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Autore: Fannie Fiffi    12/10/2014    8 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buonasera miei adorati!
Non so come potrete perdonarmi per l'incredibile ritardo con cui mi trovo ad aggiornare, ma ho avuto un po' di questioni a cui pensare.
Al 50% ci ha pensato la scuola a tenermi occupata, per il restante 50% mi sono voluta prendere del tempo per pensare davvero e con concentrazione a come volevo che continuasse la storia.
Direi che ogni dubbio è stato assolto, perciò sono molto contenta.

Non pensiate però che non abbia tenuto sotto controllo il nostro amato fandom: ho visto che nuove autrici hanno aggiunto il loro specialissimo contributo a questa sezione, e di questo sono davvero felice. E' sempre fantastico avere la possibilità di confrontarsi con nuovi stili in quanto autrice e con nuove storie in quanto lettrice, perciò mando un grande abbraccio alle mie adorate colleghe.

Per quanto riguarda voi, miei fidati lettori, non potrei amarvi di più. Ringrazio con ogni briciolo del mio cuore tutte le persone che hanno continuato a recensire e i nuovi recensori, a cui do un grande benvenuto e a cui dico grazie per avermi dato una possibilità.
Siete tutti fantastici, dal primo all'ultimo, e io vi voglio sinceramente bene.

Insomma, che dire, non voglio ammorbarvi troppo, e quindi vi lascio al capitolo.

Buona lettura!



 


 

Is It Any Wonder?











La prima cosa che impari quando ti spezzano il cuore è che la paura del rifiuto te la porterai dietro per tutta la vita. Quando la persona che ami ti distrugge – e, ancora peggio, quando la persona che ami ti distrugge senza nemmeno rendersene conto – le tue barriere si allentano. La sicurezza crolla.

Sei così ossessionato dal rifiuto che pensi che da quel momento in poi ogni persona che conoscerai e amerai, ogni amico e confidente, ti abbandonerà.

È fisiologico.

Jasper si sentiva esattamente così. Il suo bisogno disperato di parlare con qualcuno faceva a botte con la consapevolezza che nessuno avrebbe compreso. O almeno era quello che credeva lui.

Era come se non riuscisse a farsi capire, come se parlasse una lingua aliena e tutti attorno a lui annuissero e sorridessero senza aver capito un tubo.

Voleva trascorrere il pomeriggio con il suo migliore amico e dopo cinque minuti già voleva tornare a casa.

Voleva scappare e non sapeva dove andare.

Voleva parlare con Clarke e sapeva solo ubriacarsi.

Forse la risposta era che stava semplicemente impazzendo, perdendo la testa.

Magari avrebbe dovuto buttare tutto fuori prima che le parole lo divorassero dall'interno. Le parole che era stato pronto a dire per tutta la vita, ma che erano sempre rimaste incastrate fra i denti, lasciandogli soltanto un amaro in bocca che nemmeno tutti i bicchieri del mondo avrebbero aiutato a mandar giù.

Non aveva idea di cosa fare, si sentiva perso e solo e incapace di essere migliore, di diventare qualcosa di cui la sua migliore amica si sarebbe potuta innamorare.

Tuttavia lui non poteva essere niente di più che se stesso, il ragazzo che aveva portato un paio di occhiali da aeroplano in testa fino a quindici anni, il nerd amante di videogiochi e fumetti, il buffone di corte che veniva tormentato dai Grounders per puro divertimento.

Tutta la sua vita gli appariva improvvisamente una grande, mera e beffarda illusione. E tutta l'operazione "disintossicati da Clarke Griffin e vinci un cuore nuovo" non stava andando proprio a buon fine.

Aveva provato a ignorarla, ad arrabbiarsi, a farsi prendere dalla frustrazione, e niente di questo aveva funzionato. Magari tutto quello che avrebbe dovuto fare era parlare. Dire tutto quello che aveva mai pensato, vomitare e buttare fuori ogni sentimento.

E così Jasper prese il telefono.
 
 
*





Bellamy intravide il proprio riflesso contro il vetro lucido dell’ufficio del Capitano del Dipartimento di Polizia di Los Angeles.

Si portò la mano sinistra al collo e si aggiustò la fastidiosissima cravatta che portava appesa alla gola, sistemandosi poi le maniche della camicia bianca che portava arrotolate fino ai gomiti.

Era pronto e determinato, perfino euforico di tornare, ma allo stesso tempo si sentiva estremamente e irrimediabilmente teso, come se una certa paura di aver improvvisamente dimenticato come fare il proprio lavoro lo stesse assalendo.

Clarke avrebbe alzato gli occhi al cielo e gli avrebbe dato una gomitata, se fosse stata lì.

Oh, no. Non poteva lasciarsi distrarre da quel pensiero. Non ora che doveva rimanere il più attento possibile, non ora che tutta la sua carriera si trovava sul bilico di un rasoio tanto affilato da fargli il solletico.

« Concentrati! » Si rimproverò a bassa voce, pizzicandosi la base del naso con l’indice e il pollice, sbuffando e poi decidendosi finalmente ad aprire la porta.

« Bentornato, agente Blake. » La voce ferma e decisa di Diana Sydney lo accolse non appena lui entrò nel suo studio, richiudendosi l’uscio alle spalle e fermandosi a pochi passi dalla sua scrivania.

« Capitano. » Rispose Bellamy annuendo brevemente, il tono di voce alimentato da una certa sicurezza. Oramai aveva imparato a dissimulare le proprie insicurezze e a non lasciarle intravedere.

Incrociò le braccia dietro la schiena e attese quello che sapeva la donna gli avrebbe detto.

« Non tollererò altre azioni del genere nel mio Dipartimento, ne sei consapevole? »

« Sì, signora. »

« Se vengo a sapere che tu e Murphy create altri problemi, vi sbatto a pulire cessi all’Accademia, è chiaro? » La sua voce minacciosa torreggiò nella stanza in tutta la sua potenza, poi la più anziana si sporse oltre il tavolo e abbozzò un sorriso.

« Non possiamo permetterci di perderti, Blake. » Lo incoraggiò lei, aprendo un cassetto e lasciando ricadere sulla superficie interamente occupata da documenti una Colt 45 e il suo distintivo.

Con una sola occhiata, il moro fu in grado di capire che qualcosa era diverso: « Quella non è la mia pistola. »

« Avrai la tua pistola quando sarò sicura che te la sarai meritata. » Lo sfidò il Capitano, sollevando un sopracciglio e accennando un ghigno.

Lui non si scompose. « Cosa devo fare? »

« Ho un caso delicato, una questione diplomatica di un certo livello. Stiamo lavorando con la Buoncostume del Bureau. Che ne dici? »

« Dov’è il fascicolo? » Rispose lui seriamente, senza indugiare un altro momento di più. All’improvvisamente tutto sparì. Le paure, le ansie, il timore di non essere abbastanza. Lui era nato per fare quello e nessuno avrebbe potuto portarglielo via.

« Alla tua scrivania. Dovresti chiamare Johnson. »

Bellamy si limitò ad annuire e a sporgersi per afferrare arma e distintivo, il tutto sotto gli occhi attenti e vigili del suo capo.

Quando aprì la porta, si voltò solamente per un breve istante: « Non la deluderò. » E poi, testa alta e petto in fuori, si diresse verso la propria postazione.


 
*



 
« Clarke? Clarke Griffin? »

« Jasper? Jasper Jordan? » La ragazza si abbandonò ad una lieve risata, sinceramente lieta di sentire la voce del suo migliore amico. Nonostante tutti i problemi che erano sorti durante quell’ultimo mese, le assenze e il suo orribile carattere e il tempo trascorso separati, non poteva abituarsi all’idea di non sentirlo, di non parlare con la persona che la conoscesse meglio al mondo.

« In carne ed ossa. Mi chiedevo… » Anche attraverso il telefono, fu perfettamente in grado di percepire l’incertezza nel suo tono. « Saresti disponibile a permettermi di offrirti un caffè? Tipo… adesso? »

« Un caffè? Sono le cinque del pomeriggio, Jazz. »

« E allora? » Subito si mise sulle difensive e Clarke avrebbe potuto giurare che ci fosse qualcosa che non andava.

« Al massimo puoi offrirmi un thè. Ghiacciato, data la temperatura.  »

« Andata. Ti aspetto da me. »

Senza attendere oltre, il ragazzo attaccò. La giovane Griffin osservò con espressione confusa lo smartphone, come se sullo schermo potesse magicamente materializzarsi la risposta a quello strano comportamento.

Avrebbe mentito se avesse detto che non aveva notato il cambiamento nelle azioni, nei suoi gesti, o il modo in cui si era comportato la sera in cui gli aveva fatto conoscere Bellamy.

Jasper non era mai stato un tipo geloso in praticamente nessun ambito, ma sembrava aver agito proprio in quel modo, e questo era stato semplicemente inspiegabile. Non aveva ancora capito che nessuno avrebbe potuto guastare il loro rapporto? Che nessuno avrebbe preso il suo posto?

Beh, immaginò che l’avrebbe saputo presto. Afferrando le chiavi sulla scrivania mentre passava, iniziò a dirigersi verso il piano inferiore.



 
*



 
Dax camminò speditamente verso il capannone in cui il suo capo lo aveva già portato due volte. La loro missione si stava definendo e i confini del loro lavoro dovevano ancora essere definiti, ma oramai sapeva bene quale fosse il suo incarico.

C’era una persona che sapeva troppo e non importava che fosse una diciannovenne figlia, fra l’altro, del primario di chirurgia dell’ospedale più importante della capitale, la minaccia doveva essere estirpata e lui non avrebbe dovuto fare altro che seguire gli ordini.

Da quanto aveva capito, quella sarebbe stata la loro nuova base operativa.

Era una struttura abbandonata, lontana dal centro città e difficilmente raggiungibile, praticamente ignorata da quasi la totalità della popolazione di Los Angeles.

Quando hai la bella vita e le belle ragazze della California davanti agli occhi non vai di certo a ficcare il naso dove non dovresti, e questo era ciò su cui aveva puntato il suo capo.

Abbassandosi leggermente sulla fronte il cappellino da baseball e tenendo il capo chino, Dax entrò da quello che doveva un tempo essere l'ingresso principale, afferrando lo spesso lucchetto che lo teneva chiuso e aprendolo con le chiavi che gli erano arrivate via posta il giorno prima. Nessun timbro, nessun indirizzo recuperabile. Meno sapeva, meglio era.

Non appena mise piede nella struttura abbandonata, vide Atom appoggiato al muro ad ovest, qualche metro lontano da lui, e si avvicinò con passo spedito.

« Ha chiamato anche te? »

 Il ragazzo dagli occhi verdi annuì e gettò a terra il mozzicone della sigaretta lasciata a metà.

« Non c'è solo Clarke in ballo, sai? » La sua espressione era seria, un misto fra la noia e la frustrazione.

Non si aspettava di certo che uno come Dax capisse.

« Da quando il tuo amichetto si è messo in mezzo il gioco si è fatto ancora più interessante. »

Il giovane Ward spostò lo sguardo su di lui, la mascella evidentemente contratta in un’espressione di austerità, poi, prima che potesse anche solo accorgersi del suo movimento, si avventò contro di lui e lo spinse verso la parete, il gomito destro premuto contro la sua gola.

« Credi che tutto questo sia un gioco, brutto pezzo di merda? »

L'altro non sembrò curarsi molto delle sue parole e nemmeno del suo attacco, ma scoppiò in una risatina nello stesso momento in cui Atom lo lasciò andare.

« Non hai capito proprio niente. Perché l'hai tradito se poi non riesci ad andare fino in fondo? » Lo provocò l’ultimo arrivato, voltando il capo di lato e sputando sul pavimento sporco.

« Non ti riguarda. Tu pensa al tuo lavoro, io penserò al mio. »

« Sei fortunato che ti sia capitato il bell'imbusto, eh? Almeno non tocca a te il peggio del lavoro sporco. Cos'ha su di te? »

« Non so di cosa stai parlando. » Il moro si passò il dorso della mano sinistra contro la bocca, lasciando vagare lo sguardo nello spazio vuoto della struttura abbandonata.

« Lui, il capo. Ha qualcosa su di te, non è vero? Non dev'essere un granché, però, se ti fa premere due tasti su un computer e fare solo la spia. » Dax tirò su col naso e si appoggiò alla stessa parete su cui l’altro l’aveva spinto poco prima, poi tirò fuori un cellulare usa e getta dalla tasca posteriore dei jeans e controllò qualcosa.

« E su di te invece cosa ha? »

« Qualcosa abbastanza grave da rendere il rapimento di Clarke Griffin uno scherzo. Devo solo aspettare il momento giusto. » Si interruppe per qualche secondo, poi riportò l’attenzione sul ragazzo davanti a lui: « Sta arrivando, tieniti pronto. »

I ragazzi rimasero silenziosamente immobili per qualche altro istante.

« Buonasera, signori. » Una terza voce riecheggiò alla loro destra, ed Atom e Dax si voltarono all'unisono verso il punto da cui proveniva.

Il loro capo si portò una mano alla spalla destra e fece finta di spolverare il tessuto pregiato della giacca che indossava.

I due non risposero, quindi continuò: « Potrete informarmi dei dettagli standard in un altro momento. Quello che vorrei oggi da voi è... Lievemente diverso. »

Prese una breve pausa e accennò un ghigno compiaciuto. La sua figura composta ed elegante stonava eccessivamente con l'ambiente circostante, ma, come sempre, lui sembrava perfettamente a suo agio.

« Come sapete, portiamo avanti la nostra collaborazione da più di un mese, oramai. Il nostro lavoro è sempre stato pulito, discreto ed efficiente. Tuttavia, signori, è tempo di evolverci, passare allo stadio successivo.

Atom », gli offrì un'occhiata consapevole, « ho bisogno che tu entri nella postazione del signor Blake. Ci sono buone probabilità che sfrutti il ritorno al suo impiego per documentarsi sull'Ark. Se lo fa, io voglio vedere ciò che vede lui. »

Il ragazzo dagli occhi verdi annuì celermente.

« Dax, tu dovresti tenerti pronto per il prossimo passo. Qui nessuno ti rintraccerà, va bene? Sai cosa devi fare. »

Il giovane Ward osservò con attenzione lo scambio di occhiate tra i due.

C'era qualcosa di profondamente sbagliato in tutto quello che stava succedendo, ma allo stesso modo non c'era nulla che potesse cambiare le cose.

L’uomo davanti a loro si tenne aperta la giacca con una mano, mentre con l’altra estraeva qualcosa dalla tasca interiore, vicino al cuore.

In un attimo lanciò l’oggetto in direzione di Atom, il quale lo afferrò prontamente. Era un altro cellulare usa e getta.

« Contatta il numero salvato in rubrica non appena avrai notizie consistenti sulle ricerche di Bellamy. »

Pronunciate quelle parole conclusive, l’ultimo arrivato si lisciò il tessuto della cravatta e gli voltò le spalle.
 


 
*



 
« Ehi, straniero. »

Clarke richiamò l’amico attraverso la porta della sua camera, bussando due colpi secchi e aspettando un suo invito.

« Entra pure. »

« Mi ha aperto tua madre. Di nuovo. » La bionda lo trovò seduto sul suo puff preferito, la televisione accesa e sintonizzata su MTV.

Fece per avviarsi verso il suo letto, ma Jasper alzò gli occhi verso di lei e increspò le sopracciglia.

« Non ti conviene metterti comoda, fra qualche secondo vorrai andartene. »

La giovane Griffin accennò un sorriso confuso. « E perché? »

Osservò con attenzione l’espressione del ragazzo cambiare: lo vide alzare lo sguardo al cielo, tamburellarsi il ginocchio destro con la mano sinistra e serrare le palpebre, prima di riportare l’attenzione su di lei.

« Io sono innamorato di te, Clarke. »

Ecco. Niente preamboli, prefazioni, stupide ed inutili premesse che non avrebbero avuto alcun senso.

Due secondi e mezzo, il tempo impiegato a distruggere un’amicizia di dodici anni. Due secondi e mezzo e non se ne era nemmeno accorto, le parole erano volate via di propria volontà, l’avevano prepotentemente abbandonato e condannato all’ autodistruzione.

Lei compì istintivamente un passo indietro.

« Cosa? » Sussurrò, sgranando gli occhi e sollevando le sopracciglia.

« Da sempre. » Puntualizzò lui.

« N-no, aspetta un attimo… è uno scherzo, non è vero? » Si abbandonò a una breve risata isterica, ben consapevole, nel profondo, che non ci fosse proprio nulla da ridere.

« Ehm, già… No. Sono serio. » Il giovane Jordan si alzò in piedi e Clarke arretrò impercettibilmente. Si guardarono negli occhi senza pronunciare la minima parola per qualche minuto, ognuno cercando nello sguardo dell’altra un motivo per restare.

« Come… »

« Senti, sarà strano solo se permettiamo che lo sia. Non c’è bisogno che tu dica niente. Mister Bicipiti, no? »

Tentò invano di scherzare, ma la sua battuta non sortì l’effetto desiderato.

« Jasper… »

Ed eccola lì, quella luce che non avrebbe mai voluto vederle nelle iridi. La sua più grande paura, il terrore che gli aveva sempre impedito di confessarle i propri sentimenti: pietà.

« Non farlo, Clarke. » La implorò lui.

La vide con chiarezza deglutire pesantemente e lasciar vagare lo sguardo nella sua camera, mentre la sua espressione sbigottita sembrava perdersi sempre di più nella confusione.

« Devo andare. »
 

 
Clarke camminò fino a perdere la sensibilità delle gambe, fino a chiedersi dove diavolo fosse finita.

Non poteva crederci.

Non poteva essere vero, no? La cosa peggiore era che tutto ora aveva un senso. Ogni lite, ogni comportamento ambiguo, ogni inspiegabile reazione. Tutto le appariva chiaro in modo ridicolo, e per un momento immaginò come sarebbe divenuto il loro rapporto se lui non glie lo avesse confessato.

Cosa avrebbero fatto fra cinque, dieci anni? E se lui avesse continuato a sentirsi in quel modo e non glie lo avesse mai detto?

Tutta la loro amicizia le sembrava poco a poco dissolversi, svanire in quella che era semplicemente una bugia.

Ripercorse velocemente tutti gli attimi che avevano vissuto insieme, dal giorno in cui si erano conosciuti alle gare in bicicletta, dal primo giorno di liceo al ballo di fine anno, dai libri letti insieme, i film guardati insieme e le serie TV abbandonate dopo una sola stagione, dalle pizze mangiate sul letto ai segreti confidati durante le domeniche pomeriggio.

Improvvisamente tutto, ogni istante condiviso, le parve una finzione. Come aveva fatto il suo migliore amico a tenere nascosta una cosa del genere per tutta la vita? Cosa avrebbero fatto ora?

Pensò che avrebbe voluto chiamare Bellamy.

La sua amicizia era appena stata messa alla prova, aveva scoperto un segreto così importante dopo tanti anni di silenzio – e probabilmente di sofferenze per il suo migliore amico – e tutto quello che avrebbe voluto fare era chiamare Bellamy. Sentire la sua voce. Farsi rassicurare e assicurare che sarebbe andato tutto bene, anche se non era così.

Cosa c'era di sbagliato in lei? Cos'era che l'aveva tenuta lontana dalle persone che per anni avevano cercato di avvicinarsi, provocare una qualche reazione in lei solamente per vedersi rifiutati e allontanati ancora di più, ma che spariva ogniqualvolta si permettesse di pensare a lui?

Come era potuto accadere che il suo muro, quello che si era minuziosamente costruita attorno da quando aveva perso suo padre, fosse semplicemente sembrato un po' più leggero, e Bellamy non avesse fatto altro che passarci attraverso senza la minima difficoltà?

Non riusciva a darsi una risposta, a trovare un motivo per cui quel ragazzo si fosse fatto tanto spazio dentro di lei in così poco tempo.

Era come se tutta la diffidenza, la paura, le insicurezze e i timori fossero stati improvvisamente soffiati via, come se non avessero più alcuna consistenza. Ma com'era possibile, se prima di conoscerlo erano stati pesanti come macigni e invalicabili come montagne?

Forse era la sua determinazione, la sua fierezza, le parole con cui l'aveva incoraggiata quando era crollata davanti ai suoi occhi.

Forse era il fatto che voleva essere come lui e quel desiderio la totalizzava e la riempiva di un orgoglio che non aveva mai provato prima.

O magari, le suggerì una parte della sua mente, erano le sue lentiggini, il sorriso che gli esplodeva in viso inaspettatamente, lo sguardo con cui la esaminava e la scopriva ogni volta.

E Clarke si sentì come se si potesse letteralmente spaccare in due, dividersi fra la parte di sé che si era già follemente abbandonata a lui e quella che le suggeriva che tanto prima o poi l'avrebbe perso, o lui l'avrebbe ferita, o lei avrebbe rovinato tutto.

Quest'ultima le urlava anche di lasciar perdere, di non invischiarsi in qualcosa che non avrebbe fatto altro che contribuire alla lenta resa del suo cuore, di non permettere alle sue emozioni di metterle i bastoni fra le ruote.

Un attimo: emozioni.

Quasi senza rendersene conto, Clarke aveva pensato quella parola – l'aveva sentita, più precisamente – e una nuova paura le aveva attanagliato lo stomaco: da quando era passata dal non provare niente a provare un tumulto simile?

E ancora, aveva davvero smesso di provare? Era possibile, per un essere umano con un cuore pulsante e una mente attiva e un corpo così vivo, smettere di provare?

E se tutto quello che avesse fatto fosse stato semplicemente scavare dentro di sé così tanto da trovare un posto in cui nascondere e seppellire la sofferenza per suo padre e il dolore dell'abbandono di sua madre, fingendo anche davanti ai suoi stessi occhi che andasse tutto bene?

La giovane Griffin si appoggiò ad una delle panchine a pochi passi dalla spiaggia. Accanto a lei, lungo la pista ciclabile, persone di tutte le età si godevano il sole di fine giornata in compagnia.

Per un attimo temette che il suo cervello sarebbe esploso e lei non avrebbe più potuto pensare proprio a niente.

Si sedette e osservò le vetrine dei negozi affacciati sul lungomare, i vestiti costosi accanto ai nuovi panini di una grossa catena di fastfood, e improvvisamente le venne da ridere.

Suo padre le avrebbe comprato un doppio gelato pistacchio e fiordilatte, le avrebbe accarezzato i capelli e le avrebbe suggerito di giocare una partita di scacchi.

Lei, invece, chiuse gli occhi e inspirò l'odore del mare.
 
 

 
*



 
Bellamy parcheggiò nel viale di casa sua quando ormai il sole era tramontato e la sua prima giornata di lavoro dopo due mesi si era conclusa.

Era stanco, molto stanco, ma la soddisfazione di aver ripreso un caso fra le mani, di esser tornato a respirare l’aria del Dipartimento, era una soddisfazione che avrebbe faticato altre mille volte per poter rivivere.

Quando vide un particolare riflesso attraverso lo specchietto retrovisore, si voltò per controllare che si trattasse esattamente di quello che aveva pensato e, avendone conferma, afferrò la ventiquattrore a tracolla che usava per il lavoro e si precipitò fuori dal veicolo.

« Ehi! » Alzò la voce per farsi sentire e una chioma bionda si voltò immediatamente verso di lui.

La sua giornata era stata stremante, emotivamente e fisicamente piena, ma, quando incontrò il sorriso di Clarke in lontananza, all'improvviso tutta la stanchezza svanì.

Tra il suo ritorno al lavoro e le ore di volontariato in ospedale che lei aveva ripreso a fare, non erano riusciti a parlarsi per più di tre secondo negli ultimi giorni; l'ultima volta che avevano davvero trascorso del tempo insieme era quando poi lui l'aveva baciata, e non avevano ancora discusso di quell'episodio.

Non che per lui ci fosse molto da spiegare, le cose gli apparivano ormai piuttosto chiare, ma non poteva dirsi certo di quello che provasse Clarke, né di come avesse preso la cosa.

Si incamminò verso il portico di casa Griffin mentre la brezza notturna soffiava docilmente contro i loro corpi, e, quando arrivò davanti a lei, parlò nuovamente: « Di ritorno al castello, Principessa? »

La bionda tirò su col naso e distolse lo sguardo dal suo, improvvisamente accigliata.

« Mh, ehm, suppongo di sì. Sono stanchissima. »

Bellamy spostò il peso da una gamba all'altra. « A chi lo dici... »

« Oh, già, è vero! Com'è andato il primo giorno di lavoro? » Clarke sollevò curiosamente le sopracciglia, anche se c'era qualcosa di lontano e irraggiungibile nel suo sguardo.

« Ho un nuovo caso, una questione piuttosto diplomatica. Il mio capo mi terrà sott'occhio, ma andrà bene. Certo. Mh, sai, non ho avuto tempo di controllare, ma potrei... »

« Non sei costretto », lo interruppe lei, sollevando le mani verso di lui, « possiamo riprendere quando avrai più tempo, o quando ci sarà un'occasione. »

Quello non era per niente da Clarke. Cosa le era successo? Qualcosa gli diceva che la sua aria distante non fosse semplicemente un'impressione.

« Io voglio aiutarti ora, Clarke. Non quando avrò più tempo. Potrei anche non averne, e non voglio sprecare quest'opportunità. Posso farlo, posso farlo davvero. »

La giovane Griffin abbassò il capo, fissandosi la punta delle converse grigie, e alcune ciocche di capelli le ricaddero davanti al viso.

Il moro tentò con ogni forza di ribellarsi all'impulso di allungare una mano e rimetterle al loro posto, ma non ci riuscì: con un tocco più leggero di quanto fosse solito usare, spostò una ciocca bionda dal suo zigomo e, non appena se ne accorse, Clarke riportò le iridi blu nelle sue.

« Va tutto bene? » Mormorò lui. Lei non riuscì a pronunciare una parola, ma immaginò proiettato nei propri occhi il tumulto e il profondo dissidio interiore che stava affrontando in quel momento.

Per ogni attimo in più che si permetteva di avvicinarsi a Bellamy, le parole del suo migliore amico le riecheggiavano nella mente, scatenando così un senso di colpa capace di corroderle il cuore; allo stesso tempo, però, per ognuno di quegli attimi in più c'era una nuova parte di lei che desiderava lasciarsi andare e farsi cullare da lui, attaccata a sua volta da quegli istinti di sopravvivenza emotiva che le gridavano di non lasciarsi permettere nemmeno il beneficio del dubbio.

Si trattava di un circolo vizioso che in ciascuno dei casi avrebbe finito col ferirla.

La scelta, a quel punto, era decidere da cosa farsi ferire.

Clarke decise di chiudere gli occhi.

E Bellamy, che aveva continuato a scrutarla con quello sguardo scuro e indagatore, accettò l'invito senza esitazioni. Le circondò ancora di più la guancia con il palmo della mano destra, si aggrappò quasi, e compì un passo avanti.

Se la tentazione di baciarla non fosse stata così forte, probabilmente sarebbe rimasto a fissarla per tutta la notte.

Poteva percepire l'elettricità dell'attesa e l'adrenalina dei loro corpi, e tutto era così lentamente meraviglioso da non sembrare vero.

Quando ormai la sua bocca stava per accarezzare quella di Clarke, quando i loro respiri erano ormai mozzati nelle loro gole, un passo indietro fu tutto quello che servì per ferirlo.

La giovane, che era arretrata quel tanto che bastava per lasciar disperdere al buio le lentiggini sul suo viso, lo guardò con un'espressione di dispiacere e disperazione sul volto.

« Mi dispiace, non posso. » Il maggiore dei Blake deglutì, cercò di fornirsi una ragione razionale al sentimento desolante provocato dal rifiuto.

« Va tutto bene. »

« Sono un disastro », lei si coprì il viso con le mani, « sono un completo e totale casino. »

« Non sei un disastro, Clarke. Per te... Non è lo stesso. Lo capisco. »

Cercava di convincerla con teorie e parole che gli apparivano senza senso, perché sapeva che qualsiasi cosa ci fosse lì, tra di loro, l'aveva sentito anche lei.

« No, Bellamy, non capisci. È lo stesso! » Questa volta fu lei a compiere un passo avanti, ad esporsi. « È solo che... Ci sono tante cose che devo... »

« Va bene. » Le sorrise lui, di quel suo sorriso che lo faceva tornare bambino.

« Perché non... » Iniziò lei, concentrandosi su un punto indefinito sopra la sua testa, fissandolo negli occhi subito dopo, « Domani ho una giornata piena in ospedale. Mia madre, come sai, è il primario e... Sì, insomma », non l'aveva mai sentita balbettare così tanto, ma non poteva non ritenersi divertito da questo suo celato aspetto, « ogni estate organizza una specie di ballo, chiamiamolo così. Un galà. È per una donazione di beneficienza e credo sia per una buona causa. »

« Cosa mi stai chiedendo esattamente, Clarke? » La provocò lui.

La bionda serrò le palpebre, prese un respiro profondo e parlò velocemente: « Vorresti essere il mio +1? »
 
 
 

Bellamy si guardò intorno ammaliato, tentando però di non far trasparire la magia che quel posto trapelava da ogni parete.

Sua sorella, al suo fianco, sibilò un « wow » a bassa voce, sbalordita quanto lui dalla maestosità della hall di quell'hotel in cui non si sarebbero potuti nemmeno permettere un drink.

La sala era enorme, probabilmente il doppio di tutta la loro casa, ed era quanto di più raffinato ed elegante i due fratelli Blake avessero mai visto in tutta la loro vita.

Piccoli tavoli coperti da tovaglie bianche pregiate e apparecchiati con le più fini porcellane si sparpagliavano per tutto l'ambiente, ritagliando un angolo in fondo alla sala adibito a pista da ballo.

Alcuni gruppi di persone, smoking Spencer Hart da migliaia di dollari e abiti lunghi da cocktail in bella vista, intrattenevano discussioni molto probabilmente sul debito pubblico, sull'elevato tasso di immigrazione nella Città degli Angeli o sull'ultima copia di Cosmopolitan, mentre altri si erano radunati accanto al pianoforte d'epoca che faceva eleggiare una delicata armonia nell'aria.

« È Debussy. » Una voce alle loro spalle li distolse dall'osservazione di quel lusso e di quel mondo quasi fatato, e i due si girarono nello stesso momento.

Avvolta in un abito di tulle azzurro opaco, ornato da un intricato complesso di stoffa intrecciata sul collo, Abby Jaha – Griffin, si corresse mentalmente Bellamy – sorrideva ai due giovani e li osservava curiosamente.

« Questo posto è splendido, Signora Jaha. » Fu Octavia a rispondere, incapace di distogliere l'attenzione dai grandi lampadari di cristallo che pendevano giù dal soffitto alto.

 « Sono d'accordo. Allora... » Durante quell'attimo di esitazione, il maggiore dei Blake si tastò discretamente la tasca interna del completo, assicurandosi la presenza dei due inviti di carta rigida che gli aveva procurato Clarke quella mattina.

« Oh, mi stanno chiamando. Beh, spero che possiate passare una buona serata. Se volete scusarmi... »

La donna più anziana si diresse verso un uomo alto, occhi e capelli scuri, che indossava un completo in grado di far sfigurare il Presidente degli Stati Uniti in persona.

Bellamy la osservò afferrargli cortesemente le braccia e baciarlo due volte sulle guance, prima di essere distratto nuovamente dal suono della voce di sua sorella.

« Sto iniziando a sudare, Bells. E se sudo rovinerò questo meraviglioso vestito che ho dovuto affittare. Ciò significa che se lo rovino... »

« Rilassati, sorellina. Non vorrai che la Regina ti veda in difficoltà. »

Il moro si voltò verso di lei e le offrì un ghigno sarcastico. Octavia indossava un abito nero, lungo fino alle caviglie, di una stoffa traslucida che metteva in risalto la sua figura armonica e in perfetta forma, mentre i capelli lisci le ricadevano dolcemente lungo le spalle scoperte.

Aveva indossato due vecchi pendenti di sua madre, uno dei pochi oggetti di valore che le aveva lasciato, e i suoi occhi verdi erano circondati da un trucco nero che rendeva felino il suo sguardo altrimenti teneramente dolce.

 Non fu di alcun impedimento per Bellamy sentirsi sicuro di affermare che fosse la donna più bella di quella sala.

I due fratelli Blake rimasero in gran parte per dieci minuti buoni, essenzialmente estranei a tutto quel lusso e a quei completi costosi e a tutti quei gioielli.

Oltre che strano, tutta quella ricchezza li faceva davvero incazzare. Secondo quale perversa e insensata legge dell’universo loro avevano dovuto lottare fin dall’adolescenza, tirarsi su da soli senza l’aiuto di nessuno, e tutte quelle persone invece non avevano fatto altro che vivere nella loro bolla autoreferenziale e preoccuparsi di scegliere tra una Ferrari e una Lamborghini?

Il più grande lasciò vagare lo sguardo assorto per qualche altro istante, mentre al suo fianco sua sorella sorseggiava dello spumante da un’elegante calice di cristallo.

Quando la vide, fu come se il tempo si fosse fermato. Si sentiva estremamente banale, disgustosamente mediocre, ma non avrebbe saputo descrivere quel momento in nessun altro modo.

Gli occhi blu di Clarke si posarono sui suoi come due piccole Morpho Menelaus – le farfalle con cui Octavia era fissata fin da piccola – e improvvisamente, solo per un attimo, tutto il resto rotolò via: non c’era più nessuna musica da ascoltare, non c’erano più persone da vedere, c’erano solo i suoi occhi puntati nei propri e il sorriso che iniziava ad illuminarle il volto.

Il mondo cominciò a girare nuovamente attorno a lui quando la voce di sua sorella lo destò dal torpore in cui pareva esser caduto.

« Ma quella è… Clarke? Oh, Dio, non l’avevo riconosciuta. È bellissima. »

Bellamy accarezzò la sua figura da lontano, permettendosi finalmente di distogliere lo sguardo dal suo: i suoi capelli dorati erano raccolti morbidamente dietro la nuca, e le sue esili spalle erano accarezzate da due sottili spalline.

Il vestito beige che indossava accompagnava con dolcezza ogni forma del suo corpo, abbracciandole i fianchi e scivolando lungo le gambe, fino a stringersi attorno alle caviglie.

Il maggiore dei Blake deglutì più volte, incapace di staccare gli occhi da lei.

« Chiudi la bocca, fratellone. » Gli suggerì Octavia al suo fianco.

Fece un passo avanti. Erano distanti, lei era apparsa dal nulla qualche metro più avanti, ma lui fece comunque un passo avanti. Uno solo. Quasi temeva che se si fosse avvicinato troppo, poi lei sarebbe sparita.

E fu in quel momento, quando la vide sorridere verso il pavimento e sfiorarsi il collo con la mano sinistra, che il moro capì che non aveva mai desiderato nessuno come allora. E non era la parte di sé sotto la cintura a parlare, ma una vocina nella sua testa con un pessimo senso dell’umorismo e un grande desiderio di deriderlo.

Nell’esatto istante in cui Clarke iniziò a camminare verso di lui, sua sorella si aggrappò maggiormente al suo avambraccio, assicurandogli silenziosamente il proprio appoggio.

« Siete arrivati. » Sussurrò la giovane Griffin non appena fu abbastanza vicina, senza distogliere lo sguardo da quello di Bellamy.

« Questo posto è fantastico, non sarei riuscita nemmeno ad immaginarlo! » La minore dei Blake lasciò vagare lo sguardo fra i due per qualche attimo, ben consapevole del fatto che non avessero ancora staccato gli occhi l’uno dall’altra.

La bionda si limitò a sorridere, concentrandosi finalmente verso l’altra ragazza.

« Niente di eccezionale, posso assicurartelo. »

« Mi aspetto di essere invitata a qualche festa davvero eccezionale, allora. » Scherzò lei.

« Affare fatto. »

« Beh, io devo andare un momento alla toilette. Scusatemi… » In un attimo la brunetta era sparita fra la folla.

Il moro, che ancora non aveva pronunciato una singola parola, riportò l’attenzione su di lei.

« Sei… »

« Sono affamata. Il buffet arriverà solo fra un’ora, però. Avrei quasi voglia di un hambur… »

« Balla con me, Clarke. » Bellamy interruppe il suo continuo blaterare e le offrì la mano sinistra, in attesa.
 


Si unirono alle danze proprio nel momento in cui una nuova melodia iniziò ad aleggiare nell’aria, ed alcune coppie li affiancarono sull’elegante pista da ballo.

Il moro lambì il retro della sua schiena delicatamente, pur con una stretta ferma e decisa. Lei strinse la sua mano destra e poggiò la sinistra sulla sua spalla, accarezzando lievemente il tessuto dello smoking che stava indossando.

« Bel completo. » Commentò lei, tenendo lo sguardo fisso su un punto al di là della sua schiena.

« Bel vestito. » Rispose lui.

Danzarono in silenzio per qualche altro minuto, il suono del pianoforte ad assecondare il loro abbandono l’uno contro l’altra, ma il maggiore dei Blake percepiva una certa meccanicità nei suoi movimenti, come se ci fosse qualcosa che la stesse trattenendo.

« Perché lo stai lottando così tanto? »

Gli occhi della bionda saettarono improvvisamente verso il suo volto, e per un attimo parve smarrita.

« Di cosa stai parlando? » Sussurrò.

« Lo sai. » Rispose lui, abbassando a sua volta la tonalità di voce. Si accorse perfettamente del tentativo di Clarke di spostare lo sguardo dal suo, ma chinò il capo verso di lei e le impedì di guardare altrove.

Lei sospirò e attese qualche secondo, poi parlò. « Perché quando sono con te non posso e non voglio proteggermi. »

 « Proteggerti da cosa? »

« Dal fatto che prima o poi te ne andrai. »

Bellamy non rispose. Si limitò a fissarla, le sopracciglia lievemente aggrottate. Quasi non si rese conto del fatto che stessero ancora volteggiando al centro della pista da ballo.

Clarke sorresse lo sguardo, ma non avrebbe saputo dire quale particolare coraggio glie lo stesse permettendo.
Sapeva solo che il suo cuore batteva tanto forte da rimbombarle dietro la nuca.

« Clarke... »

E in quel momento tutto sparì: il luogo in cui si trovavano, gli sguardi di sua madre, quei ricconi pieni di soldi e vuoti di cuore, la sua testarda, incontrovertibile e inutile convinzione di dover tenere quella porta chiusa anche davanti a lui. Povera, dolce fanciulla, non sapeva ancora che Bellamy ne possedeva la chiave.

Tutto ciò che nella sua mente contava erano i loro corpi che parevano galleggiare come inconsistenti sulle note di Clair De Lune, e gli occhi di lui che la spaventavano e la facevano rabbrividire fin nelle ossa e dalle ossa ripartivano e mettevano in circolo adrenalina pura, la voglia di urlare o correre sotto la pioggia. Il desiderio di sentirsi viva e poter meritare di sentirsi in quel modo.

« Non possiamo farlo. » Disse lei, senza rendersi conto di aver fatto una smorfia dopo aver pronunciato quelle parole.

« So che non è questo che vuoi, Clarke. So che… » Il moro prese una pausa, e nel frattempo aumentò impercettibilmente la stretta contro la sua schiena, « So che sei stata ferita. So che hai sofferto, hai provato un dolore che nessuno alla tua età dovrebbe mai provare. Lo so perfettamente, perché è il motivo per cui ho sofferto anch’io. »

La giovane Griffin, che l’aveva guardato negli occhi fino a quel momento, poggiò dolcemente il capo contro la sua spalla, indugiando lievemente con le labbra contro il suo collo.

« Non hai pensato che forse… forse quello che c’è tra di noi è semplice attrazione fisica. Forse dovremmo solo… »

Il maggiore dei Blake abbassò il volto e sfiorò la sua fronte con la propria guancia, scuotendo la testa.

« Ti ho baciata, e tu hai baciato me. Questo è affetto, non lussuria. Dovresti sapere la differenza. »

La più giovane a quel punto sollevò il capo, guardandolo dritto negli occhi. Aveva una risposta a quello che aveva appena sentito? Era d’accordo con lui?

Non sapeva cosa dire, perciò si limitò a cercare nelle sue iridi e a permettergli di fare lo stesso con lei, a lasciarlo scavare in tutto quello che lei non era in grado di ammettere e che oramai avevano entrambi compreso.

Quando Bellamy sciolse la sua stretta dalla sua mano sinistra, Clarke seguì il movimento stupefatta. Se ne stava forse andando?

Ma, prima che lei potesse fare qualsiasi cosa, il moro intrecciò le dita alle sue, prendendola davvero per mano.

Ciascuno dei due rimase a fissare quell’unione per un breve istante, poi si guardarono nuovamente, senza smettere di oscillare lievemente al ritmo del pianoforte.

Il maggiore dei Blake, a quel punto, lasciò cadere il proprio sguardo sulle sue labbra piene e scure, indifferente di qualsiasi cosa lei potesse pensare.

La bionda si ritrovò naturalmente a fare lo stesso, avanzando di un passo verso di lui e appoggiandosi completamente al suo petto.

Lui strofinò lentamente le dita contro la sua schiena, accarezzandola senza fretta, poi si avvicinò ancora. A quel punto la distanza fra di loro era quasi impercettibile, solamente pochi centimetri a dividerli da quello che entrambi desideravano e che nessuno dei due voleva più negarsi, e Bellamy riportò lo sguardo nel suo.

Credeva fermamente in quello che aveva detto: non era soltanto un bisogno di portarsela a letto, non era mai stato solo quello, provava davvero del sincero affetto per lei. Eppure… eppure non poteva negare l’effetto che lei gli facesse, soprattutto ora che il desiderio di averla lo stava facendo impazzire.

Sfiorò le sue labbra con un movimento del capo, lasciandole solamente scontrare di poco, e Clarke seguì istintivamente il suo gesto, desiderosa del calore di cui lo sapeva capace.

Nessuno dei due si curò che fossero presenti altre persone, individui che ballavano al loro fianco e, particolarmente, Abby Griffin.

Non c’era semplicemente spazio per null’altro che non fossero i loro corpi stretti l’uno all’altro, i loro occhi intrecciati e le loro bocche vicine ma ancora troppo lontane, irraggiungibili.

Il moro concesse alle loro labbra una frizione ancora più lenta della prima, e Clarke percepì uno squisito dolore diffondersi lungo tutta la spina dorsale, incentivato dalla sua mano calda che continuava a sfiorarle la schiena.

« Bellamy… » Implorò.

« Torna a casa con me. » Bisbigliò lui contro il suo orecchio, e si sentì compiaciuto dei brividi che vide attraversarle la pelle del collo subito dopo.

La giovane Griffin quasi ansimò al suono della sua voce così vicina e profonda.

« Torna a casa con me, Principessa. »

La bionda non rispose subito. Sapeva che una volta imboccata quella strada, poi non sarebbe più tornata indietro.

Sapeva che con ogni probabilità quello che stavano facendo fosse sbagliato e che sicuramente sarebbe stato doloroso, alla fine, ma in quell’attimo, in quel preciso momento, sapeva dentro di sé che non avrebbe mai avuto la forza di rifiutarlo.

Perciò, intossicata dai suoi occhi, dalla sua bocca, dalle sue mani su di lei, tutto quello che riuscì a dire fu: « Sì… »

Il più grande compì un passo avanti, quel tanto sufficiente da guardarla negli occhi, e sorrise genuinamente.

Non appena la trascinò fuori dalla pista da ballo, l’altra le rivolse un’occhiata interrogativa.

« Quando dico “torna a casa con me”, intendo “torna a casa con me ora”. »

« È per caso una minaccia, Blake? » Lo provocò lei.

L’unica risposta che ricevette fu uno dei suoi soliti ghigni. Prima che potesse aggiungere qualcos’altro, la stretta delle dita di Bellamy fra le sue si accentuò e lui iniziò a trascinarla attraverso la folla.

Una volta giunti all’entrata, si voltò e si guardò intorno, notando che sua sorella stava parlando con il fratellastro di Clarke.

« Può riaccompagnarla lui, non preoccuparti. Sembra si stiano davvero divertendo. »

I due, infatti, si sorridevano e chiacchieravano tranquillamente appoggiati ad uno dei tanti tavoli imbanditi per la serata.

« Saremmo almeno potuti rimanere per il dolce. » Scherzò il ragazzo, afferrando le chiavi della macchina dalla tasca anteriore del suo completo.

La bionda rise brevemente, poi parve ricordarsi di una cosa importantissima. « Merda, ho dimenticato il cellulare nella macchina di mia madre! »

« Ti accompagno. »

« Oh, non preoccuparti. Ha parcheggiato nella zona “vip” dell’ospedale, mi servirà un pass per entrare. Perché non mi aspetti fuori? Ci vediamo qui davanti fra dieci minuti. »

Bellamy non sembrò molto sicuro, ma dopo qualche momento si avvicinò e premette un casto bacio proprio vicino la sua bocca.

« Non farmi aspettare troppo, Principessa. »

La più piccola gli sorrise e strinse più forte la sua mano, prima di lasciarlo andare e dirigersi verso l’uscita secondaria.








Clarke non vide nemmeno sua madre, sicuramente troppo impegnata a discutere riguardo importanti ed essenziali procedimenti medici in grado di salvare milioni di vite, e si avviò con velocità e concentrazione verso i parcheggi del personale.

Non appena l’aria fresca notturna la colpì, la giovane Griffin rabbrividì impercettibilmente. Nonostante questo, procedette rapidamente nella direzione della macchina di sua madre, accompagnata dal rumore dei tacchi contro l’asfalto dell’edificio vuoto.

La totalità degli invitati ormai era arrivata e il posteggio era totalmente privo di qualsiasi forma di vita, perciò la giovane poté aggirarsi fra le automobili senza dover incorrere negli spocchiosi colleghi di Abigail.

Quando raggiunse la Ford di sua madre, le sembrò di sentire dei suoni, ma decise di non lasciarsi prendere dalla paranoia.

Cercò nervosamente il mazzo di chiavi nella piccola pochette che sua madre l’aveva costretta a portarsi dietro e, tirandole fuori, si accostò allo sportello del guidatore.

Tutto accadde troppo velocemente perché lei potesse fare qualcosa al riguardo: vide la figura incappucciata riflessa contro il finestrino, ma non ebbe tempo di voltarsi, urlare o scappare, perché subito un braccio si strinse al suo collo, mentre una mano le premeva un fazzoletto contro la bocca e il naso.

L’ultima cosa che Clarke registrò fu l’odore nauseante del cloroformio.







 


Curiosità:


# Johnson, il collega di Bellamy, è un omaggio a Virginia Johnson, protagonista di Masters Of Sex, e Jake Johnson, che interpreta Nick Miller in New Girl.



# « Ti ho baciata, e tu hai baciato me. Questo è affetto, non lussuria. Dovresti sapere la differenza. »

Questa è una citazione dal film "I peccatori di Peyton".
  
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