avanti, sarebbe stata solamente una questione tra lui e mamma. 

***
Angolo autrice: 
ecco a voi il capitolo 3! La storia sta andando avanti e si iniziano a vedere altri episodi, come dire... un po' strani! Grazie ancora a chi ha recensito e recensirà e anche a coloro che si sono limitati a leggere!

   
 
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