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Autore: Afaneia    15/10/2014    2 recensioni
Il ragazzo che ha commesso l'errore di trascorrere una notte nella Torre Pokémon non esiste più. Da quella Torre è uscito un uomo adulto e privo di nome e di ricordi, cui non è rimasto che un obiettivo nella vita: vendicarsi degli Spettri che abitano il cimitero di Lavandonia. (Sequel de La Spettrosonda).
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Giovanni
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ultor'
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Un immancabile ringraziamento, accompagnato da un bacio, a crystal_93 per l'altrettanto sua immancabile recensione al precedente capitolo!

Afaneia


Capitolo III – Jonathan Silph.


«È che quello che lui ha fatto crea un precedente, e che se per un primo furto occorre una certa risoluzione, per i seguenti basta solo cedere alla spinta. Tutto ciò che avviene in seguito avviene solamente per inerzia. Quello che vorrei dirgli è che spesso un primo gesto che si fa quasi senza pensare, delinea irrimediabilmente la nostra figura e comincia a tracciare un segno che, in seguito, tutti i nostri sforzi non riusciranno mai a cancellare.»


André Gide, I falsari.


Jonathan Silph era un ragazzo magro dall'aria trasandata, con pochi soldi in tasca e un'intelligenza geniale nascosta dietro un paio di occhiali dalla montatura fuori moda. Sakaki lo aveva conosciuto grazie a una recluta che aveva infiltrato all'Università di Azzurropoli e che gli aveva passato sottobanco una copia della sua tesi di laurea. Era un progetto geniale: un oggetto pratico, leggero ed economico da produrre che avrebbe permesso di catturare e tenere un Pokémon sempre con sé, sostituendo le Ghicocche, che richiedevano un processo di coltivazione e lavorazione lungo e laborioso noto solo a pochi artigiani, e conservando un prezzo accessibilissimo. Geniale, si era detto Sakaki consultando febbrilmente le pagine della tesi nel suo ufficio sul retro del Casinò Rocket. Jonathan Silph era il suo uomo.

Lo aveva contattato via posta, con un'elegante lettera che lo informava che le sue doti erano state notate e che gli si offriva un posto di ricercatore per un importante laboratorio privato, in quel momento impegnato in un progetto che riguardava l'Elettronica quantistica. Era una lettera vaga e ambigua, che forse sarebbe risultata sospetta a un umo solo un po' più maturo di lui; ma Jonathan Silph era un giovane neolaureato disoccupato, squattrinato e pieno di entusiasmo e di voglia di mettersi in gioco: Sakaki non dubitava che un ragazzo con queste qualità – un ragazzo, perché aveva ventisei anni, quattro in meno di lui – avrebbe accettato l'invito a un colloquio per discutere di questo posto di lavoro.

Jonathan Silph aveva accettato.

Per qualche motivo, quando Sakaki gli aveva esposto la sua idea di costruire uno strumento capace di rendere visibile e in qualche modo soggetti a un contatto i fantasmi, Jonathan Silph non aveva avuto alcuna esitazione, che era l'unico ostacolo che Sakaki paventava, in quanto ciò presupponeva di possedere la reale, fondata convinzione che i fantasmi esistessero. Ma Jonathan Silph era uno scienziato entusiasta, che si rifiutava di negare una possibilità se non su basi certe. Perciò, quando Sakaki gli aveva chiesto cautamente se credesse ai fantasmi, la sua flemmatica risposta era stata: «La loro esistenza non è mai stata dimostrata, ma una tale possibilità non interferisce con nessuna legge fisica di mia conoscenza. Dunque, perché no?»

Per questo motivo Sakaki aveva voluto acquistare la vecchia casa dei suoi genitori. Quando controllò i suoi conti bancari, poche settimane dopo l'incontro con sua madre, si rese conto che l'assegno non era mai stato versato. Non fece commenti. Sua madre aveva voluto una modesta casa a Zafferanopoli, proprio come aveva detto, niente di più di un appartamento con tre stanze nella periferia orientale della città.

Sakaki aveva bisogno della casa a Lavandonia per installarvi un laboratorio, ora che finalmente poteva permettersi la strumentazione necessaria. Certo, ora che era ricco, avrebbe potuto permettersi anche molti più scienziati, ma quello di assumerne solo uno era una precisa scelta. Innanzitutto, voleva tenere i suoi esperimenti segreti per non doverne rendere conto al governo e non rischiare di perdere il brevetto; e poi, soprattutto, egli sentiva che la Spettrosonda celava il grande segreto del suo cuore e non poteva permettere che troppi esseri umani ne venissero a parte.

Ma se Sakaki aveva pensato di approfittarsi semplicemente del genio di Jonathan Silph, scoprì ben presto di essersi sbagliato. Si prese svariati giorni liberi per aiutarlo a stabilirsi nella casa di Lavandonia e sorvegliare con lui i lavori di assemblamento del nuovo laboratorio, che occupava tutto il vecchio garage; ogni sera, che trascorrevano cenando con cibi da asporto al vecchio tavolo in cucina, consultavano i progetti tra infinite discussioni. Riuscirono a raggiungere un accordo almeno sulla natura degli Spettri, basandosi sui ricordi di Sakaki e sui principali testi di esoterismo: se esistevano, concluse Jonathan dopo innumerevoli ore, doveva trattarsi di entità che, per nascondere la propria vera forma, alteravano lo stato del gas che li componeva eccitandone gli elettroni... o qualche cosa del genere.

«Se riusciamo a dissipare l'energia di cui si servono per eccitare gli elettroni, vedrai che funzionerà» gli spiegò sorridendo di soddisfazione. Sakaki non poté che credergli sulla parola.

Quando il laboratorio fu ultimato, Sakaki tornò ad Azzurropoli e Jonathan Silph cominciò a lavorare per ore e ore al giorno: gli uomini che lo sorvegliavano di nascosto, installatisi nelle case circostanti, riferivano che non usciva dalla proprietà se non per consumare i pasti o per eseguire complicate misurazioni con strumenti di precisione all'interno della Torre Pokémon. Sakaki andava a trovarlo a sere alterne e durante le loro cene si faceva descrivere dettagliatamente i suoi progressi.


«Sei sicuro di volerla chiamare Spettrosonda?»

Stavano fumando in giardino, dopo aver cenato, quella sera. All'udire questa domanda, Sakaki distolse gli occhi dalla sommità della Torre e li posò su di lui.

«Certo, Spettrosonda» replicò lentamente, con sufficienza, quando fu certo che Jonathan aveva voluto chiedergli proprio questo. «Credevo fossimo d'accordo.»

«A dire il vero, non ne abbiamo mai parlato» replicò Jonathan scrollando le spalle. «L'hai sempre chiamata così, ma...»

Sakaki si accigliò: era vero, l'aveva sempre chiamata così, nella sua testa, fin dal primo momento in cui ne aveva concepita l'idea: gli era venuto spontaneo chiamarla così anche con Jonathan, senza neppure pensarci. Si costrinse a sorridere: «Hai ragione, l'ho sempre chiamata così. Non ti piace?»

«Oh, non è che non mi piaccia, è solo... Beh, se l'idea è quella di lanciarla sul mercato, magari potrebbe servire un nome più commerciale.»

Sakaki tossicchiò discretamente, stringendosi nelle spalle. Aveva detto a Jonathan che il suo progetto era quello di lanciare la Spettrosonda sul mercato non appena ottenuto il brevetto, e in effetti quella non era una bugia, o almeno non completamente: aveva comunque intenzione di farlo dopo pochi anni, ma non prima di...

«Spettrosonda va bene» disse con calma forzata. Non gli andava di discutere di quell'argomento.

«Lo trovo poco immediato, sai. Pensavo a una cosa istintiva, tipo Rivelaspettri o qualche cosa del genere...»

«Spettrosonda va benissimo» sbottò Sakaki seccamente, gettando la sigaretta a terra e calpestandola nervosamente col tacco della scarpa. Jonathan scoppiò a ridere, alzando le mani sopra il capo con le palme aperte, di una risata franca e schietta: «Va bene, va bene... come vuoi! Sei tu quello che paga. Era solo un'idea.»

Tieni pure per te le tue idee, fu il suo primo pensiero, ma Sakaki riuscì a trattenersi e gli rivolse un sorriso falso e stucchevole. Eppure Jonathan si fidava persino dei suoi sorrisi ipocriti: aveva una fiducia incrollabile nel mondo e nella gente, e Sakaki l'aveva scelto anche per questo. Non poteva permettere che nutrisse dei sospetti sulla vera natura della provenienza dei suoi fondi. Certo, ovviamente Jonathan aveva capito che c'era qualcosa di illegale nel denaro che scorreva a fiumi e nella segretezza dei loro esperimenti, ma si limitava probabilmente a sospettare che fossero solo espedienti per evadere il fisco, e Sakaki era ben lungi dall'idea di disilluderlo. Aveva bisogno di Jonathan Silph, nonostante tutto, molto più di quanto non avesse bisogno di uno qualunque degli altri suoi adepti.

Rimasero in silenzio ancora per qualche minuto, in piedi nel giardino buio, immerso in quella città muta e dormiente. Sakaki si sentiva tranquillo e rilassato, con le mani nelle tasche della giacca e gli occhi quietamente puntati sulla cima della Torre. Jonathan finì la sua sigaretta e se ne accese subito un'altra: Sakaki notò con la coda dell'occhio il vago tremore delle sue mani. Non era la prima volta che aveva l'impressione che, nonostante le apparenze di tranquilla rilassatezza, quel lavoro segreto e la sensazione di reclusione lo stessero stressando molto.

Il suo telefono trillò per un messaggio ricevuto. Sakaki lo lesse rapidamente e lo cancellò subito: era un messaggio cifrato che lo avvisava che la partita di Voltorb che aveva inviato nella regione di Unima, dove erano molto richiesti perché introvabili, era appena partita su un cargo. Sentì su di sé gli occhi di Jonathan, ma si sforzò di non darvi peso: non voleva mostrarsi a disagio.

«Non è il tuo solito telefono.»

La sua espressione rilassata gli si congelò sul volto. Non avrebbe mai creduto che Jonathan avrebbe prestato attenzione a quel dettaglio. Si costrinse nuovamente a sorridere con leggerezza, mentre rimetteva il telefono in tasca. «No, hai ragione. Questo è quello del lavoro. Ho scordato di spegnerlo.» Non poteva fargli credere di averlo cambiato, dal momento che aveva usato l'altro, quello per le varie comunicazioni, solo poche ore prima per ordinare la cena.

«Oh, certo» disse Jonathan annuendo, ma per la prima volta Sakaki ebbe l'impressione di sentire una vibrazione di dubbio nella sua voce. Ma il giovane aveva già distolto lo sguardo ed egli non poté che rimproverarsi di star diventando paranoico: non era impossibile che si fosse insospettito per un dettaglio tanto irrilevante, astratto e svagato com'era.

«Stai fumando troppo» lo rimproverò per cambiare argomento. Jonathan si strinse nelle spalle.

«È la noia. Non c'è niente da fare qui.»

Non aveva tutti i torti, considerò Sakaki guardandosi attorno. Aveva trascorso solo pochi mesi a Lavandonia, ma non gli era difficile immaginare quanto noioso dovesse essere vivere da solo in una città funebre come quella.

«Hai ragione. Se gli esperimenti vanno a buon fine, in capo a qualche mese potrai tornare a casa.»

«Oh, non mi sto lamentando. Mi piace davvero questo lavoro.»

La compagnia di Jonathan Silph cominciava ad farsi pesante: non si poteva certo dire che avesse una personalità particolarmente interessante, in effetti. Sakaki si stiracchiò ostentatamente e guardò l'orologio che portava al polso (non era quello dorato: per qualche strano motivo, si era ritrovato a odiarlo e l'aveva regalato a una delle sue amanti). «Penso proprio di dover tornare ad Azzurropoli: si sta facendo tardi e domani mi aspetta una levataccia. Ritornerò a trovarti dopodomani sera. Hai bisogno che ti faccia portare qualcosa?»

Jonathan fece rapidamente mente locale e gli rispose di no, scostandosi dagli occhi i capelli spettinati e accendendosi una nuova sigaretta. Si separarono in silenzio.


«Sei un figlio di puttana!»

Sakaki, che già stava per spingere la porta per entrare, all'udire questo grido provenire dall'interno ebbe abbastanza prontezza di spirito da soffermarsi per qualche secondo sull'uscio, con la mano ancora sulla maniglia: un momento dopo, l'inconfondibile suono di un oggetto di vetro che si frantumava appena aldilà della porta gli diede ragione della sua prudenza. Sakaki attese ancora qualche istante prima di entrare, per accertarsi che non vi fossero altri proiettili pronti ad accoglierlo appena varcata la soglia. Poi, con un profondo sospiro, spinse cautamente la porta ed entrò.

Jonathan Silph era seduto su una poltrona che doveva aver spinto personalmente nell'ingresso, con addosso una tuta sgualcita (non sapeva stirare), gli occhi pesantemente arrossati e i capelli sporchi. Sakaki lo fronteggiò freddamente, chiudendo la porta alle proprie spalle.

«Sei ubriaco» constatò semplicemente.

«Mi hai mentito» gracchiò Jonathan. Gli puntò addosso un accusatorio dito tremante e ripeté: «Mi hai mentito.»

«Complimenti» disse Sakaki con calma. «Ci hai impiegato un sacco di tempo, ma ci sei arrivato. Due anni, mi pare?»

«Non prendermi in giro» ringhiò Jonathan. Aldilà della nebbia che l'alcol gli aveva calato sugli occhi, il suo sguardo era mortalmente serio. Sakaki si ripropose di non tirare troppo la corda: per terra accanto alla poltrona vedeva il collo di una bottiglia ancora piena e non aveva bisogno di particolari sforzi di fantasia per immaginare in quale modo essa avrebbe potuto trasformarsi in un'arma. Non cercò di avvicinarsi troppo, ma cacciò le mani in tasca, mantenendo una prudente distanza.

«Mi hai mentito» ripeté ancora Jonathan. Sembrava sconvolto. «Ho scoperto tutto. Il Team Rocket. Tutto.»

«Dammi quella bottiglia, Jonathan» disse finalmente Sakaki, cercando di mantenere un tono di voce calmo e chiaro. Gli porse la mano. «Hai bevuto abbastanza.»

Jonathan ignorò la sua mano tesa. «Hai finito di darmi ordini, stronzo. Ho scoperto i tuoi piani. Ho scoperto chi sei, cosa fai...»

Veramente pensavi che un semplice casinò bastasse a finanziare tutto questo?, stava per dirgli Sakaki, ma non gli parve una mossa furba in quella circostanza. Non perse tempo a chiedergli come avesse fatto a scoprirlo, non gli interessava. La sua mente stava già lavorando rapidamente su come risolvere quel problema.

«Possiamo scendere a compromessi, Jonathan. Posso fare di te un uomo molto ricco...»

Si rese conto di aver imboccato una strada sbagliata una frazione di secondo prima che la bottiglia di brandy che aveva intravisto poco prima attraversasse la stanza in volo verso di lui e sibilasse accanto al suo orecchio, per poi schiantarsi contro lo stipite della porta. Ma dopo un iniziale tuffo al cuore, si sentì sollevato: non vedeva altri oggetti nelle vicinanze che Jonathan potesse utilizzare come arma.

«Non voglio diventare molto ricco! Sono un uomo onesto!»

«Jonathan...»

«Tu vendi i Pokémon!» proruppe quegli, con un tono che da solo bastava a esprimere tutto il suo orrore. «Li vendi! E vuoi vendere anche gli Spettri!»

Sakaki si strinse nelle spalle. Aveva previsto fin dall'inizio una qualche discussione di questo genere, ma aveva sempre pensato che sarebbe avvenuta dopo aver ottenuto il brevetto della Spettrosonda, quando ormai il parere di Jonathan Silph non avrebbe più avuto importanza. «Gli Spettri sono malvagi, Jonathan. Puoi credermi, io li conosco.»

«Oh, già, la tua storiella strappalacrime... come ho potuto dimenticarla?» gli fece eco Jonathan. «Che stupido sono stato a crederti. Stupido, stupido! Il povero ragazzino che perde la memoria a causa dei fantasmi cattivi...»

«Non era una storiella strappalacrime» lo interruppe Sakaki. Si avvicinò a una finestra con passo nervoso e scostò la tendina bianca per guardare fuori la gigantesca ombra della Torre ricoprire Lavandonia. «Era la verità.»

Jonathan roteò gli occhi. «Oh, sicuro, come tutte le balle sul progresso della scienza che mi hai raccontato.»

«La storia del mio passato è l'unica cosa vera che ti ho raccontato.» Sakaki lasciò ricadere la tendina e si volse ad affrontarlo, appoggiandosi al muro con le spalle. «Puoi credermi. Ho davvero perduto la memoria quella notte nella Torre, ed è per questo che voglio la Spettrosonda.»

Jonathan lo fissò lungamente, come riflettendo sulle sue parole. Si passò stancamente le mani sugli occhi arrossati e mormorò: «Credevo che volessi catturare gli Spettri per cercare di riavere la memoria della tua infanzia.»

Sakaki rise di una risata priva di gioia. «Non m'importa niente di quei ricordi, ormai appartengono a un'altra persona, non a me. Una persona che è morta. Cosa dovrei farmene dei ricordi di un altro?»

«E allora...?»

«Vendetta, Jonathan. Pura e semplice vendetta. Ti dispiace se fumo?» Poiché Jonathan si limitava a fissarlo stupidamente, Sakaki si accese con la massima calma una sigaretta senza attendere risposta. Ora che l'altro non aveva più niente a disposizione con cui minacciarlo fisicamente, sentiva di avere di nuovo la situazione sotto controllo. «Quegli Spettri mi hanno catturato e io voglio catturare loro, impossessarmi della loro casa e della loro serenità, che è tutto ciò che essi lottano per mantenere. È questo che io chiamo una vendetta ben fatta, Jonathan. Ma di più: come essi mi hanno umiliato, io voglio umiliare loro rendendoli schiavi. Essi mi hanno denudato davanti alla città intera e io mostrerò e venderò i loro corpi all'intero mondo. Non ti ho completamente mentito sui miei piani: voglio davvero commercializzare la Spettrosonda.»

Le sopracciglia di Jonathan si corrugarono. «Ma...»

«Non subito, ovviamente. Quello era il mio piano originario: perché non vendere Spettrosonde, così che chiunque potesse profanare la Torre Pokémon, turbando il loro secolare riposo, e catturare gli Spettri come comunissimi Pokémon? Era una buona idea. Ma poi mi sono detto: perché non massimizzare il mio profitto? Con un'unica Spettrosonda, il Team Rocket catturerà tutti gli Spettri della Torre e li rivenderà come assolute rarità. Chi non sarebbe disposto a sborsare milioni per accaparrarsi un vero fantasma che qualcun altro ha catturato per lui? Ma dopo una decina d'anni, forse meno, gli Spettri si saranno diffusi in tutto il mondo, vuoi fuggiti, vuoi liberati per noia. Colonizzeranno le grotte, gli edifici antichi e abbandonati... e allora, ogni Supermarket venderà una Spettrosonda tascabile. In tutto il mondo non esisterà più un solo posto sicuro dove essi potranno rifugiarsi e trovare pace, perché ovunque essi si nasconderanno, chiunque sarà in grado di identificarli. Quel giorno la mia vendetta sarà davvero compiuta, finalmente.»

Jonathan, che lo aveva ascoltato rapito, impiegò quache istante a rendersi conto che il suo discorso era finito. Assentì gravemente.

«Un ottimo piano, Sakaki, davvero. Subito dopo aver ottenuto il brevetto, mi avresti fatto uccidere, per evitare che potessi rivendere i progetti o passare a produrre Spettrosonde per altri. Così da garantirti l'esclusiva assoluta. Con tutti i ricavati illeciti, non avresti avuto problemi a rinnovare il brevetto a tuo piacimento...»

Però, tutto sommato, quello scienziato stralunato non era poi tanto stupido come Sakaki l'aveva sempre ritenuto, o forse era l'alcol a farlo ragionare meglio. Comunque, egli mentì con noncuranza. «Certo che no. Tu mi servirai per lavorare alla versione tascabile della Spettrosonda, e ovviamente per eventuali altri progetti successivi. Ma per quale motivo usi il condizionale? Te l'ho detto, possiamo ancora trovare un compromesso, dico davvero. Se è così importante per te, passeremo alla commercializzazione subito dopo il brevetto...»

Ma Jonathan non sembrava neppure più ascoltarlo. Ora taceva semplicemente, tenendosi il volto tra le mani, coi gomiti puntati sulle ginocchia. Chissà perché, dopo qualche secondo, quel silenzio gli parve più minaccioso delle sue grida sconclusionate: Sakaki lo fissava in attesa, sentendosi più nervoso via via che il tempo passava.

Finalmente, Jonathan si alzò in piedi, scostandosi i lunghi capelli unti dagli occhi, e le braccia gli ricaddero poi lungo i fianchi, coi pugni stretti. Ma quando levò lo sguardo su di lui, i suoi occhi erano decisi e taglienti, per nulla appannati dall'alcol, e Sakaki ne sbigottì.

«No, Sakaki.» Anche la sua voce era sorprendentemente fredda. Se non fosse stato già appoggiato al muro, forse Sakaki sarebbe indietreggiato. «No. Abbiamo chiuso.»

Non era possibile, stava bluffando. Doveva stare bluffando. «Senti, Jonathan... ora non esagerare.»

«Tu mi hai mentito.» Jonathan continuava a guardarlo dritto negli occhi, senza segni di cedimento. Sakaki cominciò a dubitare che stesse fingendo. «Sei un mostro, Sakaki. Io non pretendo di essere migliore di te: ho accettato di fare tutto in nero, di tenere gli esperimenti segreti per non pagare le tasse... ma non ho mai fatto del male a nessuno, e se ho agito disonestamente, non l'ho fatto davvero che per amore della scienza, a differenza tua. Ma ora non voglio più avere niente a che fare con te.»

«Molto bene, allora.» Non sarebbe certo stato lui a chiedergli di ripensarci. Mancava poco alla conclusione della prima parte del progetto, Jonathan lo sapeva, doveva essere consapevole che andandosene avrebbe perduto tutto, ogni speranza di ricerca e di guadagno. Meglio lasciare che fosse lui a tornare in ginocchio a pregarlo di riprenderlo con sé. Spense stizzosamente la sigaretta nel vecchio posacenere sul davanzale. «Sei libero di andartene. Nessuno ti farà del male. Non potrai mai completare la Spettrosonda senza finanziamenti, quindi non disturbarti a portare via i progetti...»

«È qui che ti sbagli, Sakaki.» Per la prima volta, lo sguardo di Jonathan si accese di una malignità che Sakaki non si sarebbe mai aspettato. No, non stava bluffando, si rese conto con orrore. «Non sei il solo ad apprezzare il mio genio. E non sei di certo l'unico uomo ricco di questa regione.»

Solo in quel momento Sakaki comprese appieno la portata abissale, mostruosa della rabbia e del tradimento di Jonathan Silph. No! La Spettrosonda, che celava il grande segreto della sua vita...

«Non oseresti.»

Non era una sfida, era una supplica, nell'unica forma in cui era in grado di esprimerla. Ma il ghigno che si dipinse sul volto di Jonathan Silph lo fece ammutolire.

«Tu hai sempre pensato che fossi stupido, ma non è così. Ho riflettuto, sai? Qualche cosa ce l'hanno insegnata, all'Università, sulle normative e sulle equipe di ricerca. Noi non abbiamo contratti, certificazioni, permessi... la nostra società non è mai esistita come tale, dunque io non ti devo niente, e non c'è niente che dimostri che tu hai a che fare con quei progetti.»

«Non puoi farlo» mormorò Sakaki, appoggiandosi con tutto il proprio peso contro il muro. Gli venivano meno le forze.

«Sei certo che non possa farlo, Sakaki? Ti sorprenderò. Sei stato tu a parlarmi di vendetta e forse non avresti dovuto farlo. Hai fatto male a cercare di approfittarti di Jonathan Silph.»

Quando Jonathan gli passò accanto per l'ultima volta, aprì la porta e la richiuse dietro di sé, Sakaki non ebbe moto. Rimase stupidamente immobile, appoggiato al muro, con gli occhi spalancati e vacui, incredulo e impotente alla sola idea di essersi lasciato ingannare da quello scienziato eccentrico e un po' stupido. Continuò a fissare il vuoto anche mentre il rombo fastidioso della vecchia automobile scassata di Jonathan, che si allontanava, portava via con sé l'unico vero obiettivo della sua vita.

Il suo telefono suonò ma Sakaki se ne rese conto solo dopo svariati squilli. Rispose a fatica, con movimenti goffi, impacciati: «Pronto?»

Si sentiva la mente leggera e ovattata, come se tutti gli stimoli esterni gli arrivassero con qualche secondo di ritardo. Erano le reclute che circondavano la casa per sorvegliare tutti i movimenti di Jonathan.

«Capo, Silph se ne sta andando. Dobbiamo lasciarlo andare?»

Sakaki non rispose. La sua mente stava lavorando a rilento, faticosamente. Era la prima volta, dopo la prima in assoluto e più grande, che qualcuno si prendeva gioco di lui in quel modo.

«Capo? Ha sentito?»

«Lasciatelo andare.»

«Sta uscendo da Lavandonia, capo. Ne è sicuro?»

Vi fu un lungo attimo di silenzio. Finalmente, con voce un poco più decisa, egli disse: «Sì, ne sono sicuro. Lasciatelo andare.»

Concluse la telefonata senza aggiungere altro. Voltandosi, scostò per un momento la tendina bianca, giusto in tempo per vedere la vecchia automobile sferragliante voltare l'angolo per sempre. Gli sarebbe bastata una telefonata e quella macchina sarebbe finita fuori strada, Jonathan Silph sarebbe scomparso per sempre, l'unico altro essere umano a conoscere il segreto della Spettrosonda e della sua anima... ma non telefonò e lasciò che quel maledetto pazzo uscisse dalla sua vita, per il momento.

Prese a percorrere l'ingresso a grandi passi, mentre la sua mente lavorava febbrilmente. La situazione non era del tutto incontrollabile, non ancora: la Spettrosonda non era ancora irreparabilmente al di fuori della sua portata. Al contrario, il tradimento di Jonathan poteva rivelarsi un insospettato vantaggio. Aveva già investito moltissimo denaro per quel progetto, e di certo avrebbe dovuto spenderne ancora svariate volte tanto prima di arrivare alla brevettazione. Ma ora Silph si sarebbe rivolto ad altri sponsor, avrebbe ricevuto nuovi fondi... certo, magari avrebbe fondato una sua propria azienda. Bene, concluse finalmente tra sé, che Jonathan Silph si divertisse pure con i suoi giocattoli e le sue strampalate invenzioni: un giorno, Sakaki si sarebbe vendicato anche del suo tradimento e tutto quanto Jonathan Silph fosse riuscito a creare fino a quel momento sarebbe stato suo.

Stava per accendersi un'altra sigaretta quando lo sguardo gli cadde sulla pozza di brandy allargatasi al suolo tra i cocci di vetro. Probabilmente non era una buona idea accendere una fiamma vicino all'alcol: la scavalcò in una sola falcata e si diresse alla porta.

Fu allora che gli venne l'idea. Si guardò pensierosamente attorno, soppesando l'ingresso con lo sguardo. Non aveva più bisogno di quell'inutile casa, ormai, ora che il laboratorio aveva perso la sua utilità. A che pro tenerla più a lungo, con tutti i tediosi ricordi che a essa erano collegati?

Prese di nuovo il telefono che aveva insospettito Jonathan già svariati mesi prima e richiamò la recluta. Gli ordinò di procurarsi del cherosene.

«Cherosene, capo? Ho capito bene?»

Normalmente, Sakaki gli avrebbe dato dell'idiota, ma in quel momento si sentiva troppo eccitato per farlo.

«Sì, hai capito bene. Stanotte ce ne andiamo, ma prima faremo a Lavandonia un regalo che non dimenticherà facilmente.»

Quella notte, Sakaki osservò estatico la casa dove la sua famiglia – la famiglia del Sakaki che era morto – si era amata, aveva vissunto e pianto ben tre morti, e dove per poco la Spettrosonda non era venuta alla luce, bruciare.

   
 
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