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Autore: Elle Douglas    21/10/2014    1 recensioni
'Ci facciamo sedici foto, e cerchiamo di cambiare espressione e posa in ognuna per renderle diverse.
Alla fine davanti a quella camera diamo anche la testimonianza del nostro amore, e a quello dedichiamo più foto.
Usciamo da lì, e la macchinetta ci da quelle foto un po’ sceme, un po’ serie, un po’ pazze, un po’ innamorate, un po’ noi.
Io le guardo con il mento sul suo braccio mentre lui le tiene in entrambe le mani.
‘Tu quale vuoi?’, dice tenendole in mano ed esaminandole insieme a me.
‘Non posso prenderle’, gli dico affranta.
Lui mi osserva, poi intuisce.
‘Ah, già. A volte dimentico…’, fa lui tra il serio e il dispiaciuto.
‘Specie in serate come questa’, aggiungo io. ‘… in cui tutto sembra perfetto. Noi siamo perfetti’.
-
*Seguito in parte di 'My life with you (Simply Dream).
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 1. Come siamo arrivati fino a qui?

 
 
Non so ben dire come fini in quella situazione.
E non mi capacitavo del fatto, che dopo anni vissuti insieme in cui lui e solo lui riusciva a farmi star bene,  tutto finisse così.
Dove vanno tutti gli amori finiti? Tutto quel sentimento che riversi su una persona che fine fa a un certo punto?
 
Non poteva continuare di certo in quel modo.
Proprio per niente, ero ritornata a casa totalmente nuova, e, incredibile a dirsi, non ero più io.
Quello che era successo al Comic Con era stato strano, molto strano ma mi ci ero persa dentro, ci avevo vissuto e per quanto mi riguardava erano stati i migliori tre giorni passati in tutto l’anno.
E nemmeno era per il Comic Con in sé.
C’era dell’altro, o meglio qualcun altro, e mi sentivo in colpa.
Ci sentivamo in colpa.
E ora non facevo altro che pensare a lui, sempre costantemente.
E lui, d’altro canto faceva lo stesso.
Era un continuo scambio di messaggi, chiamate e parole strane che ci dicevamo, in cui la maggior parte delle cose veniva celata a Robert, quando mi chiamava e io gli ero accanto.
E i sensi di colpa mi assalivano.
E lui che cominciava a sospettare qualcosa di tutto quel accanimento tra noi due, di quelle voci lanciate dai media e io che continuavo a ribadirgli che eravamo solo amici e che doveva star tranquillo.
Ma non era vero.
Niente di ciò che gli dicevo era sincero, la nostra storia era sull’orlo, non riuscivo a stargli più accanto come prima e anche lui iniziava a rendersene conto.
E quella decisione, che sembrava tanto lontana a momenti risultava la più giusta, in altri la più crudele.
 
Non l’avevamo pianificato.
Niente di tutto ciò che era successo era stato programmato e quando i nostri occhi e le nostre labbra si erano incontrate in quella stanza d’albergo era successo davvero per caso.
Non era nessuna scena da provare, nessuna scena da girare, nessun personaggio era stato spinto a quella mossa.
Eravamo noi.
Che strano era ora ripensarci.
Come si era evoluto tutto.
Dal parlare eravamo finiti allo scherzare e dallo scherzare le sue labbra erano finite sulle mie.
Prima in modo delicato, incerto, insicuro, instabile.
Quasi cercasse la mia approvazione per andare avanti in quel gioco di sguardi e promesse fatte sulle labbra che non avevamo il coraggio di dire a voce alta, non avevano nulla a che fare con il telefilm stavolta.
E io glielo diedi, quel consenso, senza remore, senza pensieri, quasi come se fossi libera.
E allora quella determinazione arrivò, perché doveva essere lui a spingermi ad essere sicura, da sola non ce l’avrei mai fatta.
E i suoi baci si fecero più saldi e duraturi, certi.
Potevo sentire meglio il retrogusto del sale mischiato alla dolcezza di quella caramella alla ciliegia appena consumata che era ancora ferma sulle sue labbra, potevo sentirlo con me, coinvolto con me in quel gioco di bocche che si avvinghiavano l’una con l’altra, e si bramavano a vicenda.
Con un gesto mi prese dai fianchi e mi spostò di più verso il muro, trovando un appoggio stabile.
E io mi lasciavo trasportare da lui, senza nemmeno badarci.
Ero letteralmente nelle sue mani.
Con una presa decisa mi portò di più verso di sé, in modo più stretto e marcato.
Quasi a farmi diventare sua anche in quel modo.
I miei fianchi, il mio corpo si adattarono perfettamente al suo che mi premeva contro e iniziò a prendere fuoco sotto il suo tocco e le farfalle nel mio stomaco iniziarono a triplicarsi.
Mi sentivo leggera.
Desideravo sempre di più le sue labbra e sentivo sempre più la sua barba solleticarmi il viso.
Era come una frenesia.
Mi avvinghiai a lui portandogli le braccia intorno al collo.
Chiusi gli occhi per assaporare ancora meglio quel momento e lo sentii per un attimo sorridere sulle mie labbra.
Felice di quella resa.
Sorrisi anch’io.
I suoi gesti come le sue labbra andarono sempre con più decisione a fondo, in un bacio che pian piano ci toglieva il fiato.
Era stupendo, lui. Era qualcosa che nei mesi si era sempre più intensificato e rivelato importante e fondamentale, dentro e fuori il set, e da tempo una certa attrazione era esplosa in me per lui, ma cercavo di giustificarla con il personaggio, cercavo di tenerla a bada, anche quando lui a volte scherzando fingeva di provarci e mi provocava durante le prove, dove nemmeno dopo poco era lui stesso a scoppiare a ridere imbarazzato ed esclamando un ‘Stavo scherzando’.
Ed ora eravamo lì, appoggiati a quel muro di quella stanza d’albergo al Comic Con a cedere a ciò che da mesi ci nascondevamo entrambi.
A cedere a ciò che fingevamo non esistesse.
Perché si sa che reprimere un desiderio non è mai una buona cosa.
Può scattare da un momento all’altro in modo violento e farti ritrovare così come eravamo ora.
Gli tolsi la giacca in preda al momento, mentre ancora ero sulle sue labbra, spalle al muro.
Nessuno dei due si sarebbe staccato dall’altro, di questo ero certa.
I suoi baci si fecero più vogliosi, più affamati e quasi non riuscii a tenere più il passo di quel ballo diventato troppo veloce.
Se ne accorse e rallentò per venirmi dietro.
Lo volevo, davvero. Ogni centimetro del mio corpo lo bramava in una maniera potente e inusuale.
E lui non faceva altro che farmi capire lo stesso.
Le mie mani poi scivolarono sul suo collo, verso la camicia che iniziai a sbottonare, andando a tentoni, senza capire davvero ciò che stavo facendo.
Le sue mani salirono più verso la mia schiena per stringermi ancora di più a sé.
Stavo perdendo il respiro, ma non mollavo.
Non l’avrei fatto.
Lui era stato la prima persona che avevo conosciuto sul set dopo aver accettato la proposta di lavorare nella serie.
Era stato lui ad impararmi, a rassicurarmi e a darmi le dritte su come dovessi interpretare al meglio il personaggio.
E quella parte, destinata ad apparire in una puntata o due si era poi estesa a tre, a quattro fino ad essere rinnovata per la quarta stagione della serie perché i fan amavano la storia di un pirata e una ragazza conosciuta come zingara e volevano saperne di più.
Ed era lì, che pur essendo felice mi si rattristò il cuore, perché immaginavo la tortura a cui andavo incontro e che ora si presentava proprio davanti ai miei occhi, anzi alle mie labbra.
Le nostre bocche erano lì da minuti interminabili, potevano essere passati anche secoli per quanto mi riguardava, perché quello che stavo avendo era qualcosa che avevo persino dimenticato e che quell’uomo davanti a me, mi stava ricordando.
Ci staccammo dopo un bel po’, e fu un dispiacere farlo, ma avevamo bisogno di ossigeno e nei nostri polmoni l’avevamo esaurito davvero tutto.
Ero scombussolata. Stentavo a credere a ciò che era successo. Che avevo fatto?
I suoi occhi erano a pochi centimetri dai miei, quei due pezzi di cielo, erano lì in quella stanza, e mi fissavano ardentemente, mentre lui era del tutto trafelato, quanto me.
Cercavamo di riprender fiato, almeno un po’ prima di ricominciare.
E mentre lui era davanti a me, con i suoi occhi nei miei, intento a riprender fiato iniziò a scendere.
La sua bocca iniziò a scendere lentamente sul mio collo nudo.
Un bacio, due, tre, quattro… mi avvinghiai forte a lui cercando di non morire in quel modo.
Mi stava facendo impazzire, e lo sapeva benissimo.
‘Ti prego…’, dissi ansimante. E lo tirai su, di nuovo prima che la cosa precipitasse oltre, e iniziai a baciarlo con lo stesso vigore di prima.
Lo volevo, ma piano.
Lui sorrise nuovamente contro le mie labbra, e ricominciò allo stesso ritmo.
Mi staccai piano dalle sue labbra e lo fissai negli occhi a pochissimi centimetri dai miei.
‘Sei la mia rovina’, ansimai.
Lui sorrise, con quel sorriso che mi faceva impazzire.
‘Posso dire la stessa cosa’, ammise nella mia stessa situazione.
 
Poi un telefono cominciò a squillare.
Era il mio, e di colpo tornai alla realtà dei fatti.
Mi staccai quasi bruscamente.
Sorrisi timidamente a chi avevo di fronte e mi congedai, liberandomi dalla sua stretta, in cui avrei preferito rimanere.
Ebbi un colpo al cuore mentre gli voltavo le spalle.
Superai la debole parete su cui lui era rimasto appoggiato e andai nella camera accanto.
 
Un nome che sembrava avere caratteri cubitali lampeggiava sul display. Robert.
Cercai di ricompormi quasi come se potesse vedermi.
Quasi come se mi avesse visto nei minuti passati.
 
Ehi amore! Fece una voce dall’altro capo.
Cercai di sorridere, ma mi sforzai, lo potevo sentire. Quell’appellativo non mi dava gioia da mesi, e in questo momento non lo tolleravo per niente.
Era come una lama appuntita.
‘Ehi!’, biascicai, ancora con il fiatone, senza affibbiarli nessun nomignolo. Nulla.
Feci un lungo sospiro per riprenderlo tutto d’un fiato.
Una voce dall’altra parte restò ad ascoltare.
Sei andata a correre? Domandò scettico, mentre sgranocchiava qualcosa.
No, non stavo correndo Robert. Mi stavo lasciando andare, nel modo in cui non dovrei, nel modo in cui mi lasciavo andare con te prima di tutto questo, dimenticandoti per un attimo e questo non va bene.
Non va bene per nulla.
‘Ehm…’, cercai le parole. Cosa avrei dovuto dirgli?
Mi sentii male, mi venne da vomitare, mi sentivo sporca e mi misi quasi a piangere.
Perché? Perché? Perché?
‘si, sono andata a fare un po’ di tapis roulant per scaricare l’ansia’, cercai di convincermi che ciò che stavo dicendo era vero. Non doveva sembrare il contrario.
Tirai su con il naso, cacciando via le lacrime.
Ma stai bene? Domandò lui, preoccupato.
Dannazione, percepiva tutto.
‘Si perché?’, cazzo avevo imparato a recitare. Fallo anche con lui. Ora.
Perché sembri raffreddata. Rispose secco lui.
E quanti significati si possono dare a quella parola Rob? Quanti? E’ l’unico che stai intendendo tu ora è quello che è proprio da escludere.
‘No, sono quei momenti improvvisi sai. Che fai?’, cercai di cambiare discorso.
Sono appena rientrato, ed ero intento a mangiare cinese, tu? Dove sei?
‘Anche io sono appena rientrata. Siamo stati a cena fuori con tutto il cast in un locale non lontanissimo’. Risposi con sicurezza.
Tutto bene? Hai mangiato?
Sembri mia madre a volte, sai?’ risposi di rimando.
Giusto, mea culpa. E lo immaginai alzare le mani.
Risi al modo in cui parlava il latino.
Mi manchi. Buttò giù, così. E mi spiazzò interrompendo bruscamente la mia risata.
Per la prima volta, restai senza parole a quell’affermazione, io che di solito era la prima e la stessa a dirglielo.
Cosa avrei dovuto dirgli? Anche tu? Quanto sarebbe stata vera quella risposta?
Quanto sarebbe stata sentita da parte mia?
Dovevo mentire anche su questo? perché non sentivo nulla di tutto quello. Non mi mancava.
Il mio cervello iniziava a scoppiare e il mio cuore, da parte sua, era da quell’uomo dall’altra parte della parete, perché lo sapevo che era lì sin dall’inizio, e non si degnò nemmeno di rispondere facendo accelerare un battito. Sembrava muto, quella sera.
Van, ci sei?
Troppa attesa. Troppa attesa avevo dato.
‘Si ci sono, scusa’. Scusa, ma il mio cuore stasera è silenzioso Rob ed è incapace di battere come una volta per te. Si sta legando ad un altro, e non so tenerlo al suo posto accanto al tuo, ecco il problema.
Perché il cuore fa di testa sua, non è come il cervello. Non si spegne e non gli imponi per chi deve battere.
Va da sé, e fa male quando non è la sua solita direzione.
Ti sento strana stasera…  allude. Sembri lontana, oltre ad esserlo fisicamente.
Colpita e affondata.
Iniziai a piangere, in silenzio.
‘No, davvero Rob, ti chiedo scusa. E’ che sono stanchissima stasera. Lo sai che i viaggi e i letti nuovi mi mettono sottosopra. Poi mettici la tensione del Comic, delle interviste, degli incontri… non ho dormito per nulla ieri’. Ed è l’unica verità che stasera gli concedo, perché le altre sarebbero scomode, e difficile da digerire.
Lo so, ma cerca di stare tranquilla. Domani torni. Risponde lui entusiasta cercando di incoraggiarmi e farmi forza, non sa quanto mi stia buttando giù con quelle parole.
‘Lo so’, ribadii con gli occhi bassi.
Non vedo l’ora di rivederti. Non sono più abituato come una volta a starti lontano.
‘Si anche io’ replicai incolore.
Lui dall’altra parte pensò alla motivazione data prima del mio comportamento.
Okay, capito! Ti libero. Rise, di quella risata piena che mi riempiva il cuore, una volta.
Finsi una risata anch’io, ma si notava quando fosse falsa.
Riposa mi raccomando. Ti amo.
‘Anche io’, mi convinsi di quella risposta. ‘A domani’.
E buttai giù il telefono, lanciandolo sul comodino.
 
Mi rannicchiai sul letto, mi presi la testa tra le mani e piansi. Fino a far aumentare ulteriormente il mio mal di testa.
Potevo sentirlo quel dolore acuto squarciarmi le membra.
Era troppo, troppo per me, e non potevo reggerlo.
Non potevo reggere quel magone.
Quel senso di cose a metà, quell’amore a metà.
Non ce la facevo.
 
 
Sapevo che lui era lì, alle mie spalle, sulla porta.
Lo percepivo.
Ma nessuno dei due aveva la forza di andare dall’altro. Nessuno dei due quella sera mosse un dito, o disse una parola.
Sembravamo in una fase di stallo, senza capire bene come uscirne, e il fatto di avere le camere comunicanti non aiutava.
Non aiutava per nulla.
 
Il rombo di un motore, e un clacson mi riportarono in vita.
Mi ero addormentata, e il cuscino era pieno di mascara e linee nere.
Mi voltai verso la sveglia sul comodino per rendermi conto dell’ora.
Le 6.36.
Tutto intorno era ancora buio. Cercai di trovare l’interruttore della luce a tentoni e l’accesi.
Il silenzio della notte mi metteva sempre l’ansia.
Tutti i rumori, tutte le forme, tutte le paure nel buio si manifestano.
Cercai di alzarmi e mi stiracchiai per bene.
Poi a passo lieve camminai a piedi nudi sulla moquette della stanza e mi diressi alla valigia per prendere il cambio.
Mi diressi in bagno, controllando che non ci fosse nessuno.
Mi feci una doccia, senza pensare.
Volevo davvero essere vuota e senza pensieri in testa.
Mi concentrai sull’acqua che mi scorreva addosso e mi purificava, ma non del tutto.
Di certo non poteva rimuovere ciò che era stato la sera prima, e sinceramente non lo volevo neanche.
Qualcosa dentro di me, in sua presenza iniziava a decorrere per conto proprio, e io volente o nolente non avevo poteri su questo tipo di cosa.
Non eravamo nel mondo delle favole dopotutto.
 
Uscii dalla doccia, dopo una buona mezz’ora, e forse anche qualcosa in più.
Mi strizzai i capelli nell’asciugamano e li lasciai cadere sulle spalle sentendo un brivido di freddo.
Tutto il mio corpo emanava un vapore, amavo fare la doccia con l’acqua caldissima.
Tanto non rischiavo rossori, la mia carnagione copriva bene ogni tipo di cosa.
Infilai gli abiti che mi erano stati assegnati per quella mattina per l’intervista da Josh.
Una vestito leggero, sull’azzurro senza maniche e scoperto sulla schiena mi calzò a pennello.
Me lo aggiustai alla meglio prima di uscire.
Legai i capelli in una coda mezza asciutta, che poi sarebbe stata aggiustata dopo insieme al mio viso a chi di dovere, raccolsi la mia roba ed uscii a capo chino, scalza dal bagno che era tipo una nube di vapore.
Aprii la porta e mi fermai di colpo.
‘Scusa’, fece lui imbarazzato e quasi intimidito. Era a petto nudo, con le sue solite collane, i capelli scompigliati dal risveglio, e solo un paio di pantaloni.
Arrossì di colpo, e alzai lo sguardo.
‘No, scusa tu. Ci ho messo troppo?’, tirai fuori, tenendogli la porta.
Mi sfiorò la mano per tenerla e una vampata si fece strada in me.
Il cuore voleva scappare da lui insieme a tutto il resto.
Basta. Mi rimproverai da sola, cercando di tenermi a bada.
‘No, figurati. Mi sono appena svegliato’. Replicò sforzando un sorriso.
Lo sentivo distaccato, e non volevo.
Avrei voluto dirgli qualcosa ma non ce la facevo e mi bloccai.
‘Ora vado altrimenti si fa tardi’.
‘Si, si certo!’, acconsentii io abbassando lo sguardo e voltandomi.
 
Non sopportavo quella situazione e mi giurai che quando sarebbe uscito dal bagno, gli avrei parlato.
Non volevo stare così con lui.
Ma non ce la feci, e quando uscii feci finta di nulla.
Che vigliacca, mi dissi.
 
‘Senti…’ cominciò lui, cogliendomi di sorpresa mentre sistemavo le ultime cose, affacciandosi alla porta della mia camera. ‘Volevo parlarti di ieri’, avanzò entrando.
Mi alzai da terra, dove ero a gambe incrociate.
‘Volevo chiederti scusa per ieri sera. Non doveva succedere. Tu sei impegnata e tutto questo non è giusto. Ho pensato a me, a ciò che volevo, ai miei istinti e non ho tenuto conto della tua situazione’.
Perché si stava scusando se ero io quella che aveva sbagliato?
Lo guardai incredula, non capendo il suo discorso.
Mi alzai e lasciai le robe com’erano alla rifusa.
Mi avvicinai.
‘Pensi sia stato tu a sbagliare? Sono io quella che doveva restare al suo posto. Sono stata stupida e ho tirato dentro anche te in tutto questo. Quella che deve dispiacersi sono io’, replicai cercando di non avvicinarmi troppo a lui, non perché non volessi, ma perché ogni contatto avrebbe prodotto delle conseguenze che non riuscivo a frenare del tutto.
Non era padrona dei miei movimenti con lui accanto.
E ogni gesto sarebbe risultato inconsulto.
Iniziai a giocherellare con le dita per distrarmi.
Ma ciò che programmavo io, non programmava di certo lui, che rapidamente a quelle parole si avvicinò a me e mi prese le mani nelle sue, fissandomi negli occhi, accigliato.
La combinazione perfetta.
Ero fritta, e non sapevo che fare.
 
I suoi occhi erano poco distanti dai miei, e le sue labbra… dio sembravano chiamare le mie.
Che iniziavano a prudere a quel desiderio.
Mi morsi un labbro per calmarmi, per allontanare ogni minimo pensiero di contatto tra noi.
‘Vedi, non è colpa tua, Colin. Le cose si fanno in due. E non pensare che in questo momento lo stesso istinto di ieri sera non sia dentro di me e non voglia riemergere. Sto solo cercando di tenerlo a bada, anche se fa male, è questa la verità’. Ammisi tutta d’un fiato, prima che fiatasse.
Sorrise e si rabbuiò un secondo dopo.
‘Siamo in due’.
Inspiegabilmente mi ero ancora di più avvicinata a lui.
D’un tratto tra i nostri corpi non c’era più distanza, nessun pezzo mancante. Avevo lasciato le sue mani e avevo raggiunto il petto, il suo petto caldo con un cuore che al di sotto pareva essere al galoppo con il mio.
La mia mente, frutto della ragione, mi urlava contro.
Sapeva cosa sarebbe successo, ma il cuore.
Il cuore no.
Andava per conto suo e trascinava tutto il corpo con sé, e per me non c’era via di scampo.
‘Non sai quanto vorrei baciarti, in questo momento. Quanto vorrei che tu fossi mia’, mi disse lui cingendomi i fianchi.
Il mio cuore era in festa a quelle parole.
Dimmi altro Colin, allontanami se puoi perché io da sola non ce la faccio.
Abbassai il volto e serrai le labbra negando quella voglia che avevano di finire sulle sue.
‘Il fatto è, che provo qualcosa di forte per te e mi sembra di morire in tua presenza, ad ogni tuo contatto, ad ogni tuo sguardo. Mi riprometto che devo essere forte e poi tu, i tuoi sorrisi e tutto ciò che sei mi togli tutte le mie sicurezze e le mie difese e io resto inerme. Sono vulnerabile’.
Alzai lo sguardo, perché sapevo che se lo avessi guardato prima in quegli occhi non mi sarebbe uscita neanche mezza parola di ciò che avevo appena detto.
Lui mi asciugo le lacrime della quale io non mi ero neanche accorta, erano sgorgate da sole.
I suoi occhi erano nei miei, e a me sembrava di avvampare fino all’anima.
Lui si chinò verso di me, e il mio cuore perse un battito.
Un tenero bacio sulla guancia.
‘Forse è meglio così’, sentenziò tra il dispiaciuto e l’afflitto, lasciandomi.
 
‘Ragazzi avete 10 minuti’, gridò qualcuno dai corridoi.
 
‘Vado a prepararmi’, avvertì lui.
‘Si anche io’.
Vado a prepararmi alla fine.
 

 
Ciao a tutti coloro che sono entrati, casualmente o volontariamente su questa storia.
Presento di poco la storia in sé.
Le vicende avvengono in seguito a ‘My Life With You’, la storia precedente a questa.
Vanessa entra a far parte del cast di OUAT nel ruolo di Esmeralda, personaggio che nello show non esiste, ovviamente.
Tutto è nato da me, così per caso, e di solito quando ho un idea tendo a buttarla giù, e con questa mi sono ritrovata a mandarla avanti.
Piccola altra precisazione: Colin O’Donoghue, nel mio ‘racconto’ non ha alcuna moglie e nessun figlio, mi sono voluto complicare di meno, perché la storia è già complicata in sé, da come avrete compreso forse.
Quella impegnata nella mia storia è lei, che ha una storia con Robert Pattinson… e beh, andando avanti vedrete che piega prenderà la sua storia.
Più di questo non vado, perché vi spoilererei (?) troppo. Lol
Io spero che la storia vi piaccia, e che la seguiate.
 
Lasciatemi pareri a riguardo, se vi va. 
   
 
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