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Autore: nevermore997    08/10/2014    4 recensioni
Vittoria Baudelaire è una Calfornia Girl a tutti gli effetti: snob, piuttosto antipatica ed abituata a vivere tra tutti gli agi e tutte le comodità. Per lei la decisione dei suoi genitori di trasferirsi da San Francisco a Foggy Hollow, desolante e gelida cittadina dello sperduto Wyoming, è una vera e propria doccia fredda. Senza volerlo si ritroverà catapultata in una vita completamente diversa da quella a cui è abituata, circondata da nuovi bizzarri amici, troppa neve per i suoi gusti, pianisti misteriosi e le mura di una casa inquietante che cela un terribile mistero.
La storia di una sedicenne in un mare di guai che si ritrova costretta ad adattarsi, a dimostrarsi coraggiosa, ad agire e anche a cambiare. Se in meglio o in peggio, lo scoprirete solo leggendo.
Questa storia è un esperimento, uno sporadico tentativo di fondere assieme due generi che nulla hanno a che vedere tra di loro: l’horror e il comico. Nella speranza che questo strano miscuglio vi incuriosisca, vi auguro buona lettura.
Genere: Comico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 6
Nudisti e pianisti
 
In quel momento io ed Owen avevamo ben più che un problema. Dovevamo riuscire a tornare al villaggio percorrendo una ripidissima discesa nel bel mezzo di una bufera, possibilmente arrivando a destinazione con tutti gli arti ancora attaccati al corpo. Dovevamo liberare la mia casa da un inquietante pianista che girava con una mannaia in tasca. Dovevamo dare un significato al criptico messaggio di un gobbo bipolare. Decisamente, avevo avuto giorni migliori.
Con Owen ancora appeso alla mia mano, cercai disperatamente di connettere i neuroni superstiti del mio cervello e di farmi venire un’idea intelligente, ma ero talmente frastornata che non riuscivo a pensare. Fu come se tutti gli eventi di quella settimana mi piombassero sulle spalle solo in quel momento ed improvvisamente mi facessero sentire piccola, appesantita, impotente.  Un violento strattone al braccio mi riscosse da quel torpore.
«Vittoria, dobbiamo andarcene di qui!»
Guardai Owen ed ebbi per un istante un brivido di paura al pensiero di aver coinvolto anche lui in tutto quell’enorme pasticcio.
Avanzammo mano nella mano a ritroso giù per il pendio, tra la neve gelida ed il vento potentissimo che avevano tutta l’aria di averci dichiarato guerra. A volte inciampavamo, oppure la forza della tormenta ci sbilanciava e cadevamo carponi nella neve fresca, congelandoci ancor di più mani, piedi e gambe. In quei momenti trovare la forza di tirarsi in piedi era una vera e propria benedizione. Quando sbucammo finalmente dietro alla bottega del fornaio avevo le punte dei capelli gelate, mani e piedi ridotti a due immobili blocchi di ghiaccio e la sensazione che quel vento mi avesse congelato fin sotto la pelle, arrivando alle articolazioni e rendendomi ogni movimento difficile e meccanico. Avevo le gambe che andavano da sole quando, seguendo Owen, iniziai a correre a perdifiato verso “l’allegro somelier”. Una volta raggiuntolo ci precipitammo dentro, trafelati e bagnati fino al midollo, tanto sconvolti che all’anziana proprietaria per poco non venne un infarto.
«Oh, cielo, bambini! Cosa vi è capitato?! Venite dentro, presto, presto! Sedetevi qui, prendete delle coperte, dovete assolutamente fare un bagno caldo!»
Solo in quel momento mi accorsi che eravamo ancora mano nella mano, immobili e stralunati, come coniglietti in mezzo alla strada accecati dai fanali di un’auto. Mentre la signora si affannava attorno a noi alla ricerca di qualcosa con cui scaldarci, riuscii a stento a mormorare una frase sconnessa.
«Noi… noi dobbiamo prendere il treno… per tornare a Foggy Hollow…»
«Tesoro, il servizio ferroviario è bloccato a causa della tormenta. Temo che dovrete passare la notte qui.»
«Ma…», balbettai, confusa. «Mia madre non lo sa, e poi non abbiamo soldi!»
La donna mi guardò negli occhi.
«Non mi dovete nulla. L’importante è che siate al sicuro. Di là c’è un telefono, puoi usarlo per avvertire la tua famiglia.»
Chiamare mia madre in quel momento fu una delle imprese più titaniche che avessi mai compiuto in vita mia. Non appena capì che dall’altra parte della cornetta c’ero io iniziò ad urlare talmente forte che la sua voce in un battibaleno sforò gli 800 decibel per poi trasformarsi in ultrasuoni. Era furiosa per circa un milione di motivi, ma ero talmente stanca, intirizzita e spaventata che non riuscivo nemmeno a concentrarmi su quello che diceva. Me ne stavo semplicemente lì, a lasciarmi travolgere dalle sue urla omicide. Forse fu proprio questo a farle decidere, infine, che era il caso di calmarsi. Solitamente, per farmi stare zitta occorreva o imbavagliarmi o sedarmi (ed uno di questi sistemi, come ben sappiamo, lo aveva già messo in pratica). Mi accordò il permesso di dormire alla locanda con un tono di voce relativamente normale, mi raccomandò di ringraziare la proprietaria e mi attaccò il telefono in faccia.
Tornai da Owen e dalla nostra gentile ospite (che si era presentata come Molly O’Malley) e quest’ultima ci condusse su per le scale, al piano superiore, dove c’erano le camere. Aprì la porta della prima e ci fece cenno di entrare. Era una stanza piccola, con due letti singoli ed un bagno privato, dipinta di un discutibile color verde pistacchio e dall’arredamento di dubbio gusto, e tuttavia in quel momento mi sembrò una reggia paradisiaca. Miss O’Malley ci lasciò soli ed Owen, molto galantemente, mi concesse di farmi la doccia per prima, a patto che promettessi di non impiegare tre ore per  “spalmarmi creme ed arricciarmi i capelli”. Decisi di risparmiargli la lezione sul genere femminile ed il sacro rituale della doccia e mi limitai a rispondere con una smorfia, prima di rintanarmi in bagno.
Il getto bollente fu rigenerante. Fu come se tutte le mie preoccupazioni scivolassero via assieme all’acqua calda, lasciandomi qualche istante di tranquillità, pace e silenzio. La bella sensazione però ci mise ben poco a sparire, dal momento che già appena uscita dalla doccia mi accorsi di una cosa: non avevo vestiti asciutti e quell’albergo non offriva accappatoi. C’erano solo un paio di asciugamani di spugna striminziti che mi coprivano a malapena le cosce. Mi guardai attorno alla disperata ricerca di qualunque cosa potesse accorrere in mio aiuto, ma in quella stanzetta minuscola, a parte un water, una doccia ed un lavandino, non c’era assolutamente nulla. Ponderai per qualche istante l’idea di mummificarmi l’intero corpo con la carta igienica, ma alla fine decisi che lo spreco sarebbe stato eccessivo e che dovevo trovare un’altra soluzione.
«Owen?», chiamai, con tono esitante, socchiudendo appena la porta e stringendomi bene addosso il telo di spugna.
«Che c’è?»
«Potresti chiudere gli occhi ed infilare la testa sotto il cuscino finché te lo dico io?», azzardai.
D’accordo, non era esattamente il piano più geniale che avessi mai avuto, ma non mi veniva in mente nient’altro. Ci fu qualche istante di silenzio.
«…perché?»
«Chiudi il becco e fallo e basta!»
Si sentirono diversi sbuffi esasperati.
«Va bene, va bene… ecco fatto.»
Presi un respiro e mi sistemai accuratamente un asciugamano a mo’ di turbante sui capelli gocciolanti. Controllai per l’ennesima volta che più centimetri possibile del mio corpo fossero coperti e poi spalancai la porta.
Non appena fui fuori dal bagno constatai esterrefatta che Owen non era affatto barricato sotto il cuscino come promesso, bensì in piedi accanto al letto, con braccia incrociate, un sopracciglio aggrottato in un’espressione scettica e, quel che è peggio, gli occhi decisamente aperti e puntati su di me.
«Ti avevo detto di non guardare!», strillai, arrossendo impietosamente e schizzando il più in fretta possibile nel mio letto, sotto le coperte. Lì mi tirai il lenzuolo fin sopra al naso, lasciando fuori solo gli occhi, necessari per fulminare Owen con un arsenale di sguardi dardeggianti.
«Oh, Vittoria, quanto la fai lunga, da come me lo hai chiesto credevo fossi nuda come un verme.»
In tutta risposta gli tirai dietro il mio cuscino e lui scoppiò a ridere.
«Vai a farti la doccia e lasciami in pace!»
Con un ultimo ghigno sparì in bagno ed io potei finalmente rilassarmi. Mentre lui si lavava (interrompendosi di tanto in tanto per gridarmi superflue ed inconsistenti lamentele come «Vittoria, che schifo, hai lasciato sul pavimento della doccia un tappeto di capelli!», «come sei riuscita a finire una boccetta di bagnoschiuma da sola?!» e simili) ripensai a quello che  era successo da Toby Carmichael, al modo in cui mi era parso che volesse veramente aiutarmi, dirmi la verità, ma una paura più grande della forza di volontà glielo impedisse. E poi, quella frase sulla finestra. Clair de Lune. Non riuscivo a capire che senso avesse. Forse, pensai, poteva riferirsi al fatto che il misterioso pianista suonava solo di notte, ma mi sembrò forzata come motivazione, senza contare che era una cosa che già sapevo.
«A cosa stai pensando?»
La voce di Owen interruppe il filo dei miei ragionamenti. Era uscito dal bagno in una nuvola di vapore e notai con mio sommo disappunto che aveva un asciugamano legato attorno alla vita e nient’altro.
«Owen!», protestai, serrando forte le palpebre e coprendomi anche la faccia con le mani, per rincarare la dose.
«Come sei schizzinosa.»
«Possibile che ti piaccia così tanto andare in giro nudo?!»
«Si, in effetti si.»
Sbuffai rumorosamente, ma mi arresi all’evidenza che dovevo quantomeno aprire gli occhi. Owen si stava sistemando nel suo letto, che era a un metro dal mio, con la massima tranquillità. Infilò le gambe sotto le coperte e si appoggiò allo schienale, mentre si frizionava in malo modo i capelli rossi con un asciugamano per i piedi (avevo provveduto personalmente ad usare tutti gli altri teli di dimensioni decenti). Mi colpì quanto sembrasse pacato, a suo agio. Aveva un fare tranquillo, i muscoli delle braccia e del torace rilassati. Accorgendosi che lo guardavo, mi rivolse un sorriso interrogativo.
«Che c’è?»
«Oh..! Niente, io volevo… insomma, parlare, ecco.»
In realtà stavo semplicemente rimirando il suo busto, ma avevo la sensazione che ammetterlo non sarebbe stato troppo lusinghiero. Lui mi rivolse uno di quei suoi sorrisetti di chi la sa lunga, come se con quella sua odiosa perspicacia avesse già colto tutto l’implicito. Si girò su un fianco, verso di me, sorreggendosi la testa con una mano.
«Ti ascolto», mi disse.
«Secondo te cosa significa il messaggio di Toby?»
Sospirò, frustrato.
«Ci ho pensato e ripensato. Non ne ho la più pallida idea. Non so cosa possa avere a che fare quella frase con Avary Manor e se anche lo sapessi dubito che risolverebbe i nostri problemi.»
Apprezzai che li avesse definiti “nostri” e non soltanto miei. Faceva piacere sapere di avere qualcuno con cui condividere quel gigantesco peso sulle spalle.
«Sono contenta di avere una scusa per passare un’altra notte lontana da casa.»
Owen annuì, comprensivo.
«Dovresti trascorrerla dormendo. Hai una faccia sconvolta.»
Sospirai, consapevole del fatto che doveva essere proprio vero. Prima mi ero guardata allo specchio e quasi non mi ero riconosciuta da tanto sembravo stanca ed affaticata. Dopo esserci augurati la buonanotte spegnemmo le luci e ci accoccolammo ognuno nel proprio letto, in silenzio. Mi accorsi solo in quel momento di quanto sonno avessi. Prima di abbandonarmi tra le braccia di Morfeo, mormorai qualche parola.
«Grazie, Owen.»
«Per che cosa?»
«Chiudi il becco. Accetta i ringraziamenti e basta.»
Anche se non potevo vederlo, ero certa che in quel momento stesse sorridendo.
«Oh, va bene allora. Grazie a te Vittoria.»
«Per che cos…»
«Chiudi il becco.»
 
Quando, il mattino dopo, mi svegliai ai primi raggi di sole, mi maledissi per aver dimenticato, la sera prima, di chiudere le persiane. Dalle finestre entrava una tenue luce che mi batteva dritta in faccia. Infastidita, mi girai verso Owen, ma mi accorsi che il principino dormiva ancora come un sasso. Approfittai del momento per precipitarmi in bagno e recuperare i miei indumenti, ormai asciutti. Solo una volta vestita di tutto punto mi arrischiai ad avvicinarmi al letto di Rosso Malpelo.
«Owen…», sussurrai.
Niente.
«Owen!», tuonai, a voce altissima.
Un lieve russare come risposta.
Essendo la mia (pressoché inesistente) pazienza già abbondantemente esaurita, decisi di passare alle maniere forti. Ricordando quanto era stato efficace il mattino precedente, optai per un poderoso strattone alla coperta a scopo di far ruzzolare rovinosamente la mia vittima sul pavimento. Quella parte del piano, in effetti, funzionò esattamente come ricordavo. Quello che invece non ricordavo era che Owen, la sera prima, esattamente come me era andato a dormire con addosso nient’altro che un asciugamano, il quale evidentemente doveva essersi slacciato dai suoi fianchi durante la notte. Restai a guardarlo con occhi e bocca spalancati dalla sorpresa per un istante di troppo, mentre lui, completamente nudo, si contorceva sul pavimento dal dolore.
«Aiuto… ahi! Vittoria, ma che fai?»
Non appena realizzai veramente che cosa era appena successo feci un salto all’indietro degno di uno stambecco, ma inciampai nelle coperte. Non essendo io particolarmente nota per il mio equilibrio, lo persi immediatamente e precipitai a mia volta, con la differenza che lo feci dritta addosso ad Owen.
Ci furono una decina di orribili secondi dove io, a faccia in giù col naso sprofondato nel petto di lui, metabolizzavo gli orribili dettagli della mia umiliante ultima performance, mentre Owen, da parte sua, si limitava a tenere le braccia spalancate alla “mi arrendo” e non fare assolutamente niente per migliorare la situazione.
Non appena ebbi accettato il fatto che quanto era appena successo non era solo un brutto sogno bensì la mia imbarazzante ed assurda vita, schizzai in piedi gridando come un’ossessa.
«Ah! Scusa, scusa, scusa, non l’ho fatto apposta, oh cielo, mi dispiace tantissimo!», farfugliai con un ritmo di ottocento parole al minuto, girandomi di scatto e coprendomi la faccia con le mani (in realtà, più che per non dover vedere Owen, lo feci per nascondere il colorito paonazzo che la mia carnagione aveva assunto). Lui, a dire il vero, sembrava molto più divertito che non imbarazzato.
«Vittoria, cerca di frenare i tuoi bollenti spiriti, ho capito che impazzisci per me, ma non esagerare con l’impeto!»
Stizzita come non mai, mi girai per assestargli un pugno. Pessima mossa, dal momento che il signor nudista aveva deciso che era il caso di alzarsi proprio in quel momento. Me lo ritrovai davanti, stagliato nel suo metro e novanta di altezza e – neanche a dirlo – senza assolutamente niente addosso.
«Chiudi quella maledetta boccaccia! E vai a vestirti!», gli urlai, con la voce rotta dall’esasperazione e la faccia talmente incandescente che si sarebbe potuto friggerci sopra delle uova. Mentre Owen sghignazzava ignobilmente, mi buttai a peso morto a faccia in giù sul letto, con tutta l’intenzione di lasciarmi lentamente morire dalla vergogna.
 
Lasciammo l’albergo verso le dieci, con la benedizione ed i migliori auguri di Molly O’Malley. Arrivammo in treno a Foggy Hollow verso le undici e non appena misi piede in casa fui travolta dall’ira omicida di mia madre. Credo che la presenza di Owen fu l’unica cosa a trattenerla dal farmi a pezzi e fare uno spezzatino con le mie carni.
Owen avrebbe voluto restare di più a farmi compagnia e a parlare di Toby Carmichael e Clair de Lune, ma sua nonna lo aspettava a casa e perciò dovette andarsene. Ci accordammo per vederci verso le quattro del pomeriggio per andare in biblioteca (che aveva finalmente riaperto) e poi ci salutammo, io senza il coraggio di guardarlo negli occhi, non dimentica della figuraccia di qualche ora prima.
Trascorsi un’oretta tranquilla ad oziare per casa, fino a che non fu pronto il pranzo. Mi sedetti a tavola con mamma e papà, i quali, dovevo concederlo, avevano una qualità: non erano il genere di genitori che serba rancore e tiene il muso per mesi. Quando si arrabbiavano urlavano per una decina di minuti e poi tornavano quelli di sempre. Prova ne era che, quel giorno, a tavola, erano i soliti Bob e Savannah, il che significava principalmente tre cose: irritanti, inopportuni ed impossibili.
«E’ proprio carino quell’Owen, Vittoria, dovreste proprio stare assieme! Magari la sua influenza ti renderebbe un po’ meno antipatica.»
Ci mancò poco che mi strozzassi con l’acqua che stavo bevendo. Iniziai a sbatacchiare la forchetta sul piatto facendo molto più rumore del necessario, nella speranza che mia madre cogliesse l’implicito invito a tapparsi la bocca. Naturalmente, fu inutile.
«Guarda che parlo sul serio. Non lo trovi carino?»
Tentai un altro approccio, quello del silenzio agghiacciante. Nemmeno così si decise a smetterla.
«Beh, a me piace. Va bene, ha un colore di capelli un po’ discutibile, ma degli occhi veramente fantastici. Se i vostri bambini li ereditassero sarebbero deliziosi.»
Aveva davvero detto “bambini”?! Saltai in piedi facendo un gran fracasso.
«Devo andare!»
«E dove, si può sapere?»
«A cercare di assistere ad uno spettacolo talmente traumatico da farmi dimenticare mia madre che pianifica i miei figli!», gridai col tono più tragico di cui fui capace, mentre lasciavo platealmente la stanza. Anche da fuori, la sentii che continuava imperterrita a parlare di Owen assieme a papà.
 
La biblioteca di Foggy Hollow era probabilmente uno dei posti più squallidi in cui fossi mai entrata. Miss Howpkins, una donna ossuta con degli orribili occhiali triangolari in equilibrio sul naso ed un’espressione particolarmente severa, ci guidò con estrema riluttanza nel reparto che conteneva i libri di storia locale, illustrandoci nel frattempo con voce truce le sanguinolente pene che ci attendevano nel caso avessimo rovinato o perso un libro. Io non la ascoltavo. Ero troppo impegnata a guardarmi attorno. L’impressione che dava quel posto era che a Foggy Hollow fossero tutti analfabeti. Ogni volume era ricoperto da due dita di polvere e sembrava che nessuno lo sfogliasse da un’eternità. Ciliegina sulla torta, i libri non erano ordinati secondo il classico e fidato codice Dewey, bensì secondo il personale gusto della bibliotecaria, il che era traducibile con “completamente a caso”. Ero tentata di chiedere chiarimenti facendo sfoggio del più altezzoso dei miei toni da snob californiana, ma un’occhiata alle unghie di Miss Howpkins, che somigliavano più che altro a lunghi artigli acuminati laccati di viola, mi convinse a lasciar perdere. Quando fummo arrivati nella sezione che cercavamo ci fece le ultime raccomandazioni e ci lasciò soli, presumibilmente per andare a mangiare bambini o a mescolare i libri ancora un altro po’.
«Cerca di moderare la tua espressività facciale. Persino un cieco capirebbe che questo posto ti disgusta», mi prese in giro Owen, con il suo mezzo sorriso canzonatorio. Sbuffai, insofferente.
«Non è colpa mia se questo posto sembra gestito da un daltonico che cerca di risolvere il cubo di Rubik», grugnii.
Owen rise, ma venne zittito dal sibilo serpentesco dello “shhhht!” della bibliotecaria, perfettamente udibile anche attraverso le pareti. Mi chiesi perché mai dovessimo fare silenzio, dal momento che quel posto era completamente deserto, ma preferii non arrischiarmi ad esprimere a parole le mie perplessità. Feci cenno ad Owen di abbassare la voce e lui obbedì. Per parlarmi mi si avvicinò molto, chinandosi su di me per arrivare con il viso all’altezza del mio, la qual cosa mi mise addosso una certa agitazione.
«Quindi che cosa dobbiamo cercare?», sussurrò.
Sentivo il suo respiro sul mio orecchio, i ciuffetti di capelli sfiorarmi la tempia, il suo naso che quasi toccava la mia guancia.
«Spostati», balbettai, girandomi di scatto, dal momento che avevo la paura decisamente fondata di essere impietosamente arrossita. «Cerca qualunque cosa riguardi Avary Manor, i fratelli Carmichael, pianisti malefici, insomma, tutto ciò che riguarda le cose che ci sono capitate in questi giorni. Mettiamoci al lavoro, non abbiamo tempo da perdere.»
Così iniziammo a scandagliare gli scaffali, alla minuziosa ricerca di qualunque volume con anche solo una parvenza di utilità. Racimolati libri a sufficienza ci sedevamo al tavolo ed iniziavamo a sfogliare e ricercare. Sprecai le successive due ore della mia vita leggendo resoconti sulla fondazione di Foggy Hollow, curiosità disgustose sul Wyoming e la storia del primo preside della scuola del paese (che, per tutti coloro a cui dovesse interessare, era un vecchio psicopatico zoppo che amava usare il suo bastone più che altro per sollevare le gonne alle signore e dare una sbirciatina sotto). In sintesi, neanche l’ombra di un’informazione utile. Ero sul punto di sbattere i libri sul tavolo en sventolare bandiera bianca, quando Owen ruppe il silenzio con voce vagamente preoccupata.
«Vittoria, vieni a vedere.»
Lo raggiunsi dall’altra parte del tavolo e vidi che stringeva in mano un libriccino manoscritto logoro e stropicciato, che sulla copertina recava scritto “Sebastian Avary” e nient’altro.
«L’ho trovato nascosto tra le pagine di un tomo. Secondo te è lo stesso Avary di casa tua?»
Gli presi il volume dalle mani e lo aprii lentamente, con rispetto quasi religioso. Non aveva più di una dozzina di pagine. Presi un lungo respiro ed iniziai a leggere a mezza voce.
 
«Sebastian Moris Avary (1838 – 1872) è uno dei più straordinari e talentuosi pianisti degli Stati Uniti, apprezzato soprattutto a causa della sua capacità di trasportare nella sua musica i suoi sentimenti, il suo vissuto e ciascuna delle molteplici sfaccettature della sua anima tormentata.»
Non avevo bisogno di ulteriori conferme. Il mio istinto mi assicurava che eravamo a un passo dalla meta. Annuii ad Owen, il quale mi sfiorò la mano con le sue dita lunghe e affusolate per farmi coraggio. Proseguii con la lettura.
«Nato a Cokeville, nella contea di Lincoln, Wyoming, Avary scopre ed inizia a coltivare la passione per la musica fin dalla più tenera età. A dieci anni è in grado di suonare Mozart, Bach e Beethoven come un adulto. A partire dai quattordici anni, appoggiato dai genitori, frequenta con ottimi risultati l’accademia delle belle arti di Afton, dove impara a comporre lui stesso canzoni e riceve le prime convocazioni per suonare a serate di gala, ricevimenti ed eventi di lustro.
I suoi studi vengono bruscamente stroncati dalla perdita di entrambi i genitori in un incidente ferroviario. Avary affronta una vera e propria crisi esistenziale. Abbandona la scuola e si trasferisce nel desolato paesino di Foggy Hollow, dove si da alla vita eremita e compone i suoi primi pezzi originali, soggetti a grandissimo successo soprattutto a causa del ritmo tormentato e della musica struggente, particolarmente amati al tempo.
Parenti, professori ed amici sono convinti all’unanimità che la crisi di Avary sia irreversibile, eppure, inaspettatamente, qualcosa cambia. Il pianista conosce una fanciulla chiamata Luna Reclide che sembra riaccendere i suoi istinti e dare nuovo senso alla sua vita. I due si innamorano perdutamente e la ragazza entra a far parte di tutti gli aspetti della vita di Avary. Come lui, la sua musica rinasce e vive un periodo di singolari gioia, soavità e candore. In questo lasso di tempo il pianista traduce nei suoi pezzi la felicità e l’incondizionato amore provati per Luna, arrivando all’apoteosi dell’idillio quando scrive la sua celeberrima marcia nuziale, che lui stesso suona il giorno del suo matrimonio con la giovane.
La gioia però non è destinata a durare. Al ritorno dal viaggio di nozze Luna contrae una grave malattia del sangue che si preannuncia incurabile. Avary sprofonda nella più totale disperazione. Sta vicino alla moglie e la vede ammalarsi ed indebolirsi sempre di più, mentre al contempo impiega tutte le sue energie nel tentativo di scrivere per lei una canzone. Trascorre ore ed ore seduto al pianoforte a scrivere quel pezzo che gli è inspiegabilmente ostico, dal momento che non riesce a comporre niente in grado di descrivere la sua amata in maniera degna e sufficientemente bella. Tutto questo lo rende sempre più nervoso ed irascibile, tanto che un giorno arriva a perdere le staffe con la stessa Luna e ad infuriarsi con lei, inveendole contro con parole sprezzanti. Alla ragazza ed al suo debole cuore lo spavento è fatale: muore a causa di un infarto sotto gli occhi disperati di Avary, il quale trascorre tutto quel che gli resta da vivere nella convinzione di essere stato lui ad uccidere la moglie.
Diviene ossessionato dal suo stesso componimento. Passa giornate intere al pianoforte a smussare e perfezionare il pezzo per l’amata, dimenticando di mangiare, bere e dormire. Un mese dopo la sua perdita, viene trovato morto di stenti accasciato sulla tastiera, assieme alla sua canzone per Luna, che non ha fatto in tempo a concludere.
Da qui in poi, però, iniziano ad accadere delle macabre stranezze. Tutti coloro che suonano l’incompiuta melodia muoiono a distanza di poco tempo in circostanze misteriose. Lo spartito viene dunque nascosto all’interno della casa, nella speranza che nessuno lo ritrovi mai più. Si dice che all’interno di casa Avary tutti i pianisti, durante la notte, possono ancora sentire le noti agitate della canzone di Luna echeggiare tra le pareti.»
 
Mi sedetti. Non riuscivo a respirare. Era tutto chiaro, lapalissiano, tutti i tasselli di quel puzzle infernale si incastravano alla perfezione nella mia mente. Ecco perché i miei genitori non si svegliavano mai al suono del pianoforte mentre sia io, sia Owen, sia, a suo tempo, l’intera famiglia Carmichael, lo udivamo così chiaramente. Ecco perché il fratellino di Toby era morto. Ecco perché qualcuno era riuscito ad intrufolarsi in casa mia senza che me ne accorgessi. Semplicemente perché era sempre stato dentro. Perché non era una persona in carne ed ossa, ma semplicemente uno spirito perennemente incatenato ad un ricordo, un oggetto. Ed ecco che, improvvisamente, sapevo anche di che oggetto si trattava. Alzai lo sguardo su Owen, che fino a quel momento aveva rispettato il mio silenzio. Ora sapevo che cosa dovevamo fare.
«Dobbiamo distruggere quella canzone.»
Owen scosse la testa, confuso.
«Ma non sappiamo nemmeno come si chiama!»
«Si che lo sappiamo.»
Era talmente evidente che mi chiesi come avevo potuto non capirlo subito. Owen mi guardò con occhi interrogativi.
«Clair de Lune», mormorai.
Per avere l’ennesima conferma che quel che dicevo era giusto, bastava guardare il titolo in ogni suo aspetto. Non solo “lune” era un evidente riferimento al nome della moglie di Avary, ma bastava un’osservazione attenta per accorgersi che “Clair de Lune” aveva le stesse, identiche lettere di Luna Reclide.
 
 
 
Buonasera a tutti quanti, cari lettori.
Sono molto sorpresa della costanza con cui sto effettivamente riuscendo ad aggiornare la storia. Di solito quando mi riprometto di fare una cosa così rigorosa il minuto dopo me ne sono già dimenticata. Stavolta no. Ma comunque.
Grazie a tutti voi recensori per il sostegno che mi date continuamente, è veramente una bella sensazione sapervi così affezionati a questa storia. Spero di tutto cuore che Vittoria, Owen, Foggy Hollow e compagnia bella continuino a sorprendervi fino alla fine.
Tanti cari abbracci
Nevermore
  
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