Capitolo Tre
Ovvero
Madamoiselle Ko Rah e la sua peculiare maledizione
Ko Rah non sapeva esattamente che ore fossero o l’esatto
susseguirsi di eventi che l’aveva portata lì in quel momento.
Sapeva che suo fratello l’aveva svegliata strillando
qualcosa a proposito di un ritardo inaccettabile o qualcosa del genere. Non
aveva potuto ignorarlo, visto che, per forza di cose, si erano ritrovati a
dividere lo stesso letto singolo. Si era alzata, appoggiando la schiena alla
spalliera del letto, e aveva cercato con lo sguardo il suo Wired: se lo
sentiva, lo sapeva che quel giorno ne
avrebbe avuto bisogno per sopravvivere.
Prima che potesse prenderlo e accenderlo, però, Al Aki le
aveva lanciato contro dei vestiti, gridando qualcosa che Ko Rah, troppo presa
ad odiarlo profondamente, non riuscì a comprendere: il resto della mattinata
era stato un continuo tentativo della ragazzina di avvicinarsi per ucciderlo-
tentativi che fallivano grazie all’estrema iperattività del ragazzo.
Così aveva continuato fino a quando, senza neanche sapere
come ne perché, Ko Rah non si era trovata a correre dietro ad Al Aki, che la
teneva per un polso, verso una scrivania posizionata in un angolo della piazza.
Borbottò qualcosa sotto voce, stringendo i denti con forza.
In quel momento, Al Aki stava passando da ‘normalmente irritante’ a
‘insopportabile’, e Ko Rah non aveva la minima intenzione di festeggiare
quell’evoluzione nel carattere del fratello.
“Aah, siamo in
ritardo ritardo ritardo ritardo!”
Ko Rah socchiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un ringhio.
“Immagino.”
Come al solito, Al Aki non notò minimamente con quanto odio
la sorella avesse pronunciato quella parola. Annuì veementemente, compiaciuto
che qualcuno stesse, più o meno, dandogli ragione.
“Lo so! Aah, avrei
dovuto iscrivermi ieri ma era così tardi e, insomma,” Al Aki si arrestò sul
posto, socchiudendo gli occhi nel tentativo di capire se l’uomo dietro la
scrivania stesse dormendo oppure fosse solo intento a leggere qualcosa, “vendevano dei vestiti così carini e, ecco,
non ero sicuro che, hm, che, uh,” un sorriso allegro si fece strada sul suo
volto appena vide che l’impiegato era ancora vivo e vegeto, “aah, signore!”
L’impiegato, un uomo secco e decisamente annoiato, alzò gli
occhi dalla scrivania, cercando l’origine di quel rumore: prima ancora di
trovarla, comunque, Al Aki si era lanciato verso la sua scrivania e aveva
sbattuto la mano sul tavolo.
“Dobbiamo
iscriverci!”
L’uomo lo squadrò con calma, il sopracciglio inarcato in uno
sguardo scettico.
“Quanti anni
avresti?”
“Uh, hm,” Al Aki
ridacchiò, giocherellando nervosamente con una ciocca dei propri capelli. “Diciannove, perché?”
L’altro sbuffò, dandogli un nuovo sguardo di sufficienza. “Sei un ragazzino.”
Al Aki si gonfiò il petto, tentando di darsi un’aria
minacciosa: Ko Rah, dietro di lui, si limitò a sbuffare qualcosa e ad accendere
il Wired, ringhiando sottovoce.
“Va bene, va bene…
Santo Cielo…”
L’impiegato mormorò sottovoce una serie di improperi che Al
Aki non riuscì a comprendere- non sapeva se era semplicemente troppo basso il
tono di voce o se stava proprio parlando un’altra lingua, fatto stava che non
capiva assolutamente nulla.
Intinse la penna nell’inchiostro, quindi l’appoggiò sul
foglio. “Nome e cognome, arma, razza.”
“Uh-uh!” Al Aki
batté le mani l’una contro l’altra, sorridendo allegramente, “Allora, io sono Al Aki Lari, lei invece è
mia sorella Ko Rah…”
“No,” l’uomo lo
interruppe, appoggiando la schiena contro lo schienale della sedia e tornando a
guardarlo negli occhi, “non potete
partecipare assieme.”
Al Aki lo fissò, lo sguardo vacuo ovvia prova che non aveva
la minima idea di cosa intendesse dire: vedendolo in quel modo, l’impiegato
alzò gli occhi al cielo, sbuffando. “Non
potete registrarvi assieme. Potete registrarvi a parte e poi partecipare
assieme, come un gruppo, ma solo uno di voi due potrà realizzare il desiderio.”
Al Aki, che per tutto il tempo in cui l’altro gli aveva
spiegato quella regola non aveva fatto altro che fissarlo con la bocca
socchiusa, annuì, dando segno di aver capito.
“Oh! Deve esserci un
errore,” ed alzò la mano destra, indicando la sorella alle sue spalle, “lei è la mia arma.”
Le nocche di Ko Rah divennero bianche per il modo con cui
stava stringendo il Wired: stava serrando le mascelle con così tanta forza che
i denti avevano cominciato a scricchiolare pericolosamente, e l’impiegato fu
sicuro di aver sentito qualcosa, come un disturbo nell’atmosfera- era come se
l’aria si fosse fatta improvvisamente più densa, difficile da respirare.
“…Davvero?”
Il tono dell’uomo era così sorpreso da mettere da parte,
almeno per qualche secondo, la sufficienza con cui si era rivolto loro fino a
pochi secondi prima.
L’occhio sinistro di Ko Rah ebbe un improvviso tic nervoso. “Immagino
di sì.”
“Già già!” Al Aki
cominciò ad agitare una mano in aria, tentando di aiutarsi, con quel gesto, nel
suo discorso. “Vede, Coco è estremamente
forte ma, bhè, ha bisogno di me per il, uh, sa, hm, il, eh, hm, il… fattore…
strategico, e,” Aki fece una smorfia, aggrottando la fronte nel tentativo
di concentrarsi: dietro di lui, Ko Rah lo stava fulminando con lo sguardo, i
muscoli così tesi per il fastidio che cominciavano persino a farle male, “insomma, io sono, uh, lei... hm, ecco
tutto.”
L’impiegato lo fissò per qualche secondo, le mani giunte sul
ventre ed un’espressione vuota sul volto, nella vaga ricerca di riportare un
po’ di ordine logico fra i propri pensieri.
Sbatté le palpebre, due o più volte: poi, aprì e chiuse la
bocca, alla ricerca di qualcosa da dire.
“Uh,” fu tutto
ciò che trovò nella propria mente.
Al Aki annuì, in un qualche modo intenerito. “Già.”
Uno sbuffo inferocito sfuggì dalle labbra di Ko Rah, che in
quel momento stava sfogando tutta la propria frustrazione pestando i tasti del
Wired.
“Uh,” ripeté
l’impiegato, quasi ipnotizzato dal silenzio che era appena calato fra i tre:
scosse la testa, tentando di risvegliarsi dal torpore. “La situazione è piuttosto complicata. Non so quante volte sia già
capitato qualcosa del genere, dovrei consultare il regolamento.”
Il volto di Al Aki si sfigurò in una smorfia: l’idea di
dover aspettare qualcosa del genere non gli faceva per nulla piacere. “Immagino sarà un procedimento lungo, hm?”
L’impiegato annuì, scrollando le spalle in un gesto che
poteva essere di scusa.
Al Aki sospirò, già annoiato dalla situazione, quindi si
voltò verso la sorella, sorridendo. “Coco,
se vuoi fare un giro per la città puoi approfittarne.”
Ko Rah mugugnò qualcosa sottovoce, in quello che sembrava un
incomprensibile borbottio d’accondiscendenza.
Ko Rah non amava rimanere in mezzo alla gente più dello
stretto necessario. Tuttavia avevano pagato la stanza dell’albergo solo per una
notte e probabilmente l’avevano già data a qualcun altro, quindi non le
rimaneva altro da fare che trovare un angolo di strada abbastanza calmo e
isolato e giocare fino a quando il fratello non avesse finito la registrazione.
Purtroppo non sembravano esserci simili posti. Sbuffò,
quindi decise di optare per una panchina su cui c’era seduto qualcuno.
Era un tizio che doveva essere pochi anni più grande del
fratello, in quel momento occupato a fissare il vuoto. Al di là all’apparenza
stravagante – l’orecchino con una gemma o gli occhialini viola erano soltanto
due dei particolari meno appariscenti – , insomma, sembrava avere una certa
propensione per il silenzio e per lo stare nel proprio angolino, senza
disturbare il resto del mondo.
Ko Rah si sedette all’altro lato della panchina, prendendo
il Wired dalla tasca.
“Non mi dire, anche
tu partecipi al torneo?”
Un’improvvisa, inarrestabile ondata d’odio l’assalì,
facendola tremare impercettibilmente.
“Sì, eh? Bene,”
il ragazzo ridacchiò, sporgendosi verso di lei, “sei sicuramente la ragazza più carina che ho visto finora.”
C’era qualcosa che Ko Rah non riusciva a sopportare,
qualcosa che riusciva perfino a farle dimenticare i comportamenti di suo fratello,
e quella cosa erano le persone che ci provavano con lei.
Non che, avendo vissuto in un paesino deserto fino al giorno
prima, lei potesse avere una grande esperienza in quel senso: tuttavia, quando
si lasciava convincere ad andare in città per comprare qualcosa, a volte si era
trovata con un ragazzo che continuava a ronzarle attorno.
Era una cosa che odiava. Quel continuo violare il suo spazio
vitale solo per parlarle le dava sui nervi. Com’era possibile che non capissero
che voleva solamente in pace?
Strinse le mascelle fin quasi a farsi scricchiolare i denti.
Com’era possibile che non capissero che li odiava con tutto il suo cuore?
“Sparisci.”
Il ragazzo sorrise, ignorando completamente il tono di Ko
Rah. “Mi chiamo Mihel. Spada Sacra. E
tu?”
“Ko Rah.” Per un
solo, piccolo secondo la ragazza ebbe un fremito all’occhio sinistro. “A quanto pare sono l’arma di mio
fratello.”
Per un secondo lo sgomento bloccò il ragazzo, che rimase a
fissarla con la bocca aperta: poi decise che, dopo tutto, la cosa poteva anche
essere normale. Forse.
“Uh, hm.”
La risatina nervosa che scappò dalle labbra di Mihel la
lasciò momentaneamente spaesata. Non sapeva realmente perché, ma per qualche
secondo si dimenticò di odiarlo con tutto il cuore e gli sembrò persino che, al
suo posto, ci fosse il fratello.
Fu solo uno smarrimento momentaneo, alla fine del quale Ko
Rah riprese a sperare che il ragazzo si decidesse a lasciarla in pace.
“Bhè… bel nome.”
Ko Rah emise un leggero ringhio- a quanto pareva Mihel non aveva recepito il messaggio. “Potrei offrirti qualcosa, che ne dici?”
Si voltò verso di lui, rivolgendogli un’occhiata omicida. “No.”
“Oh, andiamo! Magari
ti-”
“Scusate.”
Mihel si ritirò al suo posto, aggrottando la fronte in un
gesto irritato: fra lui e la ragazza, infatti, si era appena seduto un ragazzo
probabilmente troppo interessato dai propri appunti per capire di essersi
appena messo in mezzo.
Da parte sua, Ko Rah accolse la notizia di una nuova persona
con estremo fastidio: sembrava che il mondo avesse preso coscienza del suo
sedersi a quella panchina e avesse deciso di attirare quanta più gente
possibile in quel posto.
“Dicevo,”
continuò poi Mihel, decidendo che il ragazzo, alla fin fine, non doveva dare
molti problemi, “potrebbe farti bene
bere qualcosa.”
“Sto. Per.
Ucciderti.”
“Aw…”
Mihel si appoggiò sullo schienale della panchina tornando a
guardare il vuoto, questa volta con un leggero broncio sul volto.
Ko Rah decise di non perdere il tempo in inutili
ringraziamenti al Cielo e alla fortuna: prese il Wired e cominciò a giocarci, sperando
che la prossima volta che il ragazzo avesse deciso di parlare si fosse accorto
che stava tentando di battere un record e decidesse, finalmente, di chiudere la
sua maledettissima bocca.
Non amava avere gente attorno, ma apprezzava quando veniva lasciata in
pace: le ci volle poco per tornare ad un umore accettabile.
Premeva tasti, uccideva i nemici del gioco, e intanto
cominciava ad abituarsi ad avere accanto quel tizio strano – qualsiasi fosse il
suo nome – , che si faceva i fatti suoi scribacchiando qualcosa di gran lena.
Cosa, a Ko Rah non era dato sapere: forse erano appunti in un’altra
lingua o forse il tizio aveva solamente un’orrenda grafia (molto più probabilmente
tutte e due le opzioni), fatto stava che non riusciva a comprendere nulla di
quanto scriveva.
Le andava bene. D’altronde, ciò che poteva realmente
attirare la sua attenzione era proprio il tizio in sé: doveva essere poco più
vecchio di Mihel, ma la vivacità dello sguardo, che ogni tanto vagava qua e là
per la piazza, lo rendeva, in un qualche modo, più simile ad un bambino.
Ko Rah trattenne a malapena un borbottio, eliminando
l’ultimo boss del livello al pensiero che, forse, solo il fratello riusciva a
sembrare così allegro.
Oltre a ciò, il tizio aveva un aspetto decisamente strano: i
capelli, legati alla bell’e meglio in un piccolo codino stretto alla nuca,
erano bianchi, il volto pieno di graffi e piccole cicatrici- sotto un occhio un
taglio era stato cucito.
Gli occhi, poi. L’occhio sinistro era azzurro ghiaccio,
quello destro marrone chiaro.
E poi c’era l’altro tizio, quello irritante: Mihel.
Ko Rah ringhiò qualcosa sottovoce, scegliendo una nuova
partita per ricominciare dall’inizio: per un qualche strano motivo la vicinanza
con quel ragazzo continuava ad esserle insopportabile, anche se in quel momento
si era ritirato nel suo angolo.
Per quanto non fosse decisamente brutto, bastava guardarlo
per capire che sarebbe sempre e solo stato lui a dover compiere il primo passo
con qualcuno: qualcosa, nella sua persona, lo rendeva irritante.
La ragazza aggrottò la fronte, ragionando brevemente sul
fatto che, forse, poteva essere solamente lei a trovarlo irritante: poi
l’occhio le cadde per pochi secondi sulla figura scomposta del ragazzo,
accasciato pigramente alla panchina, un sorrisetto indecifrabile sulle labbra e
lo sguardo perso nel vuoto, e si convinse che no, quell’irritazione faceva
semplicemente parte della sua persona.
La pelle era olivastra ma le labbra, stranamente, erano
bianco perla: Ko Rah ragionò sul fatto che non doveva essere normale, ma
contando che era cresciuta in un villaggio abitato da
cinque persone di cui tre mascherate raggiunse la conclusione che delle labbra non dovevano fare molta
differenza.
Gli occhi erano marroni, i capelli erano corti, castani, ma
una ciocca alla sinistra del volto era lunga fino al mento e legata con
perline. Strano, forse, ma dopo l’orecchino con gemma rossa e occhialini
fucsia, Ko Rah non riusciva davvero a raggiungere il minimo stupore.
A quelle piccole stranezze si univano poi i vestiti: forse
non erano davvero così appariscenti come la profonda irritazione verso di lui
voleva farle credere, ma fra braccialetti, maglia rosa e collanine, lei
dubitava fosse possibile per lui far perdere le proprie tracce.
Ko Rah inarcò un sopracciglio, colta da un improvviso
dubbio. Due giorni e lei aveva incontrato tre tizi strani: era il torneo che
attirava persone poco raccomandabili o era Ko Rah che aveva attaccata alla
schiena una specie di calamita per gente fuori dal comune?
Un goblin rischiò di colpire il protagonista del gioco:
bastò per far dimenticare a Ko Rah qualsiasi domanda potesse avere. Non
importava- non quanto finire di nuovo quella partita.
“Salve, bambolina.”
Per pochi secondi Ko Rah accarezzò l’idea di prendere il
Wired e lanciarlo contro Mihel, poi si accorse che il ragazzo non aveva
parlato. Anzi, in quel momento stava fissando qualcuno con un’espressione
leggermente feroce.
“Stavo parlando a-
ah, fa lo stesso. Tu,” Il ragazzo, un tipetto minuto, si
era voltato verso Mihel, fissandolo con la fronte aggrottata nel tentativo di
trovare un aggettivo adatto per definirlo. “…Tu.
Ciao. Io e il mio amico,” e indicò l’uomo alla sua destra, che in quel
momento lo fissava leggermente spaesato, “non
siamo di qui e dovremmo raggiungere il negozio del fabbro Fal, ma ci siamo
persi. Sapreste-”
“Sparisci.”
Il ragazzino si bloccò, fissando Mihel a bocca aperta:
questo si limitò a ricambiare lo sguardo con un’espressione inferocita, quasi
lo sfidasse a rispondere.
“Uh… no, non hai
capito.”
“No, tu non hai
capito,” ringhiò Mihel, sporgendosi verso il ragazzo con un’espressione
minacciosa sul volto. “Chi ti credi di
essere per chiamarla ‘bambolina’? Non ci credi forse abbastanza importanti per
chiamarci per nome?”
Ko Rah, che aveva deciso di lasciar perdere e tornare ai
suoi videogiochi appena il discorso si era spostato a Mihel, ebbe a malapena un
fremito quando sentì pronunciare di nuovo la parola ‘bambolina’: per quanto
quel termine partisse già svantaggiato per il semplice fatto di essere un
vezzeggiativo e di riferirsi alla sua persona, c’era come attenuante che,
almeno, non era stato pronunciato nel tentativo di accattivarsi le sue
simpatie.
Non cambiava molto, comunque: lo sopportava a malapena,
quindi fu solo dopo una dolorosa fitta di fastidio che lei decise di tornare al
suo videogioco.
Il ragazzo invece non riusciva ad elaborare la situazione:
da una parte fissava Mihel come se fosse un idiota contagioso, dall’altra
tentava di tranquillizzare con leggeri cenni della testa l’amico, che aveva
cominciato a sussurrare qualcosa in quella che sembrava un’altra lingua.
“Io… hm. Va… bene.”
Il ragazzino alzò le mani in segno di resa, decidendo infine di lasciar perdere
e continuare in modo ragionevole, “come
ti pare. Mi chiamo Veven, lui è Ecke, piacere di conoscerti.”
L’amico, nel sentire il suo nome, passò lo sguardo da Veven
a Mihel, facendo poi un cenno con la testa verso l’ultimo, lo sguardo ancora
completamente smarrito.
Veven si chinò leggermente, mimando con la mano destra una
riverenza. “Ora, sapresti dirci da che
parte è la bottega del-”
“No.”
Mihel si alzò in piedi, torreggiando sopra Veven
minacciosamente- nulla di troppo difficile, contando che questo era piccolo e
minuto. “Non mi va di dirti nulla,
quindi o sparisci o ti faccio fuori. Chiaro?”
Di nuovo, Veven dovette fermarsi ad osservarlo per alcuni
secondi per convincersi che quella non era solo un’allucinazione molto vivida.
“Tu… non sei
completamente normale, giusto?”
Ko Rah mugugnò qualcosa sottovoce, stizzosa replica che
doveva probabilmente essere una risposta alla domanda di Veven: nessuno dei due
ci fece caso, comunque, perché Mihel, divenuto rosso in volto, spinse il
ragazzino.
Ecke univa lo smarrimento più totale allo stupore, senza
capire cosa stesse succedendo e se dovesse intervenire oppure no: confuso,
rimase immobile, fissando il più piccolo con sguardo supplicante.
Veven non se ne accorse, tanto era rimasto scioccato dalla
spinta. Fissava Mihel a bocca aperta, lottando con tutte le sue forze per
convincersi che sì, quel tizio lo aveva davvero spinto senza alcun ragionevole
motivo.
“Tu mi hai spinto?!” la
voce gli uscì esageratamente stridula: sarebbe stata anche piuttosto comica, se
solo Ko Rah non stesse cercando in tutti i modi di concentrarsi sul suo gioco. “Ecke! Sie
danste meg!”
Ecke sembrò risvegliarsi: si voltò verso Mihel con sguardo
inferocito e gli afferrò la maglietta, aprendo la bocca per dire qualcosa.
“Vogliamo
smetterla?!”
Veven, Ecke e Mihel si voltarono verso il ragazzo che, fino
a quel momento, era rimasto seduto, troppo assorto dalla scrittura per rendersi
conto di cosa succedeva attorno a lui.
Per quanto non sembrasse molto più forte di nessuno dei tre,
il tono con cui era sbottato li aveva calmati in meno di un secondo: perfino in
quel momento, in cui il suo sguardo era tutto meno che minaccioso, non potevano
fare a meno che fissarlo con timore reverenziale.
“Sentite, non vi
chiedo di interrompere il… vostro…” il ragazzo aggrottò la fronte, senza
sapere come continuare, “…balletto
del maschio più maschio, ma almeno spostatevi. Sul serio,
è già una tortura scrivere senza
un tavolo! Io- oooh!”
Persino Ko Rah non poté rimanere totalmente indifferente nel sentirlo
fare un simile… suono.
Il ragazzo, non sembrò rendersi conto del modo in cui i
presenti lo fissavano, troppo concentrato nello studiare Veven: era evidente
che avesse trovato qualcosa che lo interessava, ma nessuno dei tre riuscì a
comprendere cosa potesse aver attirato la sua attenzione.
La strana luce nei suoi occhi lasciava però intendere che fosse
un interesse che andava al di là del semplice aspetto fisico.
“Affascinante,
semplicemente affascinante!” Si
alzò in piedi, tirando le labbra viola in un sorriso allegro. “Il mio nome è Alhanaliam. Cappellaio Matto.”
Ridacchiò leggermente, scotendo la testa. “Chiamami
pure Liam. Il tuo nome è…?”
“Uh… Veven.” Il
ragazzo si morse un labbro, esitante all’idea di dover rivelare il proprio
titolo. Non riusciva a farsi piacere quel soprannome: gli sembrava fin troppo pomposo,
era semplicemente ridicolo. “Fuoco
oscuro."
Ecke s'irrigidì avvertendo l'esitazione dell'amico: subito rivolse un'occhiata feroce a Liam, tentando di capire cosa potesse aver detto per infastidire Veven.
“Fuoco oscuro?
Forte!” Alhanaliam sorrise, ignorando completamente di essere sotto il
giudizio di Ecke. “Oltre che
appropriato. Intendo dire, sei un mezzosangue, giusto?”
Veven aggrottò la fronte, assumendo involontariamente
un’espressione imbronciata. “Prego?”
“Mezzosangue. Ibrido.
Come dite voi? Non penso ci siano tanti altri sinonimi…” Liam schioccò le
dita, illuminandosi. “Oh, certo, forse
hai pensato fossi razzista? Tranquillo! Trovo che il mescolamento delle razze,
quando possibile, sia estremamente… affascinante! Sono caratteri che si
uniscono, che danno forma ad un’altra razza- il primo passo verso
l’evoluzione.”
Mihel aveva in quel momento assunto l’espressione confusa
che fino a poco prima era propria di Ecke e, assieme a quest’ultimo, fissava
Alhanaliam a bocca aperta, senza riuscire a capire cosa stesse succedendo.
“Già, già- posso
chiederti le razze dei tuoi genitori? E magari un dettagliato elenco di
malus-bonus?”
Veven si portò una mano alla tempia, un gesto dettato più
dal nervosismo che da un reale dolore: oltre a fargli domande strane, dietro lo
sguardo di Liam si poteva scorgere una luce maniacale estremamente inquietante.
“Sono… Elfo. E Elkie.
Io…” scostò lo sguardo, irritato. Ecke, al suo fianco, non aspettava che un
segno per agire- forse quella poteva essere una soluzione per liberarsi di
quel tizio strano.
Veven sbuffò, tamburellando nervosamente le dita su un
braccio. “Non è esattamente una cosa che
faccio tutti i giorni! Intendo dire, non ho mai guardato se-”
Alhanaliam gli graffiò un braccio con un coltellino,
interrompendolo.
“Male!” E dicendo
ciò fece cadere la lama dentro un’ampolla, fermandosi poi a fissarla
estasiato, ignaro del fatto che se Ecke ancora non gli si era lanciato addosso era
solo perché troppo occupato ad accertarsi che Veven, spavento a parte, stesse
bene. “Bisogna avere sempre una
realistica idea di ciò che si può fare e ciò che non si può fa-”
“Tanto per renderlo
noto,” esclamò Mihel alzando difensivamente le braccia, “io sono un normalissimo purosangue.”
“Oh! Quindi, in
teoria, dovresti essere un esempio della tua razza! Giusto?”
Mihel lo fissò in silenzio, soppesando mentalmente le
proprie chance.
“Quale risposta non
ti porterà a tagliarmi un braccio?”
Liam sorrise, facendogli una linguaccia.
Un ringhio alle loro spalle li riportò alla realtà,
facendogli ricordare con un brivido lungo la schiena che, seduta sulla
panchina, dimenticata da tutti, c’era pure Ko Rah.
Non li degnò di uno sguardo, non alzò nemmeno gli occhi
dallo schermo: semplicemente, tentando di controllarsi e di concentrarsi sul
proprio gioco, alzò leggermente il Wired in modo che tutti e tre potessero
vederlo.
“Sto giocando.”
L’occhio sinistro di Ko Rah ebbe un tic improvviso, unico segno tangibile di
quanto poco mancasse perché esplodesse. “Non
lo vedete che sto giocando?”
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Nota d'Autore: MALEDIZIONE! MALEDIZIONE! MALEDIZIONE!Questo capitolo doveva essere molto più lungo. In questo capitolo la storia doveva entrare nel vivo, il torneo sarebbe finalmente cominciato, avremmo scoperto il titolo dato a Ko Rah e Al Aki...
Ma era troppo lungo, non riuscivo a continuare e, purtroppo, sono già in ritardo di un mese.
Mi dispiace così tanto.
Vitani: Li ho corretti gli errori che mi hai detto? Mi sembra di sì, ma, ecco, ho una memoria terribile...
Fofolina: Bhè, per quanto riguarda i personaggi spero di averti accontentata!
Mi dispiace davvero tanto, ma fra scuola e... e... bhà. Mi dispiace tanto.