Entrò
in casa, deciso a
dirigersi verso il soggiorno. Aveva una certa idea di dove si
trovassero i suoi
genitori, ma in realtà non ne era proprio certo. Ma, del
resto, che altre
opzioni aveva? E non sentiva neanche di avere molte speranze di
riuscire a trovarli,
se non fossero stati dove credeva che fossero.
Soprattutto
quando a metà del
corridoio si trovò davanti l’altra madre che lo
attendeva impaziente,
sorridendo come se niente fosse, ma con una tale collera negli occhi
neri che
Carlos non credeva le fosse possibile esprimere.
«Allora,
hai finito?» chiese
l’altra madre.
«No»
disse laconicamente
Carlos, superandola velocemente ed entrando nel soggiorno,
immediatamente
seguito dalla donna.
L’altra
madre era
evidentemente preoccupata, era ovvio che non si aspettasse che Carlos
riuscisse
a trovare tutti quegli oggetti, ma Carlos sapeva di essere comunque in
svantaggio perché non aveva ancora i suoi genitori, ma non
solo: perché era
certo che anche una volta trovati, l’altra madre non lo
avrebbe semplicemente lasciato
andare via.
Avrebbe
dovuto lottare.
Pensava a questo mentre camminava per il soggiorno, guardando
dappertutto.
Ciò
che gli interessava era
lo specchio sulla mensola del caminetto, ma non voleva che
l’altra madre lo
capisse.
Sentì
qualcosa toccargli la
gamba e senza pensarci troppo, si voltò e raccolse tra le
braccia Khoshekh.
Lanciò un’occhiata alla madre per controllare i
suoi movimenti.
Sapeva
che non le piacevano i
gatti, perciò voleva essere certo che non facesse del male
al suo amico.
Fin
troppe persone avevano
sofferto.
«Ebbene?
Hai trovato i tuoi
genitori?» chiese sempre più impaziente
l’altra madre, che, ferma al centro
della stanza, seguiva ogni movimento del bambino con gli occhi. O
almeno era
questa l’impressione che aveva Carlos. Era difficile capire
dove guardasse, con
quegli occhi completamente neri.
«Sì!»
esclamò Carlos, forse
con fin troppa convinzione, ma l’altra madre
sembrò crederci perché il bambino
fu sicuro di vederla irrigidirsi.
«E
dove sono?» domandò la
donna.
«E’
ovvio… che sono dietro la
porta – disse indicandola col braccio che non reggeva il
gatto – non sono da
nessun’altra parte, quindi sono lì. Ne sono
più che sicuro. Anzi, perché non la
apri? Così vedremo finalmente!»
Il
sorriso dell’altra madre,
sempre più sbieco e terrificante, si fece ancora
più ampio, mentre andava ad
aprire la porta.
«Ne
sei veramente sicuro?
D’accordo, allora…» disse compiaciuta,
facendo scattare la serratura e aprendo
finalmente la porta.
Carlos
sapeva di non avere
molto tempo e che questa sarebbe stata la sua ultima occasione. Senza
pensarci
due volte, lanciò il gatto addosso all’altra
madre, che cacciò un urlo, mentre
gli artigli del felino si conficcavano nella sua faccia.
Carlos
si sporse e riuscì ad
afferrare il piccolo specchio sul caminetto, che infilò in
tasca insieme a
tutti gli altri oggetti che aveva raccolto.
«Presto!
Dobbiamo andarcene
adesso!» gridò a Khoshekh, che immediatamente
saltò giù, ma non dopo aver
orribilmente sfigurato il volto dell’altra madre.
I
suoi occhi neri erano stati
feriti, dalle varie ferite colava quella stessa sostanza scura e
viscosa che
Carlos aveva ormai visto tante volte, e la sua bocca era contorta in
una
smorfia impossibile e spaventosa. Non era più un sorriso, o
se lo era, era il
più orribile che Carlos avesse mai visto.
Tuttavia
non si fermò troppo
a guardarla. Non c’era tempo.
Tolse
la chiave dalla
serratura e la mise in tasca mentre entrava velocemente insieme a
Khoshekh.
Tentò
di chiudere la porta,
ma proprio mentre stava per riuscirci, l’altra madre
dall’altra parte cominciò
a tirare.
Urla
tremende provenivano
dall’altra parte della porta.
Carlos
era terrorizzato e
sentiva che non ce l’avrebbe fatta e che l’altra
madre lo avrebbe preso e che
tutto il suo lavoro sarebbe stato per niente, ma sentiva anche che se
si fosse
arreso ora, come stava per fare, l’altra madre gli avrebbe
fatto cose cento
volte più atroci di quelle che aveva fatto a tutti gli
altri, perché nessuno
gli aveva dato così tanto fino da torcere, nemmeno
l’altro Cecil, e ora era
fuori di se per la rabbia, il rancore, e l’odio.
Ripensare
all’altro Cecil gli
fece venire una stretta allo stomaco – maggiore di quella che
aveva già per la
paura. Il suo sacrificio non poteva essere vano. Carlos non lo avrebbe
permesso.
In
quel momento sembrò guadagnare
tutta la forza in più che gli serviva per chiudere la porta,
anche se un attimo
prima di chiuderla per sempre, gli sembrò che qualcosa fosse
riuscito a
sgusciare fuori.
Non
ebbe tempo per pensarci,
ancora una volta, anche perché il corridoio era ancora
più luminoso del solito
ed era come se lì dentro tirasse un vento forte e caldo,
come quello di un
deserto. Era quasi certo di sentire qualcosa simile a sabbia colpirgli
la
faccia e fargli male, anzi, forse lo stava anche ferendo, ma in quel
momento era
difficile da capire.
Attraversò
quel corridoio che
sembrava non finire mai – tanto che per un po’
dubitò che avesse effettivamente
una fine.
Poi
finalmente la luce
diminuì un’immagine familiare iniziò a
delinearsi: quella del soggiorno della
sua casa – quella vera.
Carlos
fece una sorta di
scatto finale e insieme a Khoshekh riuscì a oltrepassare la
soglia.
Immediatamente, chiuse la porta sbattendola e infilata la chiave nella
serratura le fece fare tutti i giri che riuscì a farle fare.
E poi tirò un
lunghissimo sospiro di sollievo e si rese conto di aver trattenuto il
fiato
senza accorgersene, ma non aveva idea per quanto tempo lo avesse fatto,
o
quanto a lungo fosse rimasto in quel tunnel infernale.
Si
voltò e Khoshekh era
seduto poco più là che lo guardava. Quando Carlos
ricambiò lo sguardo, il micio
batté lentamente le palpebre due o tre volte.
Il
bambino rise. Aveva varie
ferite – per fortuna non gravi – ma non importava,
nulla importava. Ora erano
tutti salvi grazie a lui. Si sentì felice come non si
sentiva da tempo e, tutto
d’un tratto, si rese conto di sentirsi anche stanco come non
si era mai sentito
in vita sua. Si lasciò cadere sulla poltrona e nel giro di
pochi secondi si
addormentò senza neanche accorgersene.
Fu
svegliato da una voce
familiare.
«Carlos…
Carlos! Cosa ci fai
qui sulla poltrona?»
Ci
mise un po’ a capire
dov’era e cosa stava succedendo, ma appena si riprese dal
sonno abbastanza per
capirlo, riconobbe sua madre e le saltò addosso
abbracciandola.
«Ehi!
Ma che succede?»
domandò dolcemente sua madre, accarezzandogli la fronte e
spostandogli una
ciocca dalla tempia.
In
quel momento anche suo
padre fece capolino nella stanza, ma l’uomo non fece in tempo
a fare domande
che Carlos gridò «Papà!» e
gli corse incontro abbracciando anche lui.
«Ti
siamo mancati?» domandò
scherzosamente il padre.
«Sì!
Non avete idea quanto!»
esclamò Carlos.
Sua
madre rise brevemente.
«Non
essere esagerato, non
siamo stati via così tanto» commentò
spensieratamente, avviandosi in cucina.
«Beh,
certo, non è facile
definire “tanto” in un luogo dove il tempo non
funziona, però vi assicuro che a
me è sembrata un’eternità!»
insistette il bambino, suscitando ulteriormente
l’ilarità del padre che alzò un
sopracciglio e ridacchiò.
«Un
luogo dove il tempo non
funziona? Oh, la fantasia dei bambini! Non esiste un posto del genere,
o almeno
non lo abbiamo ancora scoperto…»
«Ma…
ma papà! Te lo assicuro,
lì il tempo… aspetta, tu non sai di cosa
parlo?» chiese confuso e leggermente
deluso Carlos.
Suo
padre scosse la testa
fingendosi sconsolato.
«Andiamo,
aiutiamo tua madre
a preparare la cena» disse semplicemente, prima di uscire
dalla stanza.
Carlos
rimase fermo per un
po’, prima di seguirlo.
Non
se ne era reso conto
prima, ma a quanto pare i suoi genitori non avevano alcun ricordo di
tutto ciò
che era successo.
Non
sapeva come una cosa del
genere fosse possibile, e, come dovette constatare il suo animo di
scienziato, purtroppo non aveva
alcun modo per
scoprirlo. Decise, però, che in fondo non gli importava. Gli
bastava avere di
nuovo i suoi genitori e poter vedere i loro sorrisi umani
e i loro occhi normali.
Quando
si mosse, sentì come
un tintinnio. Allora mise la mano in tasca, ma la ritrasse subito
esclamando
“Ahi!”. Si era punto il dito con un pezzo di vetro.
Decise
allora di togliersi il
camice e di svuotare le tasche. Aveva ancora il suo orologio
– che ora
funzionava normalmente, la chiave, un cellulare, un caricabatterie,
alcune
pagine accartocciate e in fine lo specchio, che però si era
rotto. Capì che
doveva essersi ferito con uno dei pezzi di vetro.
Mise
tutto quanto nel camice
che usò come un sacco, e portò tutto in camera
sua.
Quella
sera non avrebbe mai
voluto andare a dormire, voleva restare alzato con i suoi genitori per
recuperare il tempo perduto, ma alla fine cedette, un po’
perché si disse che
adesso avevano tutto il tempo del mondo, e un po’ –
per la maggior parte in
realtà – perché non riusciva a tenere
gli occhi aperti.
Ad
un certo punto, qualcosa
lo svegliò. Erano dei fruscii e dei passi che lo fecero
scattare a sedere
perché erano suoni diventati fin troppo familiari per lui e
per un momento
credette di non essere mai uscito da quell’incubo, ma quando
aprì gli occhi,
vide qualcosa di molto diverso e, in qualche modo, si calmò.
Accanto
al suo letto c’erano
due donne di colore che, nonostante la prima volta non fosse riuscito a
vederle
bene a causa della luce, sta volta riconobbe immediatamente.
Tamika
teneva in una mano le
pagine del libro, mentre Dana aveva in una mano il cellulare e
nell’altra il
caricatore.
«Che
cosa ci fate qui?»
chiese bisbigliando e trattenendo uno sbadiglio.
«Siamo
qui per avvertirti»
disse Tamika.
«E
per ringraziarti» aggiunse
Dana.
«Sono
contento che stiate
bene» rispose Carlos sorridendo, sinceramente felice di
rincontrarle.
«Ascolta
bene. Non è finita
qui.» continuò la più giovane.
Carlos
si sentì confuso.
«Che
cosa significa? Non
siamo riusciti a sconfiggere l’altra madre?» chiese
apprensivamente.
Le
due ragazze si scambiarono
un’occhiata indecifrabile, sembravano in disaccordo su cosa
rispondere.
Alla
fine fu Dana a farsi
coraggio.
«Devi
scappare. Nasconditi.
Lei ti ritroverà. Potrebbe arrivare quando meno te lo
aspetti… sempre che non
sia già qui.» Carlos la fissò per
alcuni secondi, battendo le palpebre.
Non
riusciva a capacitarsi di
una cosa del genere. L’idea che l’altra madre
potesse raggiungerlo anche lì lo
fece rabbrividire.
“Ma
è impossibile, ho chiuso
la porta!” stava per dire, ma Tamika lo precedette.
«Devi
restare qui e
combattere, perché se lei riesce a raggiungere te, puoi
essere certo che farà
del male a tutti quelli che ami» affermò con
forza, in modo che non lasciava
adito a dubbi o proteste.
«Se
resti ti accadranno cose
orribili!» lo avvertì Dana.
«Se
scappi accadranno cose
orribili alle persone a cui vuoi bene!» ribadì
Tamika.
Dicevano
l’una l’opposto di
quello che l’altra aveva appena detto ed era come se non si
sentissero a
vicenda. Tutta questa confusione non aiutava Carlos, che ora doveva
prendere
un’importante decisione. Anche se in realtà non
c’era nessuna decisione, per
quanto lo riguardava: non poteva abbandonare la sua famiglia. Tamika
aveva
ragione: se aveva lottato fino ad ora, avrebbe continuato –
anche se non aveva
idea di come.
«Che
cosa posso fare?» chiese
sconsolato.
«Lotta!»
gridò Tamika.
«Scappa!»
gridò Dana, quasi
contemporaneamente.
Entrambe
continuavano a
gridare quella singola parola che riassumeva il loro consiglio, ma
nulla di ciò
era utile a Carlos, che sperava in un aiuto più concreto.
Continuavano a
gridare ancora e ancora, sempre più forte, tanto che Carlos
non riusciva a
sentire nient’altro.
“Basta!
Zitte, sveglierete
tutti!” stava per urlare, ma non fece in tempo,
perché proprio in quel momento
aprì gli occhi.
Era
giorno e delle due donne
non c’era traccia.
Era
stato un sogno a quanto
pare. Il bambino si stropicciò gli occhi con le mani. Era
sollevato che non si
trattasse che di un incubo, ma non riusciva a sentirsi completamente
tranquillo. Gli era rimasta addosso una brutta sensazione.
Si
alzò per andare a prendere
il camice che aveva appoggiato su una sedia la sera prima, ma dopo
averlo preso
tra le mani, si rese conto che qualcosa non andava. Quando lo aveva
lasciato,
c’erano ancora dentro gli oggetti che aveva recuperato
– salvo per i vetri
rotti, che aveva messo in una scatolina in un cassetto, e per
l’orologio e la
chiave, che aveva spostato sul comodino.
«Oh, no…» furono le
uniche parole che riuscì a pronunciare, anche se
uscirono come un bisbiglio.
Immediatamente
i suoi occhi
caddero sulla chiave.
Non
poteva lasciarla
incustodita, quindi prese un cordoncino che infilò nel buco
e se la mise
intorno al collo.
Quando
fece per scendere a
fare colazione, vide qualcosa di nero sfrecciare per il corridoio e
rimase
pietrificato a guardarla sgusciare su per una parete e sparire
nell’altra
stanza.
Era
certo di cosa si
trattasse. Ne aveva visti tanti in quegli ultimi giorni, che dubitava
che se ne
sarebbe mai dimenticato finché fosse vissuto.
Cautamente,
si affacciò sulle
scale, ma del ragno neanche l’ombra.
Per
sicurezza, fece scivolare
la chiave sotto la maglietta.
Prima
di fare colazione, girò
per casa guardando in ogni angolo. Non riuscì a trovare il
ragno da nessuna
parte. Alla fine si diresse verso la porta di casa e si
affacciò fuori.
Immediatamente un’ombra nera velocissima gli passò
tra le gambe e schizzò fuori
dalla porta. Non ebbe tempo di fare niente, l’unica cosa che
fece fu chiudere
la porta e tirare un respiro di sollievo: almeno adesso era certo che
non si
trovasse in casa, quindi ora aveva almeno un posto sicuro dove stare,
anche se
fuori sarebbe stato tutt’altro che sicuro, d’ora in
poi.
Per
alcuni giorni non volle
neanche pensare di uscire di casa, sapendo che quella cosa era
là fuori, ma
dentro di sé sapeva anche che uscire sarebbe stato
necessario, se davvero
voleva riuscire a sconfiggere per sempre l’altra madre.
Inoltre, forse lui
poteva non uscire, ma i suoi genitori avrebbero continuato a farlo, e
così
anche gli altri inquilini, e anche Cecil.
Fu
proprio Cecil, a dire il
vero, a convincerlo una volta per tutte che prendere una decisione
risolutiva
era l’unica cosa da fare.
Aveva
fatto da poco colazione
e stava osservando il giardino dalla finestra, cercando il ragno con lo
sguardo
– consapevole che doveva essere lì da qualche
parte, in agguato – quando
intravide una testolina bionda spuntare dai cespugli del giardino.
Immediatamente
si irrigidì e
aguzzò la vista. Proprio come pensava, il ragno era davvero
in agguato, ed era
sicuro di averlo visto sgusciare tra l’erba.
Corse
immediatamente fuori
per avvertire il suo amico del pericolo, e fece appena in tempo a
saltargli
addosso e a spingerlo via, perché l’aracnide aveva
spiccato un balzo e stava
per attaccare Cecil e il suo gatto. Comunque sia, Carlos non si perse
in
spiegazioni: non ce n’era tempo. Prese l’amico per
una mano e corse in casa,
trascinandoselo dietro, seguito anche da Khoshekh, e chiuse
immediatamente la
porta.
Ancora
appoggiato con le
spalle contro la superficie di legno, tirò un bel respiro e
si ritrovò davanti
l’altro bambino che lo fissava con aria interrogativa.
Dopo
essere andati tutti e
tre in camera sua, Carlos aggiornò l’amico sugli
ultimi avvenimenti, e scoprì
che l’altro non dubitava neanche minimamente delle sue
parole, anche se,
naturalmente, ne era sorpreso e visibilmente preoccupato.
Carlos
osservò il viso corrucciato
del suo amico, mentre accarezzava Khoshekh dietro l’orecchio.
Per
un momento gli sembrò di
rivedere l’altro Cecil e mentalmente rivisse gli ultimi
momenti della sua vita,
il che gli causò un brivido e riaprì ferite non
ancora rimarginate. Si sarebbe quasi
messo a piangere, soprattutto considerato che quella volta non ne aveva
avuto
il tempo, o almeno, non aveva potuto fare un bel pianto liberatorio, di
quelli
che sgorgano dal profondo e che ti svuotano di tutte le energie.
Aveva
abbracciato i suoi veri
genitori quando li aveva rivisti, e si disse che era il momento di
abbracciare
anche Cecil.
Allungò
le braccia e le
strinse intorno alle spalle dell’altro che, dopo qualche
istante di confusione,
ricambiò l’abbraccio.
Sicuramente
Cecil avrebbe
pensato che quel gesto fosse un modo per farsi coraggio, considerata la
sfida
che li attendeva – e in parte era vero – ma Carlos
sentì comunque il bisogno di
spiegare.
«Mi
sei mancato. Sono felice
di rivederti e che tu stia bene…» disse
sciogliendo l’abbraccio.
L’altro
lo guardò sorridendo
leggermente, con uno sguardo comprensivo.
Carlos
tirò su col naso e si
strofinò gli occhi che gli si erano fatti lucidi.
«Che
cosa facciamo, adesso?»
domandò Cecil.
«Ho
elaborato una specie di
piano… non ne sono sicuro, ma dovrebbe funzionare. Voglio
dire, non ne sono
certo scientificamente,
perché non ho
potuto fare una prova, ma se tutto va bene…» e
così spiegò la sua idea
all’altro che ne sembrò egualmente entusiasta e
timoroso. Non trattenne tutta
una serie di commenti su come Carlos fosse coraggioso e intelligente,
pronunciati con una certa ammirazione, ma alla fine pose il dubbio: non
era
troppo pericoloso?
La
risposta, secondo Carlos,
era sì, ma non lo disse e scelse volutamente di non pensarci.
Fece
un giro per casa,
racimolando tutto ciò che poteva servirgli, poi si
avviò verso la porta.
«Io
esco! Andiamo a fare un
po’ di esperimenti in giardino!» avvisò
la madre prima di uscire, che si
raccomandò di non fare tardi per pranzo.
“Mi
auguro anche io di non
fare tardi per pranzo… oh, mamma, se solo
sapessi…” pensò tra sé e
sé.
Facendo
attenzione ad un
possibile attacco da parte del ragno, i tre si diressero verso la casa
che
esiste anche se avrebbe più senso che non esistesse,
assicurandosi di essere
seguiti perché era importante che il ragno sapesse dove
trovarli per cadere
nella trappola.
Il
piano in teoria era
semplice quanto improbabile. In realtà non era affatto
semplice, nella pratica.
E Carlos non era affatto sicuro che i suoi ragionamenti fossero esatti,
ma lo
sperava davvero. Questa poteva essere la loro l’unica
possibilità.
Se,
come credeva di aver
capito, quella casa era un passaggio tra i due mondi – quello
reale e quello
dell’altra madre – che però funzionava
in una sola direzione, se fossero
riusciti a far entrare il ragno all’interno, quello non
sarebbe più stato
capace di uscire. Da ciò che aveva osservato, solo la
signora che ci abitava
sembrava essere capace di rimanere in questo piano
dell’esistenza senza neanche
rendersi conto di ciò che la sua casa era in
realtà.
Quando
arrivarono davanti
alla casa, i due bambini si guardarono per darsi coraggio, e poi
diedero il via
al piano.
Prima
allestirono un kit per
esperimenti con tutte le cose da scienziati che Carlos si era portato
dietro,
per far capire al ragno che sarebbero stati lì per un
po’ e fare in modo che la
bestia si convincesse di averli in pugno.
Poi,
mentre Carlos versava il
contenuto di un’ampolla in un’altra –
facendo attenzione ad elencare ad alta
voce le azioni che compiva, sperando di convincere il ragno di non
essersi
accorto della sua presenza – Cecil andò a bussare
alla porta della casa. Buona
parte della buona riuscita del piano dipendeva dalla tempistica con cui
la
donna avrebbe aperto la porta, per questo era importante riuscire al
primo
tentativo, e non sarebbe stato facile.
Quando
il ragno vide che
Carlos era stato lasciato solo dall’amico, non
esitò ad attaccarlo, uscendo dal
suo nascondiglio e saltandogli addosso per recuperare la chiave.
Carlos,
che in realtà lo
teneva sott’occhio, si scansò appena in tempo e
proprio in quel momento,
Khoshekh uscì a sua volta dal suo nascondiglio, azzannando e
immobilizzando il
ragno, che cazze sopra la tovaglia con gli strumenti di lavoro di
Carlos.
Immediatamente,
Carlos chiuse
la tovaglia, facendone un fagotto e lo lanciò dentro la
porta che era appena
stata lasciata aperta dalla signora. Era importante che lei non fosse
in casa,
perciò Cecil le aveva chiesto con urgenza di seguirlo per
aiutarlo a risolvere
un qualche problema che si inventò sul momento.
Carlos
chiuse prontamente la
porta e rimase immobile, come anche Cecil e il gatto. Per un
po’ ci fu
silenzio.
Poi
la signora, confusa e
irritata, li rimproverò.
«Che
modo è questo? Che
scherzi sono da fare? Voi ragazzi di oggi e la vostra
sfacciataggine!» brontolò,
per poi tornare verso la porta e rientrare in casa.
Quando
la donna aprì la
porta, entrambi i bambini trattennero il fiato, ma per fortuna nulla ne
uscì e
il fagotto con dentro il ragno e il resto era sparito.
Carlos
non riuscì più a
trattenersi. Dopo tutto, fino ad ora non aveva avuto molte occasioni di
esprimere le proprie emozioni in modo aperto e salutare, e una bella
risata a
squarciagola, finalmente, se l’era decisamente meritata.
Anche Cecil lo imitò e
perfino Khoshekh sembrava voler festeggiare, tanto che gli si
accostò e
strofinò la testa sulla sua gamba.
Carlos
lo prese in braccio e
gli posò un bacio sulla testa, ricevendo in cambio un
miagolio compiaciuto e
delle sonore fusa.
Cecil
era corso
immediatamente a casa dicendo di dover assolutamente registrare con
attenzione
un resoconto di tutta la vicenda sul suo fidato registratore.
A
Carlos non era sembrato
strano e lo aveva salutato serenamente, per poi dirigersi a casa,
stremato ma
ancora euforico per la vittoria.
Non
era mai stato più felice
di così di non aver fatto tardi per pranzo – lo
disse anche a sua madre, mentre
si accomodava a tavola, e lei aveva riso e scosso la testa.
Quel
giorno Carlos annunciò
di voler fare una festa in giardino e di voler invitare anche Cecil, la
signora
Josie e Telly.
I
suoi genitori furono
stupiti di questa proposta, ma non vedendoci niente di male,
accettarono di
aiutarlo ad organizzarla.
Così,
il giorno seguente,
tutto il giardino era stato abbellito con bandierine colorate e altre
decorazioni, che rendevano l’atmosfera leggera e divertente.
La
signora Josie portò il suo
contributo offrendo a tutti un pezzo della sua crostata deliziosa
– a detta sua
preparata dagli angeli – mentre Telly si disse finalmente
pronto per tagliare i
capelli a Carlos. Dato che mancava poco all’inizio della
scuola, i suoi
genitori pensarono che fosse una bella idea dare una ripulita al suo
aspetto,
dato che i capelli ricci gli arrivavano ormai alle spalle.
L’unico
che non fu affatto
entusiasta del cambiamento fu Cecil, che non smise mai di lamentarsi
della
terribile perdita che il mondo aveva subito per la scomparsa di quei
bellissimi
e lunghissimi capelli, e di maledire Telly in tutti i modi. Anche se,
in
realtà, e ci mise un po’ di tempo ad ammetterlo, i
capelli di Carlos gli piacevano
tantissimo anche così com’erano adesso –
ovvero più lunghi sopra e cortissimi e
quasi rasati sulla nuca e ai lati – perché aveva
scoperto che passarci le dita
sopra era davvero piacevole, ora che erano così corti.
Carlos, invece, scoprì
di soffrire estremamente il solletico sulla nuca.
Per
quanto riguarda la
chiave, Carlos non la perse mai di vista e decise che appena fosse
stato
possibile, andava distrutta.
La
porta non fu più riaperta.
Anzi,
Carlos insistette che
vi fosse posto davanti un mobile, così da non doverla
neanche più vedere e
nella speranza di dimenticarla e con lei tutto ciò che aveva
dovuto passare
dall’altra parte di essa – eccezione fatta, forse,
per tutto ciò che aveva
imparato e tutto ciò che aveva perso.
Note:
E’ tempo delle note, finalmente! Non so quanto possa essere
stata una buona
idea metterle alla fine, perché in tutta onestà
non so quanta gente arriverà
fin qui, ma ehi! Almeno lasciatemi uno sfogo personale.
Mi ritengo tutto sommato soddisfatta del risultato, questo devo dirvelo. (per la serie: SAPEVATELO)
Ho iniziato a scrivere questa fanfiction (anche se in modo discontinuo nel tempo) subito dopo aver avuto l’idea, che credo sia stato tra la parte A e la parte B dell’episodio Old Oak Doors. Tra l’altro era anche periodo di esami per me (addio liceo LOL).
E niente… per non farmi stressare mentre aspettavo il mio turno agli orali mi sono comprata il libro Coraline e me lo sono letto tutto mentre aspettavo. Poi pochi giorno dopo mi sono riguardata il film. Inutile dire che ho avuto gli incubi dell’altra madre che voleva cucirmi gli occhi per giorni… ehm… sono suscettibile, okay??
Ma l’idea non è giunta da sola. Diciamo che è stata una combinazione di cose perché proprio in quel periodo ho visto questo post che mi ha fatto accendere la lampadina. Naturalmente ho solo tratto ispirazione, poi sono partita su rotaie tutte mie e ciao insomma (?)