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Autore: Dregova Tencligno    08/10/2014    0 recensioni
Il ricordo delle persone amate è la cosa più importante che si ha, ha il potere di tenerle in vita, anche quando queste non ci sono più. Ma quando cominciano a mancare si inizia a sentirsi privati di un pezzo importante... E' questo quello che sta sperimentando Raph. Ma in un viaggio che lo porterà a rivangare i ricordi più belli e dolorosi, estraendoli dalla sua anima, saprà che nell'ombra la luce non è mai veramente assente e che la sua metà è sempre presente...
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Molte leggende parlano di noi, possiamo essere i sovrani del mondo o solo delle anonime persone che si guadagnano normalmente da vivere, dei villano o degli eroi, ma tutte concordano su un fatto.
I gemelli sono speciali, quasi magici.
Alcune ricerche sono perfino arrivate a dimostrare che siamo collegati tra noi da un filo invisibile che non si spezza mai. Almeno fino a quando non si avvera una clausola che sta nel contratto che abbiamo firmato ancor prima di essere effettivamente in grado di farlo e, per uno strano scherzo del destino, è formulata come quella che recita il prete per unire due persone nel ‘sacro vincolo del matrimonio’: finché Morte non vi separi.
E proprio questa, la Morte, che trama e complotta distruggendo tutti i compromessi che si fanno nella vita, tutti gli affetti. Porta con sé le persone che ti sono più care.
Sono queste le riflessioni che faccio passando davanti alla porta della tua camera, ormai eternamente chiusa. O, almeno, alcune persone sperano sia così.
Ti ricordi nostra madre e nostro padre? Quella donna solare col naso sempre rosso e che occhi brillanti, pieni di allegria e quell’uomo che ogni volta che tornava dal lavoro ci portava in giro per la casa come se fossimo noi gli astronauti e lui la navicella? Ecco, prendi queste immagini e buttale nel cestino.
Adesso i nostri genitori sono questi due signori invecchiati precedendo il pennello del tempo.
La donna con i capelli grigi, non più neri come l’oblio di cui avevamo paura quando ogni luce era spenta, con le rughe profonde intorno agli occhi, la pelle non più rosa e liscia ma grigiastra e ruvida; quella seduta sula sedia ad osservare il monotono paesaggio dietro la finestra sporca, la stessa che adesso scambio per una parte di muro e che un tempo mi permetteva di vederti tornare a casa. Lei è nostra madre.
L’uomo che è seduto alla scrivania, immerso in un mare di scartoffie sporcate dal nero di penne e giallo di evidenziatori, lo stesso che aveva i capelli di un rosso simile a quello del fuoco e gli occhi verdi come le foglie degli alberi in primavera e che adesso ha i capelli sempre disordinati con un inizio di calvizie e gli occhi spenti. L’uomo con i vestiti tutti spiegazzati è nostro padre.
Ti ho presentato i nostri nuovi genitori. Lo so, non hanno più niente del passato, persino la loro voglia di vivere sembra essersi attenuata.
Questi sono gli spaventapasseri che sperano di non essere assaliti dal tuo pungente ricordo, rinchiudendo quello che eri stato in una stanza con le tapparelle abbassate e le finestre chiuse.
Ma non sono costretto a seguire ciò che a me non sembra giusto, neanche lontanamente accettabile.
Ho ancora la copia della chiave che i nostri genitori ci fecero quando eravamo bambini e avevamo paura di rimanere soli in casa. Ci rinchiudevamo nella nostra fortezza.
Ogni volta che apro quella porta, con ancora inciso il tuo nome che si interseca col mio, mi sembra di poter rivedere noi due piccoli che giocavamo con i pupazzetti dei supereroi.
Tu con il tu Iron Man e io con Colosso. Mi ripetevi che se continuavo ad usare quel personaggio non sarei mai riuscito a battere il tuo. E io continuavo a dirti che la pelle di acciaio l’avrebbe protetto dalle tue armi, avresti dovuto essere tu a preoccuparti della salute del tuo eroe.
Il mio era di acciaio vivo, mentre il tuo, al suo interno, era un semplice umano.
Tolta l’armatura era indifeso.
Alla fine il punto debole del tuo eroe si è rivelato anche il tuo.
Dietro la facciata dura si nascondeva un bambino , poi un ragazzo comunque fragile.
Mi sono sempre fermato davanti al tuo letto, a pensare alle volte in cui avevi la febbre, molto più spesso di me. Ma eri il più forte fra i due.
Pronto sempre a consolare gli altri e mai te stesso. Così solare e spensierato.
Sai, dopo tanti giorni, proprio oggi ho spinto il mio coraggio a farmi fare una cosa che i nostri genitori non hanno mai voluto fare. Ho sistemato il tuo letto.
Sarai sorpreso. Mi ripetevi sempre che la mia camera era la vera e propria rappresentazione di un campo di battaglia dove persino i vincitori erano stati battuti dalle montagne di calze e vestiti sparsi in giro. Alcuni sulle sedie, altri sul pianoforte e altri ancora sulla scrivania.
Mi prendevi in giro che almeno l’armadio era occupato. Era vuoto.
Non ho avuto il coraggio di cambiare le coperte, mi ricordano troppo te. Mi è sembrato persino di poter scorgere sul materasso la forma del tuo corpo.
Mentre muovevo i vari strati che ti proteggevano la notte sentivo il tuo odore. Mi sono sorpreso di come ci si attacchi a qualsiasi cosa per sentire vicina una persona che non è più accanto a noi.
Prendo in mano il cuscino per togliere la forma del tuo capo. Sento che è freddo, non più tiepido come quando, a quattro anni, dormivamo nello stesso letto nelle notti temporalesche. Ha delle macchie rosse, non hanno più quel colore ma presumo che una volta sia stato quello.
Mi e familiare. Lo guardo meglio. Non posso fare a meno che sorridere.
È il sangue che ti era caduto dal naso, risalente al primo giorno di liceo; non ero mai stato forte quanto te, e forse rappresentava il mio punto debole. Come il mio cuore.
Passo le dita su quelle macchie, mi sembra strano che siano sopravvissute agli innumerevoli lavaggi in lavatrice e all’azione degli sbiancanti e detersivi vari.
Non avevo mai avuto il coraggio di rispondere a chi mi metteva i piedi in testa e riuscivo sempre a trovare una parola buona per tutti, anche per chi non se lo meritava.
Tu mi dicevo che ero stupido. Che avrei dovuto reagire.
E io che un giorno lo avrei fatto.
Con queste frasi, con una promessa in cui non credevo minimamente, arrivammo a quel momento e ti presi un pugno sul naso al posto mio.
Arrivati a casa non volesti dire niente a mamma e a papà, mi dicesti che eravamo grandi e avremmo potuto risolvere tutto da soli.
Ricordo di aver cercato di tamponare quanto più possibile il naso. Non voleva smettere di sanguinare; e solo dopo quelle che mi parvero ore, invece solo minuti, il sangue si fermò.
Buttai a terra la stoffa sporca del tuo sangue, la fodera di un cuscino, e osservai il tuo naso. Non sembrava essere rotto, ma era gonfio e non volevo correre rischi. Così cercai in tutti i modi di convincerti che sarebbe stato meglio dire tutto ai nostri genitori.
Mi ricordo ancora cosa hai fatto.
Mi mettesti le mani sulle spalle e le stringesti; pensavo che, se io non avessi fatto nulla, me le avresti stritolate. Mi guardasti negli occhi e mi dicesti che noi eravamo gemelli e avremmo fatto tutto insieme nella vita, tutto avremmo potuto, persino dominare il mondo. E sorrisi. Uno degli ultimi.
Non ne ero convinto, ma decisi di fidarmi dell’unica persona che mi era stata letteralmente accanto dalla nascita.
Mi siedo sul tuo letto tutto sistemato. Sulla scrivania ho trovato il pupazzo con cui giocavi, con il quale pensavi di essere più forte. Lo metto sul cuscino con le macchie di sangue.
Mi viene in mente che il mio Colosso non l’ho mai conservato insieme alle altre cose che non uso più. È nel secondo cassetto del comodino, sotto le poche canottiere e maglie intime che sono al loro posto.
Ho quasi voglia di correre a prenderlo e di cacciare fuori dalla scatola, sotto il letto, il lenzuolo che usavo come mantello quando dovevamo mettere in scena le nostre epiche battaglie.
Ma non potranno mai riessere messe in scena, giusto? Il tempo non potrà mai tornare indietro, ripercorrere i propri passi per riavere una vita che non ci appartiene più.
Mi guardo intorno. Tutto è ancora come lo hai lasciato.
Forse solo per il tuo microcosmo, la tua camera, il tempo non è passato, ma per gli altri…
Gli altri, quelli che ormai non pronunciano più il tuo nome, quelli che fanno finta di essersi scordati di te. Come se tu potessi mai fare parte di una storia di cui si sono annoiati.
Ma questo è quello che può accadere a chi non può essere più abbracciato. lentamente le immagini si affievoliscono per diventare eterei ed effimeri ricordi di cui non si conosce più l’appartenenza. Realtà, sogno o un’altra faccia della realtà?
La tristezza che li aveva avvolti all’inizio era solo una facciata. Potevano anche aver provato qualcosa per te, ma non con sincerità.
L’unica che ancora vive con la speranza di poterti riabbracciare e quella ragazza bionda dagli occhi di un azzurro più intenso di quello del mare. Percorre sempre la strada che passa davanti a casa nostra. Anche se lei abita dall’altra parte della città e non alla stessa scuola dove andavamo noi… ma non si è dimenticata.
Anche lei ha pianto lacrime di sangue… però pure lei si dimenticherà di te. Sarai solo un ricordo che le solleticherà il cervello, mai abbastanza forte da farle ritornare in mente la forma del tuo viso, il colore degli occhi quando ridevi e il suono della tua risata, ma neanche abbastanza flebile da non disturbare i suoi sonni.
Tutto finisce col ricordarmi di te.
La colazione mattutina del sabato e della domenica, i giorni in cui eravamo liberi dall’obbligo della scuola.
Ti ricordi? Era il mio compito preparare il latte e le cialde, tutto per quattro. E lo è ancora adesso. Sbaglio sempre le porzioni, riempiendo una tazza che non dovrebbe più ospitare il tè, perché eri intollerante al lattosio. Vero?
Nonostante i miei sforzi, pure io ho incominciato ad aver bisogno di più conferme e di meno ricordi.
Ancora adesso attendo il mio turno di andare in bagno la mattina, mi aspetto sempre di sentire il suono della doccia e della tua voce melodiosamente stonata che improvvisa le note della tua canzone preferita. I can fly.
Forse… ora puoi.
Mi fa male aspettare qualcosa che non potrà mai accadere, sorprendermi i non percepire più le cose che per me erano la routine.
Le ore passate dietro la porta del bagno a pregarti di uscire perché in casa non c’eri solo tu, le prediche che borbottavi quando riscaldavo troppo l’acqua per il tè e a te piaceva tiepida, quando mi aiutavi a sistemare la camera per i periodi festivi.
Mi mancano i litigi per l’ultima patatina nel pacco, l’ultima porzione di tacchino nel piatto e per i turni per il telecomando.
Eravamo grandi, ma ci comportavamo che se fossimo piccoli.
Sul comodino c’è la foto delle nostre vacanze a Barcellona.
Appena maggiorenni e già in giro per il mondo con la folle pretesa di fare la differenza. Ci sentivamo invincibili.
Come ci divertimmo. Miro e rimiro la foto per catturare il più possibile da quel pezzo di carta plasticato e inanimato qualcosa di te.
Non mi giunge niente, anzi, mi faccio ancora del male.
Vedo il tuo sorriso mentre, in costume da bagno, un ridicolo costume che raffigura un’isola tropicale, ci facevamo fare una foto da un passante che di inglese non conosceva nulla e noi niente di spagnolo. Fummo costretti a comunicare con i gesti, sperando di far capire la cosa giusta.
Ogni cosa mi fa male, ma quei pugnali che mi circondano sono gli unici in grado di farmi ricordare come eri. Se è questo il prezzo da pagare, sono pronto.
Faccio un profondo respiro con la bocca. Sto per piangere, ogni volta mi sembra di aver perso un particolare.
Il colmo è che vedo sempre le tue foto e i filmati che i nostri genitori ci fecero fino a quel giorno. L’ultimo risale proprio a quel giorno.
Tutte le foto sono sparite dai muri della nostra casa. Volevano cercare di dimenticare il proprio figlio, ma non sarebbero mai riusciti a farlo con lo specchi che si ritrovavano davanti in ogni momento della giornata, solo con un nome differente.
Anche se non eravamo proprio uguali.
Tu con gli occhi azzurri e io color ambra. L’unica cosa che ci rendeva differenti, un particolare che ci univa ancora di più.
Tra di noi non c’era un primo o un secondo, ma solo un grande ed immenso NOI.
Un NOI scritto a caratteri cubitali nel nostro primo compito in classe, quando ci chiesero di descrivere la nostra famiglia.
Rido ancora di fronte a un ricordo amaro. La maggior parte del nostro tema parlava di noi, tutti e due avevamo descritto l’altro.
La maestra si preoccupò tantissimo, pensò fossimo stati adottati dai nostri stessi genitori biologici. Ma lei non poteva capire, nessuno poteva.
Siamo stati uniti fino alla fine.
Sento dei rumori al piano di sotto.
Ah, non te l’ho ancora raccontato. Mi sono fidanzato.
E già… anche se ci consideravamo allo stesso piano sapevamo entrambi che tu eri un po’ più avanti a me.
È la stessa ragazza che facevo in modo di incontrare alla libreria in fondo alla strada. Proprio la figlia del libraio, quel signore acido e piegato su se stesso che ci rubava sempre la palla. Per te era come una sconfitta, per me una liberazione.
Eravamo diversi e complementari.
Tu sempre fissato con lo sport e con i motori, il campione di hockey della squadra del liceo. Io il giovane musicista e lettore che capiva molto più delle materie scolastiche e poco degli schemi tattici.
Ma mi mancano le serate in camera tua. Quando ci mettevamo a fantasticare e a scrivere storie. Non per farle pubblicare in cerca della gloria, ma solo perché era il nostro momento, un momento durante il quale potevamo veramente essere un’unica persona.
Potevamo uscire insieme ogni sera, io a fare la candela e tu con la tua ragazza, ma alla fine a fare da candela era proprio Angela.
Angela di nome, ma arpia di fatto. Non riusciva proprio a comprendere che per noi il legame di fratellanza e l’amicizia erano le cose più importanti. Se lei non accettava la nostra filosofia se ne poteva anche andare, le stesse parole che mi dissi quando decisi di rimanere a casa perché alla tua ragazza dava fastidio la mia presenza.
Kate invece è differente, penso proprio che l’avresti adorata.
La incontrai dopo averti salutato per l’ultima volta. Fu con lei che riuscii a sfogarmi. Tutti i nostri amici mi avevano abbandonato, ero solo e non volevo più fidarmi di nessuno.
Ma lei riuscì a fare una breccia che ha fatto crollare il muro che mi ero costruito attorno.
Perderti era stato un duro colpo, e lei lo capì. Mi disse che per nessuna ragione al mondo avrei dovuto di considerarti come un brutto ricordo, ma una dolce cicatrice che ha lasciato il segno. Una cosa da poter guardare per non perdere di vista quello che sono io.
Ho persino iniziato a capire come mai suo padre fosse così sgradevole con gli altri. Aveva fatto quello che hanno fatto i nostri genitori con te.
Ha represso i ricordi di sua moglie e così ha finito per inaridirsi, ma Kate ancora riesce a sperare che un giorno si potranno rincontrare.
Sinceramente, sono molto scettico su questo.
Tu lo sai meglio di me. Tra i due quello che ogni domenica andava in chiesa e che aveva una sincera fede eri tu. Io ero concorde solo con la parte sociale della religione.
Ma adesso vorrei aver avuto la tua stessa fede. Anche per poter dare un po’ di vita ai nostri genitori.
Questo però non è possibile, sta a loro decidere se svegliarsi dal sonno in cui sono persi. Io posso solo restare ad osservare lo scempio che fanno della loro anima.
Passo la mano sopra il copriletto.
Chissà come sarebbe stato se fosse accaduto l’incontrario.
Sicuramente tu avresti reagito in modo differente, avresti avuto il coraggio di spronare i nostri genitori a continuare a vivere… anche se il dolore sarebbe rimasto la mia perdita non li avrebbe rinchiusi in un limbo che aveva la forma del labirinto di Dedalo.
Un labirinto senza uscite, eternamente seguiti di Asterione. Non il mostro, ma l’unico che avrebbe potuto far scorgere loro la bellezza delle stelle che governano il cielo.
Ma scommetto che, al limite delle loro forze, avrebbero fatto come Teseo. Una pugnalata e avrebbero potuto vivere in pace nella loro disperazione.
Il mostro salvatore… per te castigatore, nonostante non avessi fatto nulla per meritarlo.
Così iniziò a portarti via, all’inizio lentamente, invisibile ai nostri occhi, e poi si presentò alle porte del tuo cuore con furia omicida spezzando le tue forze, tagliando il filo che Cloto filava.
Quel giorno è ancora vivido col suo terrore dentro la mia mente.
L’ultimo mio saggio.
La melodia aleggiava sul pubblico che era come ammaliato. L’incantesimo era riuscito; tutti con il fiato sospeso aspettavano il momento per poter finalmente tornare a respirare e fare gli applausi che ci eravamo meritati.
Sì, CI. Perché era grazie a te se stavo suonando quella canzone che mi aveva dannato sin dall’inizio, ma tu mi avevi spinto a provarci. Tanto non avevo nulla da perdere.
Ed eccomi lì, sul palcoscenico vestito con uno smoking, ma senza cravatta e con le scarpe da ginnastica nere.
Una fitta dietro la nuca, il fiato che si spezza, la melodia che si affievolisce in un suono glaciale e stridulo.
Dalla platea si alzò un sospiro di delusione e a bassa voce diedero aria alle loro considerazioni, ma non mi importava. Avevo percepito una mancanza, un vuoto che si stava facendo largo in me e che persino la musica non era sta in grado di sovrastare.
Ho un flash, te in ospedale.
Chiamai mia madre, non rispose, di solito era sempre pronta con il cellulare nella borsetta o in mano per un’eventuale chiamata. Non ne aveva mai mancata una, ma questo lo sai.
Era il turno di mio padre, avevo una bruttissima sensazione, la bocca dello stomaco chiuso e la testa che mi girava.
Rispose e gli chiesi come stavi. Dilungò il discorso dicendo che ti dovevano fare degli esami ma sapevo che stava nascondendo qualcosa. Una cosa che stava facendo piangere mia madre.
Il panico si diramò direttamente dal mio cuore. Probabilmente ero diventato bianco come… come… un morto…
Alexia mi chiese cosa avevo e la pregai di accompagnarmi in ospedale perché dovevo vederti.
Forse pensava che la tristezza che mi faceva lacrimare gli occhi fosse legata al finale andato male del mio saggio. Cercò di consolarmi, non mi dovevo preoccupare di quello che la gente poteva pensare. Molti di quelli che erano venuti a sentirmi erano i genitori degli altri allievi. Non capivano nulla di musica.
Questa frase mi fece stare meglio. Non per il motivo per cui era stata pronunciata, ma perché erano le solite parole che mi dicevi.
Quando arrivai in ospedale l’odore di alcol e medicinali mi diede alla testa; non ebbi bisogno di chiedere dove ti avessero portato, lasciai che fossero i miei piedi a guidarmi, non la testa che era persa in mute preghiere nelle quali non credevo.
Presi l’ascensore e sbattei ripetutamente i pugni sulle pareti di metallo mentre la macchina mi portava in alto. Lei non provava la paura, l’angoscia, la rabbia…
Si aprirono le porte e corsi per i corridoi scivolando qualche volta sul pavimento liscio finendo a terra, ma nessuno si preoccupava di me.
Vidi da lontano nostra madre seduta su una sedia, i gomiti sulle ginocchia e il volto perso nelle mani. Nostro padre seduto per terra con la testa tra le ginocchia e le spalle che si muovevano in preda ai singhiozzi.
No, non poteva essere…
I passi tremanti produssero il rumore di ossa rotta che attirarono l’attenzioni dei nostri genitori che mi corsero incontro cercando di bloccarmi.
Mi districai da quelle dita che mi rallentavano, la finestra sulla tua camera era a pochi passi da me.
Mi tolsi la giaccia lasciandoli confusi mentre stringevano un pezzo di stoffa, gli occhi rossi di pianto.
Irruppi nella stanza bianca e asettica, l’infermiere al tuo fianco si spaventò. Due suoi colleghi cercarono di farmi uscire prendendomi di peso, ma, per la prima volta, reagii mordendo e graffiando quello che avevo a tiro.
Mi lasciarono e io lasciai loro.
Eccomi. Al tuo fianco.
Ti presi la mano, il petto non si alzava e non si abbassava. La tua pelle era bianca e fredda, i tuoi occhi velati e una lacrima ti stava scorrendo sul viso.
La canottiera lacerata… avevano cercato di rianimarti.
I suoni, la mia vita avevano avuto la pietà di abbandonarmi per quei momenti interminabili e orribili.
Ti strinsi a me, non volevo lasciarti andare, ma non ti muovevi, non respiravi e non c’eri più a consolarmi come facevi sempre.
Eri andato via e io non ero pronto a lasciarti andare.
Kate mi sta aspettando di sotto, mi ha convinto ad accompagnarla a visitare il nostro posto… anche se non ci sei più è ancora lì che vado quando sono triste.
Un posto, come questa camera, dove mi è ancora concesso sentirti con me.
Mi alzo dal tuo letto.
Un rumore sordo si propaga come un’onda da sotto il tuo letto.
Mi inginocchio. Distesa sul pavimento c’è una busta. Porta il mio nome, scritto con la tua calligrafia ordinata e sottile.
 
X Raph
 
Ha una forma squadrata, dentro c’è un CD. Lo caccio e cade un foglietto con l’elenco delle canzoni che mi piacciono di più, le uniche che sono mai riuscito ad apprezzare.
Ho una stretta al cuore nel vedere che, anche se non condividevi i miei gusti musicali, avevi fatto una cosa del genere per me.
Leggo la lista da cima a fondo fino a incontrare la tua firma.
Un nome inciso fino a questo momento solo sulla porta della tua camera.
 
Angel
 
Rimetto tutto dentro la busta.
Sarei andato nel nostro posto con una cosa che appartiene a tutti e due.
Chiudo la porta della camera alle mie spalle e con la coda dell’occhio vedo per una frazione di secondo la pila dei nostri racconti sulla tua scrivania.
Mi sembra di sentire la tua voce: ‘Non te la fare scappare…’
Le persone non se ne vanno mai per sempre, permettiamo che accada solo se ci dimentichiamo quanto siano state importanti per noi. Basta un ricordo, una sensazione, un odore per farcele sentire accanto.
Una folata d’aria esce dalla tua camera e le corde del volino suonano da sole la nostra canzone, l’armonia celata agli altri tranne che a noi. Il tuo violino posato su una sedia con accanto l’ultima registrazione che ci vedeva insieme. In un solo corpo durante il mio saggio.
Preferisco non seguire l’esempio degli altri dicendoti addio.
Quindi, ciao Angel… arrivederci.
 
 
Spero vi sia piaciuto :) Vi prego di recensire, anche quelle negative saranno ben accette. Grazie.
   
 
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