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Autore: Alex e Finger    09/10/2014    1 recensioni
— Non mi sono mai sentito così poco Mentore come vicino a lui. —
— Diceva che sei così disposto ad imparare. Diceva che gli ricordavi Ishak, in qualcosa, anche se siete profondamente diversi. —
Lo sguardo di Ezio scivolò verso il tumulo e si velò per un attimo, mentre percepiva gli occhi di lei fissi sul suo viso.
— Perché mi cercavi? —
Ràhel si prese un attimo prima di rispondere, come se stesse raccogliendo le forze.
— Perché lo amavo. E perché sento che in questo breve tempo, anche tu lo hai amato. Vorrei parlarti di lui. —
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ezio Auditore, Nuovo personaggio, Sofia Sartor, Yusuf Tazim
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Istanbul,

8 Cha`bân 915

(21 Novembre 1509)

 














ioveva, ininterrottamente, da tre giorni.

Per la prima volta da quando erano iniziati i lavori per la ricostruzione della città, dopo la fine delle scosse, argani, carrucole, martelli erano fermi, e per le strade di Istanbul non vi era altro suono che quello della pioggia battente, che si accumulava dentro i pozzi e nelle crepe delle strade, sgorgando fuori da entrambi come se stesse risalendo dalla terra. I tratti sterrati ridotti a piscine di fango, il Bosforo nero come la pece e l'acqua ben sopra il livello delle banchine. La gente che solo per miracolo aveva ancora un solido tetto sotto cui ripararsi offriva ospitalità ai vicini e ai vicini dei vicini. Le grandi tendopoli che il Sultano aveva fatto erigere attorno alle mura della città si erano estese a dismisura sia all'esterno che all'interno, ma il peso dell'acqua che vi si accumulava sopra ne faceva crollare continuamente e gli sfollati cercavano rifugio negli edifici pubblici ancora in piedi. Sotto gli archi del vecchio acquedotto, la comunità gitana si era mischiata a quella cristiana e quella cristiana a quella ebraica. Il rivolo d'acqua che tagliava in due il quartiere di Costantino si era scavato con prepotenza un letto molto più ampio, trascinando a mare banchine e imbarcazioni, e ora minacciava di fare irruzione nelle case vicine che con grosse assi inchiodate a porte e finestre credevano di potersi salvare. Qualcuno pregava, qualcuno riusciva addirittura a dormire sotto la pioggia; qualcuno giocava a dadi, o a dama o a scacchi, e forse perché il tavolo da gioco era tutto ciò che gli restava.

Amir si calò da un tetto con agilità e trovò riparo sotto una trave di legno che spuntava da un muro. Si guardò attorno controllando se qualcuno dei suoi Assassini fosse arrivato lì prima di lui ma non era così. Avrebbe atteso ancora un po' ma poi, siccome gli ordini erano già stati assegnati, sarebbe potuto entrare da solo.

Già, ma entrare dove?

Alzò lo sguardo da terra e si accorse di aver trattenuto il fiato fino a quel momento.

Non era più tornato al Covo di Imperiale di cui era Maestro da quando aveva portato i suoi Assassini a Galata. Tenere impegnati mente e corpo di quei ragazzi era stata la sua priorità, ma concentrare le loro forze nella ricostruzione del Covo principale li aveva esposti, ed era per scoprire quanto in profondità gli sciacalli avevano affondato le loro zanne che si trovavano lì.

— Maestro. —

Non ebbe bisogno neppure di voltarsi, il suono della sua voce era sufficiente, ma lo aveva colto di sorpresa e per un secondo fu tentato di lasciarle credere che fosse così.

— Stavo per entrare. — disse. — Resta di guardia. —

— Voglio venire con te. —

Amir trasalì, come tutte le volte in cui solo lei osava mettere in discussione i suoi ordini. Lanciò occhiate a destra e sinistra alla ricerca dei suoi fratelli, ma nessun nuovo cappuccio bianco si era ancora aggiunto ai loro.

— Quello che vuoi è avventato. Qualcuno deve restare di guardia. — il gelo, nella sua voce. Sperò che fosse sufficiente.

— C'è Varsos. — Lei guardò a sud.

Amir scavalcò con gli occhi le rovine del Covo e vide che in cima ai resti di una bottega di stoffe (che si riconosceva solo per via della pittura che imbrattava le macerie) era appena comparso il suo uomo più fedele.

— Va bene, allora. Andiamo. —

Alle sue spalle, la donna mimò una serie di ordini verso di lui e Varsos rispose con un cenno della testa.

Si addentrarono fin nel cuore delle macerie fianco a fianco.

— I registri non ci sono. — disse lei, china ad esaminare le copertine dei volumi sparpagliati a terra nella zona dove un tempo sorgeva la piccola biblioteca del Covo; i pesanti lembi della mantella per ripararsi dalla pioggia, piena d'acqua, a riposare sulla terra.

— Ma non capisco, hanno lasciato testi ben più preziosi. — aggiunse lei prendendo un copia di un antico testo Veda sul culto dei popoli Arii. Copertina ricamata in bronzo e capolettera dorata.

Amir annuì, come avendo ricevuto una conferma.

Se si era trattato veramente di sciacalli, era inspiegabile che quel libro si trovasse ancora lì. Qualunque straccione non se lo sarebbe lasciato scappare. Uno dei suoi Apprendisti lo aveva preso in prestito dalla biblioteca del Covo centrale, ben più fornita del micragnoso scaffale che avevano lì e che bastava a stento a tenere verticale qualche registro. Quelli, al contrario, erano rilegati tanto per garantirne la resistenza al tempo e alla polvere, ma mancavano… mancavano tutti, dal primo all'ultimo.

D'un tratto smise di piovere e nel silenzio che si era creato Amir colse un rumore inconfondibile di passi venire da una zona in ombra del piccolo cortile degli allenamenti, dove un tempo sorgeva la tettoria. Di quella, giusto una coppia di travi con un tetto che mancava di tegole erano ancora in piedi.

— Nalan, resta ferma. Sud-ovest, all'ombra del cipresso. — disse Amir, fingendosi interessato ai resti anneriti di un tappeto intrappolato tra due pareti crollate l'una sull'altra.

Lei fece come richiesto, puntando in quella direzione solo le pupille degli occhi, mentre le sue mani sollevavano altri libri per poi portarli al sicuro sotto la mantella. Quando la donna si irrigidì, e ancor prima di aprire bocca, Amir capì cosa stava succedendo.

Il siriano scagliò di colpo un pugnale da lancio, che si conficcò nel legno di una trave portando con sé un lembo di un mantello, il cui proprietario si diede precipitosamente alla fuga.

Dall'alto del tetto, Varsos notò subito l'agitazione tra le macerie del Covo e si spostò con la rapidità di un ragno sulla traiettoria del bersaglio, in attesa di ordini.

Dopo un attimo di esitazione Amir alzò il braccio, inviando quegli ordini, e Varsos si gettò sull'uomo in un fruscio di vesti.

 

Yusuf uscì dalla biblioteca trotterellando come un bimbetto, diretto verso la sala delle armi dove aveva appuntamento con Serdar per fare l'appello alle armi che Nazim aveva recapitato quella mattina. Ben poche erano sopravvissute al terremoto e una delle faccende delle quali si era occupato Serdar, data la sua menomazione temporanea, era stata stilare un inventario dei danni per il Fabbro.

Yusuf non si aspettava di vedere Amir e i suoi già di ritorno, perciò sentire rumore di passi e cinghie metalliche venire dall'ingresso del Covo lo mise in allarme. Si piantò in mezzo al salone e staccò leggermente le braccia dai fianchi, tendendosi come una corda di barbat. Ma anche quando il gruppo di Assassini emerse sulla passerella, non si rilassò affatto. Anzi.

In testa al gruppo Dogan e Varsos scortavano a lame sguainate un uomo con le mani legate dietro la schiena. Indossava una casacca color prugna, ma che un tempo doveva essere stata di un rosso sgargiante; calzari alti fino al ginocchio, una mantella povera e dai lembi sbrindellati (un angolo in particolare) con un cappuccio largo calato sulle spalle. La grossa cinta di cuoio che gli stringeva i fianchi avrebbe potuto ospitare una grossa spada, e infatti eccola, di vecchio acciaio ma ben tenuta, nelle mani dell'assassina Nalan che procedeva alle sue spalle. Accanto alla donna c'era Amir, con il volto nero come un cielo prima della tempesta e già i lampi negli occhi.

Quando il convoglio fu di fronte a lui, Yusuf non emise un fiato, aspettando che fosse il suo compagno a dargli qualche spiegazione, ma con sorpresa di tutti il primo a parlare fu il prigioniero, come risvegliandosi da una catalessi. Gridò così forte da rivoltare nei loro letti gli Apprendisti, che scesero e corsero scalzi e svestiti fin nel salone. Serdar comparve sotto l'arco che portava alla sala delle armi, mentre i suoi due figli si affacciavano dall'infermeria a metà della passerella insieme a Sami, che fece di tutto per tenerli dietro di sé. In poco tempo il salone centrale era pieno di facce sconcertate.

Yusuf fissava il prigioniero senza espressione, la bocca ancora sigillata. Quello si dimenava e gridava digrignando i denti come un animale, mentre per lo sforzo vene violacee gli comparivano sul collo. Sulla quarantina, leggermente stempiato. Un viso tondo, un grande naso adunco, barba sfatta, una cicatrice lungo la mandibola, forse una freccia evitata di striscio… occhi iniettati di sangue, fuori dalle orbite, traboccanti di odio come le sue parole.

— Ci riprenderemo la nostra città! Ci riprenderemo il nostro Impero! Bisanzio ci appartiene! Vi uccideremo! Vi uccideremo tutti, maledetti Assassini! Vi faremo a pezzi e getteremo le vostre ossa ai pesci del Bosforo! Non avete diritto di stare qui! Voi e nessun altro! Ci riprenderemo tutto e tutto ciò che resterà di voi sarà polvere! E come polvere vi soffieremo via dai tetti della NOSTRA città! Bisanzio rinascerà e voi, luridi scarafaggi, voi e tutti gli infedeli marciret…!!! —

Yusuf gli affondò un pugno nello stomaco e quello si chiuse su se stesso come un riccio. Poi Dogan e Varsos lo trascinarono via.

Amir li seguì con lo sguardo. — L'abbiamo trovato che annusava l'aria attorno alle mura di Imperiale Nord. Non immaginavo una reazione del genere: ha fatto il viaggio in silenzio come una tomba… —

Yusuf rabbrividì, guardandosi attorno: nel Covo c'era di nuovo silenzio, ma ora che la novità aveva preso il largo gli occhi di tutti erano puntati su di lui. — Probabilmente doveva solo sfogarsi un po' e quando torneremo da lui per interrogarlo sarà più docile di una gatta. Facciamo passare un po' di tempo. — disse incamminandosi verso lo studiolo, e Amir lo seguì senza aggiungere nulla. Fece segno a Serdar di far sgombrare il salone e a Ràhel di raggiungerli appena poteva. L'occhiata che ricevette in cambio diceva "posso ora" e la ragazza si unì a loro sulla rotta per la biblioteca.

 

— Ci sono delle piccole catacombe, nel Covo, alle quali si accede da una botola sotto la passerella. Sono rare le volte in cui ne facciamo questo uso, ma teniamo lì i nostri ostaggi. —

— O gli Apprendisti indisciplinati. — commentò Ezio con un sorrisetto sghembo.

Ràhel sorrise a sua volta. — Ecco, quello non è mai successo. La sola minaccia bastava a spaventare anche i più intrepidi evasori delle regole, e come lo diceva Amir non lo diceva nessuno. —

— Non stento a crederlo. —

In un battito di ciglia, Ràhel tornò di nuovo seria. — Passarono due settimane prima che riuscissimo a cavargli una parola di bocca senza fare uso della tortura fisica. Il giorno in cui parlò fu il giorno in cui Sami tentò di somministrargli un intruglio che gli facemmo credere si trattasse di chissà ché e invece era del tutto innocuo. L'idea era stata di Yusuf. —

— Basata su qualche esperienza personale? —

Ràhel gli lanciò un'occhiata basita. — Sì. Te ne ho parlato qui? —

Lui scosse la testa, ridacchiando sommessamente.

— Ad ogni modo, quell'episodio inaugurò la nostra guerra con i bizantini. All'inizio si muovevano nell'ombra, vestivano mantelle e non portavano segni di riconoscimento, a parte il color prugna di alcune casacche, rendendoci quasi impossibile individuarli tra le masse. Quando ristabilimmo i contatti con la Gilda dei Ladri, scoprimmo che stavano reclutando tra minoranze etniche e indigenti, ricevendo armi dalla Cappadocia, e che si preparavano perciò ad una specie di rivolta. Si spostavano per le strade a gruppi sempre più numerosi e col tempo, senza che potessimo far nulla per impedirlo, si impadronirono di interi quartieri. La Famiglia Reale, dilaniata dalle lotte intestine, per arginare la situazione fece quanto poteva fare un vecchio sordo contro una zanzara nel buio. Sì, il Sultano sguinzagliò i suoi Giannizzeri per la città, e questo ci fece guadagnare un po' di tempo, riprendere fiato, ma la guerriglia nelle piazze si faceva sempre più accesa: da una parte loro, Bizantini e i Templari uniti, nascosti tra le fila del popolo in rivolta, e dall'altra noi e il Sultanato, più divisi che mai... —

  
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