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Autore: Angelo_Stella    19/10/2014    2 recensioni
1941, Berlino.
Duncan, un ventiduenne tedesco particolarmente fedele al Fuhrer, è un nazista perfetto. "Deutschland, uber alles!" è la frase che ripete al mattino, quando si alza per mirarsi allo specchio e crede fermamente nel suo significato. Ma le convinzioni che gli sono state trasmesse con tanta foga andranno a infrangersi.
È Trent che, tra un soffio di voce e una nota di una chitarra malandata, gli insegna la bellezza dell’amore.
Tratto dal testo
“Cosa ci sarebbe di sbagliato? Che ne sappiamo noi di che cosa sia o cosa debba essere l'amore? Solo perché il matrimonio è tra uomo e donna diamo per scontato sia così sempre? O è perché ci hanno abituato? Perché siamo ancora giovani per capire o perché semplicemente il pensiero … ci fa schifo?"
“Io … Insomma … E' così che va avanti il mondo, o no? Con l'amore di un uomo e una donna."
-
Siamo nel 1941 e Hitler trova in Ernst Röhm una minaccia.
Siamo nel 1941 e: “ [...] Tutto ciò richiede l'adozione di più incisive misure contro queste malattie nazionali. “
Siamo nel 1941 e: "Dobbiamo sterminare la radice e i rami di questa gente... gli omosessuali devono essere eliminati!".
....................................
Baci, Angelo e Stella
Genere: Sentimentale, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Duncan, Sorpresa, Trent
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale
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§ L'Angelo racconta §
 
* Corre nel sito e si ferma a respirare, con un sacco d'occhi addosso. Hanno tutti torcia e forconi. *
FERMI! FERMI!
Non mi ero dimenticata! Non. Mi. Ero. Dimenticata. Lo giuro!
Ho solo una … tedesca in casa! ^_^" Lo so, com'è strana, la vita! Ed eravamo a Milano, per questo non ho messo il capitolo prima ^_^
Comunque, per questo chappy, Stella mi ha quasi uccisa, non fatelo anche voi ;) Grazie!
E grazie anche a White Tiger per aver recensito lo scorso capitolo :) Spero ti piaccia anche questo ;) La storia è già mezza scritta e se ci sono ripetizioni che non ti piacciono, mi scuso. E' solo ... stile, credo ^_^
 
Buona lettura, Angelo




Capitolo 5

COLLABORAZIONE CON Stella_2000
 
Ogni tanto sentiva ancora dolore alle spalle, Trent. Non mancava di controllarsele, tutti i giorni, ogni due o tre ore, scostando un poco il collo della maglia larga. E questo solo per ricordarsi d'avere sulla schiena, dieci lividi.
Nelle ore in cui circolava poca gente, alzava anche l'indumento all'altezza dei fianchi, scoprendo altri segni, più chiari e più allungati, in cui si potevano identificare lunghe dita e mani possessive.
Ripensando, poi, aveva continui brividi: non lo scandalizzava affatto, stare con un uomo. Non l'aveva mai scandalizzato vedere due uomini baciarsi, né s'era mai porto il problema che l'amare o meno una persona del suo stesso sesso fesse giusto o sbagliato.
Non era quello il punto! Il punto, era lui, Duncan. Aveva cambiato radicalmente la sua vita, per poter stare con lui, le sue abitudini, le sue idee, i suoi ideali. Nonostante il nazista l'avesse negato, l'aveva sentito, quel giorno a casa sua, mentre era sotto la doccia: pugni al muro, calci, a volte certi brutti urli … L'uragano che aveva; la paura, anche, forse. Fragile.
Fragile allora e fragile in seguito, fragile quando l'aveva picchiato. Quando l'aveva portato alla periferia di Berlino, l'aveva disorientato, poi, perso negli occhi e nei gesti. Non era stato più lui per un po', gli era sembrato un altro, totalmente diverso. A volte l'angoscia in viso.
Le sue mani lasciavano lividi, sì, ma i suoi occhi imprimevano nella memoria del ragazzo ben altre cose che non avrebbe mai voluto vedere, in lui più di tutti, ma anche negli altri: era una persona buonissima, Trent, non aveva mai veramente giudicato i tedeschi per il loro modo di pensare e di fare, per la loro lingua o perché si credessero i re del mondo. Non giudicava, no e non voleva il male, per nessuno!
Non lo pensava più come un ragazzo tanto forte. Veniva da una famiglia forte e aveva degli amici forti, come quel ragazzo che tanto invidiava. Quello coi capelli rossi che vedeva sempre con lui per le strade, anch'egli molto ammirato dalle donne ariane, quello che aveva la possibilità di godere della compagnia del suo amante.
Non che Duncan desse molta importanza a Scott, quando erano insieme. Quasi non lo guardava; gli rispondeva poiché, forse, qualche sua parola ancora ancora gli arrivava all'orecchio anche se distrattamente, quel tanto che bastava per comprendere e replicare.
Specialmente da quando avevano fatto l'amore (perché entrambi lo sapevano: quello avevano fatto!), il tedesco era veramente diverso, a casa e per strada e con chiunque, effettivamente quasi più sereno, e, chi non l'avesse notato, sarebbe stato seriamente cieco.
Il cantante ci ripensava quando una qualsiasi immagine in strada prendeva il suo sguardo, facendolo vagare in un posto lontano, in qualunque altro posto, in mare aperto, solo loro due, quasi fantasmi, pressoché inesistenti per il mondo, su una nave, vivendo di baci e viaggi e paesaggi di mille città diverse, di montagne e di boschi.
Poi riapriva gli occhi e quella falsa Eldorado dove viveva l'accecava, col suo oro delle vie e delle case, delle teste e del sole, a volte persino riflesso nello sguardo delle persone.
Se pensava che in mezzo a tutto quello splendore mitologico, ci fosse uno come lui, quasi gli veniva da ridere. Non tanto per essere una macchia d'inchiostro nel perfetto manoscritto che era Berlino, quanto per il fatto d'essere una macchia d'inchiostro viva, con braccia, gambe, pelle e di sentirsi inchiostro dorato, per il semplice fatto d'aver accanto Duncan.
"Accanto", per modo di dire. A volte accanto sul serio, seduti uno vicino all'altro, spesso nella pioggia, quando la gente non c'era. A volte era tra le sue braccia, beandosi semplicemente di quell'abbraccio e di quel calore ormai familiare sempre ben accetto. Alle volte addirittura cercato. C'erano giorni in cui non lo salutava nemmeno, si gettava sulle sue labbra e basta, sempre stringendogli i fianchi. Forse ogni volta un poco di più. E giorni in cui anche quel preliminare non esisteva: preso per il polso e portato via, a volte nello stesso posto della prima volta, altre in un edificio abbandonato, sempre poco fuori la città.
Si faceva più audace, man mano che il tempo passava, aveva sempre più lussuria negli occhi e sempre meno vergogna. Lo notavano entrambi e al tedesco non pareva dispiacere, anzi: non era mai stato più contento. Lui era quello che doveva dirigere i giochi, lui quello che decideva. Lui e basta, sempre lui.
Era certo che nessuno se ne fosse accorto. Aveva detto a tutti che la sua tranquillità era dovuta ad un pensiero molto profondo e personale, riguardante il fare parte di una nazione così gloriosa e di un popolo così puro. "Non è colpa degli ebrei se sono nati tali!" Questo era ciò che diceva quando gli chiedevano del suo comportamento gentile con Courtney.
Inutile dire che la madre ne fu lietissima e quasi commossa. Quasi avesse un'immane bontà che, disse un giorno, mancava a moltissimi tedeschi.
Inutile dire che Scott si mise a prenderlo in giro fino alla morte. Anzi, sarebbe meglio dire che quasi lo disprezzava: secondo lui se la voleva scopare, quella servetta impura e senza valore, giusto per divertirsi con chi non era alla sua altezza. Ma la conversazione che partiva scherzosamente, finiva coi rimproveri.
"Non è saggio né normale, Ruschtmann!" lo ammonì anche quella volta, serissimo. "Puoi avere tutte le donne che ti pare, ma ariane, Duncan, mi capisci? Pensa se la mettessi incinta!"
Il punto era, che se avessero voluto star a guardar capello, Duncan non stava violando nessuna legge in vigore: non avrebbe mai potuto mettere incinta un uomo, né un uomo avrebbe mai potuto farlo con lui. E l'uomo con cui stava, non era ebreo, assolutamente. Non erano quelli i problemi! Era il fatto che Trent fosse un uomo, il problema!
"Non ti capisco!" continuò allora il rosso, lasciando cadere una mano sul tavolo. "Quella tua amica d'infanzia, Gwendolyn. E' bellissima ed è tedesca. Avessi avuto io una donna come lei, a quest'ora sarebbe madre dei miei figli e mia moglie. Non mi spiego il motivo per cui tu non voglia una donna come lei!"
Avesse saputo, avrebbe detto "Non mi spiego il motivo per cui tu non voglia una donna". Punto.
Non avrebbe mai voluto una donna ed ormai lo sapeva. Gwen era bellissima, era vero, ma non era colpa sua se Duncan era attratto dagli uomini.
Non sentiva più un brivido, nel pensarlo o nel dirselo, anzi, il pensiero di Trent lo faceva sempre sorridere: si era dimostrato più spudorato di lui, in effetti. Era certo non fosse stata la prima volta per lui, ma il fatto che ne sapesse di più in materia, forse lo irritava leggermente.
Forse. Perché forse un giorno di quelli avrebbe ammesso di non essersi mai trovato meglio. Non con Scott, non con Gwen, non con i suoi genitori. Con nessuno. Nessuno gli aveva mai fatto provare certe emozioni, né certi desideri.
Uscirono senza che Duncan rispondesse per poi incamminarsi per le strade, sorridendo cordiali a giovani ragazze bionde, salutandole con cenni di testa e facendo emettere loro risolini divertiti, le piccole mani davanti alle labbra.
Usò quei cenni come scusa, lo faceva sempre: fingere di salutare una delle tante bellissime fanciulle ed invece incrociare quegli occhi smeraldini, azzardare un sorriso più eloquente, ricco di sottosintesi, malizioso. Strizzare l'occhio e far appena in tempo a vedere che il giovane ricambiava ogni volta, ogni cosa. Poi rigare dritto, insieme al rosso.
Erano quelle espressioni fatte in un attimo eterno, per sempre impresso nella mente dei due, che facevano perdere sempre di più a Trent l'invidia e a Duncan la vergogna, poiché né l'uno né l'altro mancavano di osservare quegli occhi vogliosi e quei sorrisi.
Era in quei momenti che decidevano d'incontrarsi quella stessa sera, così, senza una parola e giusto per evitare sorprese al chitarrista.
Ed era allora che Trent cantava più forte, cosicché i berlinesi si giravano sempre di più a guardarlo, non potendo ignorare la sua voce. Erano momenti in cui Scott azzardava un commentino, facendo ridere Duncan. Momenti in cui lui accettava ogni persona, ogni mentalità presente in quella strada, perché in fondo, li ascoltava con orecchie sorde. Davvero, solo lui.
 
Si spostava continuamente per la città e per di più sempre in compagnia di quel suo amico dai capelli rossi: passeggiavano veloci per le strade, sfoggiando i loro migliori sorrisi davanti alle donne e alle giovani. Le facevano ridere, ne intrattenevano alcune per una manciata di minuti, certe volte persino si fermavano a parlare con molte di loro che portavano i bambini per mano. Li accarezzavano sulla testa, raccomandandogli di fare i bravi con la mamma e il papà. Auguravano a lei un futuro brillante per il piccolo e lo stesso bimbo alzava le braccia al cielo e gridava "Deutschland, uber alles!", con la sua piccola voce. Spesso capitava che si offrissero di riaccompagnare a casa le più giovani, che parlassero di politica con il loro padre nei loro salotti, che ricevessero complimenti per il loro servizio al Paese.
Ogni uomo che li incontrava era lieto di vederli, entrambi, ma col giovane moro erano sempre leggermente più lecchini. Parlavano tranquillamente con i soldati, sempre passeggiando per Berlino, e questi elogiavano le loro famiglie. Tutti insieme prendevano una birra (o più di una) nel bar più rinomato della città, fumavano una sigaretta e a volte, anche se erano sempre costantemente sobri, lodavano la Germania come mai in vita loro, facendo sentire a tutti la contentezza di essere ariani.
Sapeva ch'erano stati entrambi e più volte al cospetto di Hitler, sempre lieto di vederli, erano tra i suoi amici più intimi. A volte passavano giornate nella sua residenza, giorni a discutere con lui di strategia, a consigliarlo.
Molti applaudivano, durante certi discorsi fatti in pubblico dai giovani tedeschi: c'era sempre una piccola folla che s'accostava a loro e partecipava, ognuno dicendo la sua e complimentandosi per quelle idee "giuste" che a loro non erano venute in mente.
"I giovani sono sempre più intelligenti dei loro padri!" aveva detto loro una volta un anziano signore, battendo una mano sulla spalla di ognuno. "Deutschland, uber alles!"
E la folla gli aveva dato ragione, in un urlo d'approvazione, con cenni di testa da parte di tutti.
Quel giovane uomo gli pareva assolutamente normale, senza nulla che non andasse, anzi: era un esempio, i bambini tedeschi lo copiavano e l'avrebbero copiato, volevano essere come lui, da grandi. Imitavano la sua gentilezza con le bambine della loro età.
E, nonostante ciò, gli avevano detto di tenerlo d'occhio. Questo perché si diceva tra i pettegolezzi fondati, che fosse buonissimo anche con la sua serva ebrea. Non era visto di buon occhio, come comportamento, ma lui trovava che Duncan Ruschtmann disprezzasse quella razza, con ogni fibra del suo corpo.
Un giorno l'aveva visto pestare a sangue un giovane e povero cantante che se ne stava semplicemente per le strade, ad "allietare" la giornata con la sua musica a Berlino!
Quel giorno era quasi stanco di seguirlo: sempre con quello Scott Voeller, erano stati in un bar, avevano bevuto una birra e poi erano usciti ed avevano salutato donne e bambini, rallegrato il dì delle tedesche con un sorriso. Tutto normale. O quasi.
Era un osservatore, dopotutto; uno di quei pochi ariani in grado di esserlo. Il suo lavoro era quello, una spia: non si lasciava perdere un'occhiata o un sopraciglio alzato, o una parola. Per questo vide lo sguardo, il cenno, il sorriso ghignante un secondo, rivolto ad un giovane uomo, seduto lungo la strada. Che ricambiò. Poi suonò ancora e cantò, più forte.
E il ghigno fu il suo, mentre si faceva largo tra la folla, con buone nuove per il Capo. Sempre contento di vederlo, ma quel giorno, ne era certo, lo sarebbe stato di più!
"Il problema non sono gli ebrei!" gli disse, facendogli alzare un sopraciglio, scetticamente. Rispose con un sogghigno, leccandosi le labbra. Scelse bene le parole. "Il problema è un giovane cantante. Quei loro sorrisi … eloquenti, sono un problema. Quegli sguardi e quei suoi occhi di smeraldo."
 
"Buon giorno, Courtney!" la salutò quel mattino, sorridente, ricordandosi ancora della sera precedente.
"Buon giorno, Signore!" rispose lei, con un inchino rilassato ed un sorriso, per poi accompagnarlo giù per le scale. "Dormito bene, Mio Signore?"
"Benissimo, ti ringrazio."
Fece un sorriso verso di lei ed un cenno di congedo, per poi entrare con la sua solita platealità nella sala da pranzo, salutando con calma i genitori, sorridendo ad entrambi e facendo brillare gli occhi chiari per il sole che entrava dalla finestra.
Mangiò velocemente, scusandosi per l'eventuale maleducazione, informando i genitori che avrebbe avuto da fare per tutta il giorno, di non aspettarlo per il pranzo, né, casomai, per la cena. Poi uscì.
Sarebbe stato con Trent tutta la giornata, aveva deciso: le sere che passava in sua compagnia erano fatte di ore troppo veloci, troppo brevi. I baci che gli dava non gli bastavano più, ogni volta che lo lasciava, lo faceva sempre più controvoglia, ogni volta desiderando di poterlo tenere con sé, desiderandolo ancora, bramando di poterlo toccare di nuovo.
La fretta con cui lasciò la sala fece assottigliare gli occhi di suo padre, che lo seguirono con lo sguardo senza che il figlio se ne accorgesse: quei suoi comportamenti non gli piacevano affatto e nonostante la città intera lo adorasse, lui iniziava ad avere dei dubbi. Che nascondesse qualcosa? E cosa? E perché?
Courtney non gli era mai piaciuta, gli ebrei li aveva sempre odiati, mai aveva provato compassione per loro. Amava il suo Paese quasi di più che suo padre e sua madre, quasi più di quella fantastica ragazza ch'era Gwendolyn. Non capiva perché non l'avesse trattenuta a Berlino per sposarla! E perché non pensava minimamente a prendere moglie?
"Miei Signori!" interruppe i suoi pensieri la serva, facendo sbucare il visino dalla parta.
"Cosa?" fece il padrone di casa, irritato, passandosi una mano sulla fronte: la sua vocina gli dava alla testa!
"Chiedo perdono, ma c'è il Signor Alejandro Gaschieher che vorrebbe parlare con lei!" rispose la giovane, stando chinata in avanti, per timore di ricevere un solito schiaffo dal Signor Ruschtmann, che usava darle sberle anche semplicemente per il fatto di essere di cattivo umore.
A quel nome, però, l'uomo scattò repentinamente in piedi, dilatando le pupille, facendo stridere la sedia contro il pavimento. La tovaglia stretta in pugni incerti e il volto terrorizzato: quel nome! Volendo essere leggermente sacrileghi, il secondo uomo più importante di Germania, dopo il Fuhrer.
"Che entri!" mormorò allora, quasi senza farsi sentire dalla sguattera e risedendosi per un attimo. "CHE ENTRI, STUPIDA!" le urlò poi, rialzandosi e facendole un segno con il braccio di andare ad accoglierlo nel migliore dei modi.
La ragazza si strinse le mani al petto e corse fuori, spaventata, accogliendo l'ospite come conveniva, prendendogli il cappello e guidandolo, ringraziandolo mille e mille volte per la sua visita graditissima. Tremava comunque, e, appena l'ebbe lasciato in sala da pranzo, scappò nella camera di Duncan per rimetterla in ordine, non prima di essersi inchinata.
"A cosa devo la graditissima visita, Signor Gaschieher?" chiese l'uomo, in piedi, invitando lui ad entrare e la moglie ad uscire.
Era un giovane bellissimo, baciato dal sole di Berlino, neanche ne fosse l'amante, con meravigliosi occhi verdi, un fisico a dir poco desiderabile. Era al servizio del Governo tedesco. Era la Spia, ma solo in pochi lo sapevano. Duncan non lo sapeva, ma suo padre sì e sotto il suo ghigno divertito, iniziò a tremare.
"Signor Ruschtmann, ogni volta che entro in una casa tedesca ho l'impressione che questa abbia qualcosa da nascondere!" fece il ragazzo, sedendosi dinnanzi al padrone di casa e facendogli cenno d'accomodarsi.
"Signor …"
"Alejandro, la prego!" lo fermò calmissimo con una mano, mettendosi ad ascoltarlo con le mani a coprirgli le labbra, i gomiti puntati sul tavolo, gli occhi scintillanti.
"Alejandro," riprese il padre di Duncan. "sono a conoscenza dell'eccellente servizio che lei svolge per lo Stato." spiegò, come se fosse ovvio.
"Quindi, secondo lei io non potrei far una visita di piacere ad un vecchio collega? Lei mi ha insegnato i trucchi del mestiere, non è vero?" replicò il giovane con tono innocente, quasi offeso.
L'uomo annuì, quasi rimpiangendo quei tempi in cui andavano in giro insieme, senza farsi notare e lui gli insegnava come guardare ogni singolo particolare della città. Poi si era ritirato ed in quel momento, Alejandro l'aveva addirittura superato.
"Ma non è così!" azzardò Ruschtmann.
L'altro alzò le sopraciglia.
"E' così?" chiese allora il Signore, stupito, ma quasi tirando un sospiro di sollievo.
Gaschieher scoppiò a ridere. "Ma l'hai detto tu: non è mai così! Che fosse per quello, io non l'ho detto!"
 
Le sue mani ora sui fianchi, ora sulla schiena, le sue labbra sulle sue e la sua lingua che toccava la propria. Quelle carezze sempre più impure, azzardate da parte sua. Era diventato tutto assolutamente normale per Duncan, normale sentirlo così vicino, normali i lividi che anche lui aveva iniziato a lasciargli impressi, come tatuaggi, per ricordargli che fosse stato lì. Normalissimi i brividi, perché nonostante imparasse velocemente, ogni volta Trent gli mostrava qualcosa di nuovo, lasciandolo indietro.
D'altro canto, il musicista doveva ammettere che sempre più difficile era sorprenderlo, ma in un modo o nell'altro, ci riusciva comunque. E allora ghignava ogni volta, più che soddisfatto, sentendo i suoi gemiti.
Ciononostante, era naturale che volesse comandarlo e quasi ogni volta era così. Anche se era uno stronzo come pochi altri che aveva conosciuto, non si sottraeva mai, nemmeno quella prima volta, quando, mentre ancora gli accarezzava la schiena, gli aveva sussurrato "Ti amo" all'orecchio, facendolo perdere quel poco che bastava per entrargli dentro velocemente. Aveva urlato, stritolandogli una mano e facendolo ridere. In seguito, l'aveva insultato fino alla morte.
In quel momento, era ancora "gentile", con lui. Si beava dei suoi baci, a volte strappandogli un lamento leggero, mordendogli le labbra ed esplorando la sua bocca sempre di più con la lingua, togliendogli il fiato. Artigliando i capelli neri e guardando ogni tanto i suoi occhi verdi, mordendogli il collo e le spalle, senza lasciarlo andare, cercando alla cieca i bottoni della sua camicia e quello dei suoi pantaloni, accompagnando la mano con delle carezze sul suo corpo.
Quando finalmente lo lasciò libero un secondo, dopo un ultimo bacio, ormai senza camicia né pantaloni, Trent prese a spogliarlo, facendo pressione, in modo da farlo cadere, restando sopra, per poi baciare e leccare il suo petto nudo, a volte succhiando anche.
"Impari in fretta!" gli rivelò in un orecchio, per poi baciarne il lobo.
"Già!" Lo ribaltò. "E tu le cose me le rendi molto semplici." mormorò poi, ad un centimetro dalle sue labbra. Gli diede un bacio, per poi lasciare che lo spogliasse, comunque chiarendo che voleva comandare lui.
Trent annuì: per una volta, poteva lasciarlo fare. Glielo disse.
"Una volta, due volte … Sempre!" ghignò il tedesco, per poi passargli un dito in mezzo alla schiena, godendo nel vederlo rabbrividire, gettare la testa all'indietro ed abbandonarsi a lui.
Lo sapeva che l'avrebbe lasciato fare tutte le volte che voleva. E anche tutte quelle che non voleva. Che non era poi così spudorato, dopotutto, anche senza avere addosso quella vergogna che magari aveva avuto il suo compagno, inizialmente.
Non ce n'era più traccia: dopo due mesi era in grado di fargli di tutto e di più senza abbassare lo sguardo una volta. Mentre lo baciava, lo guardava sempre negli occhi, perché "gli occhi generano l'amore".
Forse era stato così anche per loro, infondo. Trent amava i suoi occhi, non più di quanto amasse lui, ma erano comunque quelli che lo rapivano, facendolo volare in quei cieli di cui sperava a volte e vagare nei mari che immaginava vedere, quelli senza orizzonte.
Per Duncan, invece, gli occhi del ragazzo in un certo senso lo disorientavano, spesso lo fermavano completamente. Ma erano così sognanti di luce, che alla fin fine lo "perdonava" e dopo due mesi, ormai, un bacio non glielo toglieva nessuno, dopo uno di quegli sguardi.
 
Non fu difficile trovarli: Alejandro li aveva già seguiti, restando fuori dalla casetta ed annotando minuziosamente ciò che vedeva e ciò che sentiva, molto distintamente.
Li disprezzava per quello che erano e fu più che felice di schiaffare in faccia la verità al Signor Ruschtmann, sbattendo sul tavolo quelle annotazioni, dallo sguardo più innocente, al rumore più osceno, all'immagine più rivoltante, al bacio più volgare …
Quando li trovarono, dove Alejandro aveva detto, dormivano svestiti, abbracciati e molti uomini, disgustati, erano usciti, non riuscendo a sopportare la vista. Lui, invece, si era avvicinato, munito di manganello e aveva dato un colpo ad entrambi nella schiena, facendoli cadere a terra.
Spalancarono gli occhi: solo il tempo di guardare il terrore scuotere il corpo dell'altro. Non si toccarono nemmeno. Neppure poterono guardare lui. Preferirono chiudere gli occhi, mentre sui loro corpi bianchi apparivano altri lividi scuri.
Ma senza amore dentro.
 
WRITTEN BY Angelo Nero
   
 
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