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Autore: _ayachan_    19/10/2008    23 recensioni
A cinque anni dalle vicende de "Il Peggior Ninja del Villaggio della Foglia", che ne è stato delle promesse, dei desideri e delle recriminazioni dei giovani protagonisti?
Non si sono spenti con l'aumentare dell'età. Sono rimasti sotto la cenere, al caldo, a riposare fino al giorno più opportuno. E quando la minaccia è che la guida scompaia, quando tutt'a un tratto le scelte sono solo loro, quando le indicazioni spariscono e resta soltanto il bivio, è allora che viene fuori il carattere di ognuno.
Qualunque esso sia.
Versione riveduta e corretta. Gennaio 2016
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'eroe della profezia'
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Penne 12
03/02/2016


Capitolo dodicesimo

L'arte di evitare gli argomenti scomodi




Quando erano state assegnate le stanze agli shinobi di Konoha, Chiharu non era stata l'unica infastidita dagli assortimenti: anche Kotaro e Hitoshi, che pure avevano sempre dormito insieme senza farne questioni, avevano storto il naso all'idea di condividere la camera.
Non avevano ancora parlato, dal giorno della partenza. Di fronte ai cancelli di Konoha era successo qualcosa, nemmeno loro avrebbero saputo dire cosa, ma era successo. Da allora avevano trascorso insieme meno tempo possibile, ma arrivati a Suna si erano visti mettere nella stessa stanza ed era stato chiaro che non sarebbero più riusciti ad evitarsi. Se era stato un sollievo sapere che avrebbero lavorato tutto il giorno a chilometri di distanza, non altrettanto si poteva dire della notte.
Kotaro si rigirò per l'ennesima volta, cercando di convincere i muscoli affaticati a rilassarsi per lasciarlo dormire. Durante il giorno aveva lavorato più duramente del solito, sudando fino a quando gli uomini che lavoravano con lui lo avevano costretto a smettere, eppure il sonno tardava ad arrivare. Forse era la consapevolezza che a un metro dal suo letto c'era Hitoshi, e che quello stesso Hitoshi aveva combinato qualcosa, in qualche modo, qualcosa che andava oltre i loro taciti accordi.
Si rigirò ancora. Lo aveva visto confabulare con Chiharu. Aveva sentito la stranezza nella voce di lei, aveva visto la postura colpevole di lui. Lo aveva visto, maledizione, e qualunque cosa fosse non era corretto!
«Cosa hai fatto?» chiese di colpo, sorprendendo se stesso per primo.
«Dormirei, se tu la piantassi di far casino» borbottò Hitoshi dal suo letto, aprendo gli occhi a fissare il buio. Ci siamo, pensò con una punta d'ansia.
«Cosa hai fatto con Chiharu.»
Silenzio.
«Niente.»
Non appena lo ebbe detto Hitoshi si maledisse per l'attimo di esitazione, e capì di aver fatto un grave errore.
«Era ubriaca. Le hai messo le mani addosso?» continuò Kotaro, le mandibole serrate al punto da far male.
«Che diavolo dici?»
«L'altra sera, dopo il ramen. Cosa è successo?»
«Che vuoi che ne sappia? Io sono tornato a casa mia.»
«E Chiharu?»
«Non sono la sua balia. Chiedilo a lei se ti interessa tanto!»
«Allora cosa vi siete detti il giorno della partenza?»
Hitoshi serrò le labbra, ragionando febbrilmente. Si sentiva ancora irritato al pensiero di come Chiharu aveva volutamente scelto di ignorare quel che era successo tra loro, ma non poteva certo confidarlo a Kotaro.
«Parlavamo delle firme» tentò.
«Palle!» scattò Kotaro, gettando indietro le lenzuola e accendendo rabbiosamente la luce del comodino.
Hitoshi si tirò su per riflesso, pronto a rispondere in caso di pericolo. I due ragazzi si fissarono, in pigiama, arruffati e sul piede di battaglia come galli in un pollaio: da un lato Kotaro, le braccia muscolose e i buffi occhi a palla, dall'altro Hitoshi, attraente e pallido, sulla difensiva.
«Tutti i bei discorsi di quella sera erano stronzate?» continuò Kotaro. «Stai davvero provando a tenere insieme il gruppo o stai solo cercando di convincere me a continuare a farlo?»
Hitoshi accusò il colpo. In effetti la sera del ramen non aveva pensato al loro gruppo neanche per un minuscolo frammento di secondo... Ma si poteva davvero fargliene una colpa?
Per un istante pensò di vuotare il sacco e mandare al diavolo Kotaro.
Poi ricordò che Chiharu non voleva sapere niente di quello che era successo tra loro. Era l'equivalente di un rifiuto, un rifiuto che non aveva proprio voglia di condividere... Così si trattenne.
«Ma che diavolo ti prende all'improvviso?» disse, buttando indietro le coperte e facendo per alzarsi.
«Cosa fai?» scattò Kotaro irrigidendosi.
«Vado in bagno. Tu ritorna in sesto.»
Hitoshi sparì oltre la porta sotto le occhiate guardinghe di Kotaro, che rimase fermo a darsi dello stupido. Quando sentì il rumore dell'acqua che scorreva, gemette, ripiegandosi su sé stesso.
Aveva affrontato la questione nella peggior maniera possibile. L'unico modo che avevano per restare in bilico era non parlarne mai, e lui aveva appena infranto il loro patto più segreto.
Cosa mi è preso?, si domandò passandosi una mano tra i capelli. Solo perché li aveva visti confabulare quel giorno, non significava che Hitoshi lo avesse tradito. Non necessariamente. Potevano aver parlato di centinaia di altre cose diverse, probabilmente di uno dei mille patemi dell'Uchiha, dallo sharingan ai suoi fratelli a Naruto. Una cosa qualunque.
«Sono un imbecille...» mormorò sfregandosi il viso. Stavo per mandare all'aria il lavoro di cinque anni per una paranoia.
Quando Hitoshi uscì dal bagno Kotaro trasalì.
«Adesso possiamo dormire?» chiese subito l'Uchiha, trascinando la voce in tono estenuato. «E' stata una giornata pesante.»
«Io... Credo che sarebbe il caso, sì.»
Hitoshi sospirò interiormente, sollevato. Aveva schivato un brutto fendente, poteva dirsi quasi graziato. Raggiunse il letto e tornò sotto le coperte mentre Kotaro spegneva la luce.
Silenzio.
«Scusa.»
«Dormi, Kotaro.»
Kotaro tirò su le lenzuola e rimase a fissare il buio.
Cinque anni passati a salvare l'idea di loro tre insieme. Cinque minuti per rischiare di far saltare tutto. Questo significava che era vicino al limite di sopportazione: presto non sarebbe più riuscito a mettere il gruppo davanti alle sue esigenze.
Si rigirò ancora una volta, dando le spalle a Hitoshi e abbracciando il cuscino nervosamente.
«Quindi... Parlavate solo delle firme?» sussurrò.
Hitoshi finse di non sentire. Kotaro non insisté.



*


Nei quattro giorni trascorsi dal loro ingresso nel Paese della Roccia, Jin e Kakashi avevano raccolto molte più informazioni del previsto e visto cose peggiori di quanto si aspettassero. La situazione era più drammatica di quanto dicevano i dispacci, constatò Kakashi mentre correva con Jin attraverso la campagna. Nel cielo notturno brillava solo un piccolo spicchio di luna, a malapena sufficiente per indicare il cammino. Attorno al sentiero che percorrevano, i campi di miglio e grano mostravano tracce di ferite ormai vecchie, forse opera del maltempo, e le spighe giacevano abbandonate e ormai marce. Dei contadini che dovevano raccoglierle non c’era traccia.
Jin correva dietro al padre senza aprire bocca, muto e obbediente come il migliore dei Jonin, ma Kakashi iniziava a chiedersi quando avrebbe mostrato la prima reazione. Da Izano a lì si erano già imbattuti in una ventina di villaggi, metà dei quali era stata saccheggiata o versava in stato di estrema povertà: per quanto Jin fosse preparato Kakashi sapeva che nessun uomo può nascondere i propri sentimenti troppo a lungo, in special modo quando sono sentimenti forti come la repulsione. O la paura. La sua paura, tanto per cominciare, perché il discorso valeva anche per lui.
Temeva che prima o poi Jin se ne sarebbe accorto. Chissà se in quel momento avrebbe rotto il suo giuramento per fargli delle domande? Lui se lo sarebbe aspettato, forse lo avrebbe fatto per primo, alla sua età. Se alla sua età avesse ancora avuto un padre. Sbatté le palpebre per allontanare quel pensiero: la campagna devastata di un paese nemico non era il luogo migliore per riesumare vecchie ferite. Se voleva aiutare Jin a mantenere la parola doveva mostrarsi sicuro ed efficiente, senza una sola debolezza.
«Più avanti c’è un villaggio» disse Jin a quel punto, e Kakashi aguzzò la vista. In lontananza si alzava un filo di fumo sotto cui si intravedeva una massa informe di abitazioni. «Controlliamo la situazione?»
Kakashi annuì. La loro meta, aveva spiegato a Jin una volta entrati nella Roccia, era Anka, un villaggio di medie dimensioni all’interno del Paese. Per raggiungerlo la via più breve era la vecchia strada commerciale che portava al Paese del Fuoco, ma spesso avevano dovuto viaggiare ai margini del percorso per evitare carovane di profughi o mercenari in cammino, così avevano allungato un po’ i tempi. Se non vedevano tracce di militari passavano all’interno dei centri abitati, ma se notavano guardie dovevano fare ampie deviazioni.
Si avvicinarono con cautela. Il nome del villaggio era scritto con gli ideogrammi di ‘vento’ e ‘sole’, ma il cartello che lo indicava giaceva a terra tra i resti della vegetazione marcescente e un angolo era stato eroso dalla muffa. Poco oltre, la strada si inoltrava tra costruzioni buie e maleodoranti, invasa da assi spezzate, porte divelte, vasi rovesciati e cenci probabilmente pieni di persone. Non si vedevano guardie.
Kakashi capì subito che anche se fossero passati per la strada principale nessuno avrebbe fatto domande. Mentre lui e Jin camminavano, il passo istintivamente lento, non poterono fare a meno di guardarsi intorno. Quella di Kakashi fu un’occhiata breve, che si posò leggera su uno spettacolo avvilente e passò oltre; quella di Jin fu di natura opposta: quando i suoi occhi incrociarono un ragazzino infagottato che dormiva contro una parete, una voce dentro di lui insinuò che probabilmente aveva la sua età, che forse era una femmina, magari assomigliava a Hinagiku, e che quasi sicuramente, in quelle condizioni, per vivere era arrivata a fare le cose peggiori.
Non riuscì più ad allontanare gli occhi. La volta dopo fu un vecchio, che forse era già morto nei suoi stracci. Più oltre una donna cercava di rompere un osso e succhiarne il midollo, nascosta in un anfratto buio; quando li vide si ritrasse spaventata. Andando avanti, altri fagotti, altra stoffa sottile e fredda, altri polsi e altri resti. Jin sentì lo stomaco contrarsi inorridito. Kakashi se ne accorse e aumentò il passo. Le case saccheggiate erano pozzi di oscurità che si offrivano allo sguardo senza pudore, la strada era percorsa da un rigagnolo maleodorante. Negli angoli più bui si sentiva il fruscio delle zampe dei ratti che lottavano ad armi pari con gli uomini, e ovunque, in sottofondo, il sussurro del vento che spazzava i campi perduti.
Quando furono fuori Jin tossì, cercando di controllare la nausea. Il cattivo odore lo aveva preso alla gola, gli aveva fatto pizzicare gli occhi e aveva azzerato la salivazione. Aveva visto luoghi simili negli ultimi giorni, ma la somma del fetore e della desolazione dei villaggi precedenti qui gli aveva fatto raggiungere il limite.
Kakashi gli permise di respirare un soffio d’aria che veniva dalla campagna perché gli ripulisse i polmoni. Jin si piegò sulle ginocchia, costringendo il cuore a rallentare e lo stomaco a distendersi, poi incrociò il suo sguardo.
«Tutti quei posti... Sono stati i mercenari del Daimyo?» chiese con un filo di voce.
«Sì. Siamo troppo lontani dal confine perché sia opera dei nostri.»
«Perché non se ne vanno? Perché restano lì a marcire?»
«Alcuni se ne sono andati. La maggior parte, probabilmente. Chi è rimasto sa che non vivrà a lungo. Marciscono, come hai detto tu.»
«Ma perché?»
C’era rabbia nella voce di Jin ora. Non si chiedeva perché i mercenari saccheggiassero i villaggi, si chiedeva perché la gente si arrendesse.
«Perché in fondo siamo tutti deboli» mormorò Kakashi, passando lo sguardo sul miglio piegato dalla pioggia. «Arriva sempre un momento in cui ci arrendiamo e lasciamo che la disperazione ci consumi. Per ognuno è un momento diverso, e io spero che il tuo sia stupido, che riguardi una tecnica che non riesci a completare o un rivale che non riesci a battere, come me e Gai. Ma prega che non riguardi mai la vita di nessuno. Prega che sia così, Jin, perché se lascerai libera la disperazione di fronte alla morte, sarà difficile non seguirla...»
Papà, dove stiamo andando esattamente?, avrebbe voluto chiedere Jin. Perché ho paura che le tue parole riguardino la mamma, se stiamo andando a prenderla?
Ma aveva giurato. Aveva dato la sua parola, non avrebbe fatto domande. Finché riusciva ancora a trattenersi non avrebbe infranto il loro patto, sarebbe stato alle regole del gioco. Per quanto il suo stomaco si contraesse, per quanto la sua schiena fosse umida di sudore freddo poteva ancora lasciare a suo padre i segreti che custodiva tanto gelosamente. Ancora per un po’.
Kakashi vide che aveva ripreso colore. «Sei pronto?» gli chiese.
Jin annuì, serio, e ripartirono di corsa. Anka distava meno di due giorni di viaggio.


*


Era raro che a Suna il cielo si rannuvolasse. Chiharu alzò lo sguardo verso la massa che si muoveva sopra il villaggio stemperando il blu dell’orizzonte. Corrugò la fronte, sentendo qualcuno prevedere pioggia, e fissò i batuffoli di zucchero filato con scetticismo.
«‘Sti cosi non fanno nemmeno ombra» brontolò accaldata.
«Che c’è?» chiese Temari, facendo dondolare il piede mentre aspettavano a un tavolino del bar vicino al palazzo. «Non stai bene?»
«Sì che sto bene» ringhiò lei irritata.
La sera precedente, durante il famoso tè in famiglia, non avevano fatto che parlare del suo cuore e di quanto fosse stata stupida a sbagliare droga cinque anni prima. Per l’intera durata della riunione tutti gli occhi erano rimasti puntati su di lei, ma la cosa davvero irritante era che nessuno le aveva mai fatto un complimento per aver aiutato a evitare il peggio.
Sperava che almeno Loria la spiona si fosse annoiata a morte, ammesso che non avesse avuto a sua volta un saggio consiglio da darle: se avesse seguito tutti i suggerimenti avrebbe dovuto mangiare solo carote e riso al vapore, dormire sedici ore al giorno e farsi portare in braccio su per le scale. Era inutile cercare di spiegare che il suo cuore era perfettamente a posto e che detestava che la considerassero invalida: prendersi cura della sua salute era diventato un passatempo internazionale.
Afferrò un tovagliolo sul tavolino e si fece aria mentre girava intorno lo sguardo. Lei e Temari erano arrivate prima degli altri, ma l’ora dell’appuntamento per il pranzo era passata già da qualche minuto. Forse Loria aveva trovato sospetto che decidessero di fare pausa tutti insieme e aveva trovato il modo di ostacolare gli altri?
«Vuoi un bicchiere d’acqua? Ci spostiamo dentro?» le chiese Temari scrutandola con attenzione. «Siamo sotto l’ombrellone, ma è sempre il clima di Suna...»
«Mamma, basta!» sibilò Chiharu. «Stai diventando insopportabile!»
«Hai preso le tue pastiglie stamattina?»
Stava per rovesciarle addosso il tavolino, ma fu interrotta dalla comparsa degli altri. Controllò lo scatto d’ira e tirò un sospiro di sollievo.
«Scusate il ritardo!» esordì Rock Lee, mentre i ragazzi univano un altro tavolo e aggiungevano le sedie mancanti. «Abbiamo preferito fare una doccia prima di presentarci al gentil sesso.»
«Tanto fra dieci minuti sarete di nuovo impestati di sudore» commentò Chiharu sbracciandosi per attirare l’attenzione del cameriere.
«Non io» replicò dignitosamente Hitoshi. Lui non sudava per il caldo, era una delle cose per cui le ragazzine andavano in visibilio.
Il cameriere si avvicinò per prendere le ordinazioni. I due Lee e Gai Maito rischiarono di svuotare la dispensa del bar, e Chiharu fu costretta a prendere una bottiglia d’acqua da due litri perché sua madre continuava a blaterare qualcosa sui rischi della disidratazione. Mentre aspettavano che il cibo arrivasse si diedero a chiacchiere vaghe e rapide occhiate. Durante quella pausa Gai e gli altri, che avevano saputo i dettagli del piano da Gaara, dovevano condividere le informazioni con Temari e Chiharu. Per farlo avevano stabilito di parlare in metafora, qualunque cosa significasse.
«Stanotte ho fatto un sogno assurdo!» esclamò Kotaro all’improvviso. «Devo assolutamente raccontarvelo.»
Chiharu e Temari lo guardarono storto.
«No, dai!» esclamò anche Rock Lee con eccessivo entusiasmo. «Non vedo l’ora!»
Chiharu fece una smorfia di incredulità.
«Anche io!» si unì Gai enfaticamente. «Vogliamo proprio sapere!»
Temari fece arrivare un calcio sotto la sedia a Chiharu, che le gettò un’occhiata stralunata di fronte ai suoi cenni con le sopracciglia. Le sfuggiva qualcosa?
«Dovresti stare attenta, Haru» disse Hitoshi con un'occhiata di rimprovero. «Penso che ti interesserà parecchio.»
Allora, finalmente, anche la kunoichi capì cosa intendevano quando avevano parlato di ‘metafora’ e fece un piccolo gemito: non aveva alcuna fiducia nelle capacità creative di Kotaro, era certa che sarebbe stato un disastro.
Ed ebbe ragione. Perché venti minuti dopo, davanti ai resti del pranzo e con i due litri d’acqua di Chiharu agli sgoccioli, tutti fissavano Kotaro con la fronte imperlata di sudore, Hitoshi incluso.
«...Quindi abbiamo aggirato la sorveglianza delle guardie, siamo entrati nella stanza blindata e abbiamo rapinato l’intero incasso» sorrise Kotaro, dopo aver simulato un vivace schema d’azione sul tavolo.
«L’incasso...» borbottò Rock Lee, teso nello sforzo della concentrazione.
«L’incasso, figliolo!» ripeté Gai in tono incerto, una mano a sostenere il mento prostrato.
«L’obiettivo della mis... Rapina» sbottò Hitoshi esasperato. «La rapina del sogno di Kotaro, che voi avete sentito anche ieri!»
«Sicuro!» esclamarono i due realizzando all’improvviso. «L’oro!»
Chiharu si lasciò andare contro lo schienale della sedia e portò una mano alla fronte. Dopo la contorta narrazione di Kotaro le era sbocciato un mal di testa da far invidia a Hitoshi.
«Com’è che siamo scappati?» chiese Temari, e Chiharu non poté evitare di lanciarle un’occhiata ammirata, perché evidentemente lei era riuscita a stare dietro al discorso.
«Con un diversivo» rispose Kotaro pronto, gli occhi brillanti ed entusiasti. «Uno di noi faceva da esca e ha convinto i cowboy a seguirlo mentre ce la svignavamo a cavallo.»
«Cavallo?» Temari si accigliò.
«Oh, sì, cavallo» ribatté Kotaro, lievemente incerto. Guardò Chiharu. «Non ricordo bene, ma forse ce lo procuravi tu...» inarcò le sopracciglia con intenzione.
Chiharu ricambiò lo sguardo senza capire.
«Non ho un maneggio» gli fece notare lentamente, parlando come si fa con i pazzi.
«Ehi, era un sogno!» protestò lui.
«Il che mi fa pensare che dovresti rivedere il menù della tua cena, ragazzo» commentò una voce flautata alle sue spalle.
I sei shinobi di Konoha alzarono gli occhi contemporaneamente: con un brivido si accorsero che Loria era lì, le mani appoggiate alla sedia di Kotaro, e li abbracciava con lo sguardo sorridendo a tutti.
«Pausa pranzo?» chiese Temari ricambiando il sorriso – a Chiharu sembrò più che altro che snudasse i denti in un avvertimento.
«Volevo solo vedere come procedono i lavori...» spiegò Loria vagamente, e spostò la sua attenzione su Gai e Rock Lee che si sfidavano con le dita per prendere l’ultima arachide – il tutto nel riuscito tentativo di cancellare lo schema disegnato da Kotaro con le cannucce.
«Vuole bere qualcosa?» offrì Hitoshi all’improvviso, senza sorridere.
Loria lo fissò leggermente sorpresa. «Ho già pranzato, grazie.»
«Posso raccontarle il mio sogno, se le interessa!» esclamò Kotaro con entusiasmo forse eccessivo, e a quel punto Loria corrugò la fronte e iniziò ad apparire imbarazzata.
«Veramente non...»
«E’ interessante, davvero interessante» la incitò Chiharu sfoderando un sorriso ampio e sornione. «Soprattutto la parte in cui gli alieni scendono sulla mongolfiera e ci danno manforte.»
La segretaria la fissò sbattendo le palpebre. Aveva saputo che gli shinobi di Konoha avevano intenzione di pranzare insieme e l’aveva considerato sospetto. Allora li aveva raggiunti in fretta, convinta di trovarli a confabulare sottovoce, e invece li aveva scoperti rilassati e a loro agio nel mezzo di un racconto fantascientifico che tuttavia aveva sollevato in lei qualche dubbio. Li aveva avvicinati, certa di cogliere qualche segno di colpevolezza almeno nei ragazzini, i più inesperti, invece si era vista offrire un cocktail e un riassunto di quello che, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe potuto essere un progetto per liberarsi di lei.
O era davanti a un esperto piano di depistaggio, o stava diventando paranoica.
In fondo Gaara non aveva alcuna possibilità di comunicare con Konoha, tentò di dirsi. Lo aveva sorvegliato attentamente in quei sei anni, ed era certa che nessuno sapesse del ricatto. Aveva controllato anche i messaggi che Kazekage e Hokage si scambiavano, ed era tutto regolare. Probabilmente gli aiuti dalla Foglia erano soltanto aiuti, dopotutto.
Si rilassò impercettibilmente, sfoggiando il solito imperturbabile sorriso. «Siete molto gentili» ringraziò. «Ma ora che mi sono accertata che siate a vostro agio penso che vi lascerò di nuovo soli. Il Kazekage ha bisogno del mio aiuto, altrimenti non saprebbe mai organizzare il suo tempo. Buon pomeriggio e buon lavoro.»
Così com’era arrivata, se ne andò senza fare danni. Chiharu guardò Kotaro, pensando che per una volta la sua ossessione per i dettagli li aveva salvati tutti. Lui, accorgendosi del suo sguardo, arrossì di piacere e si strinse impercettibilmente nelle spalle, al che lei lo gratificò di un sorriso, per quanto piccolo.
E Hitoshi, che aveva visto tutto mentre Temari rubava l’ultima arachide a Gai e Lee, tamburellò nervosamente le dita sul tavolino. A lui Chiharu non sorrideva dalla famosa sera della sbronza.
Credimi, se pensassi di poter fare di più lo farei, aveva detto a Kotaro.
Ma per essere proprio onesti, gli stava passando la voglia.


*


La vita di Sai da qualche anno era piuttosto monotona.
Se avesse dovuto spiegarne le ragioni, si sarebbero ridotte a un breve e avvilente elenco il cui andamento sarebbe stato all’incirca così:
  • dopo una certa età le ragazze che facevano la coda alla sua porta avevano iniziato a presentarsi con la speranza di un anello, il che riduceva la percentuale di tempo dedicata al divertimento e incrementava quella dedicata alle discussioni sulle variazioni della carta da parati;
  • le missioni che svolgeva come Jonin quasi anziano non potevano più essere molto impegnative, perché banalmente il suo fisico non le avrebbe rette;
  • tutti i suoi amici erano stati rapiti dai doveri famigliari, eclissandosi in una nube di pannolini, crisi ormonali e ansie di paternità inaspettate.
Vedendo le persone con cui era cresciuto andare avanti su percorsi sempre più lontani dal suo, aveva dovuto fare alcune riflessioni sgradevoli ma necessarie.
Per esempio, per quanto apprezzasse la libertà che comportava il celibato, ogni tanto Sai si trovava a pensare che avrebbe potuto cedere a uno dei brillii che scorgeva negli occhi delle sue amanti... Forse il matrimonio gli avrebbe ridato qualcuno di quegli stimoli che sentiva venir meno anno dopo anno. Le donne che gli ronzavano intorno con quelle intenzioni erano due o tre, tutte ragazze pericolosamente vicine al limite in cui non potevano più definirsi ragazze, signorine di bell’aspetto che avevano atteso il partner giusto per troppo tempo o avevano rifiutato le offerte in maniera sconsiderata. Almeno una di loro avrebbe accettato una proposta di matrimonio senza pensarci un secondo, ma sfortunatamente era anche quella a cui proprio non lo avrebbe chiesto.
Però pensava di sposarsi, questo sì, e ci pensava abbastanza seriamente. Avrebbe avuto la soddisfazione di applicare una carta da parati - una qualunque, purché non se ne parlasse più - comprare un maledetto anello, appendere i kunai al chiodo e finalmente chiacchierare con i vecchi amici di pannolini e crisi premestruali. Non era una prospettiva entusiasmante, ma sembrava piuttosto naturale.
Fino all’arrivo di Chiharu.
Sai non aveva mai preso sul serio le sue promesse da tredicenne. Aveva sempre pensato che avesse detto che lo avrebbe conquistato solo perché aveva mezzo litro di morfina in circolo, non perché ci credesse davvero. E invece aveva fatto male i conti.
Questo era stato un elemento imprevisto nella sua monotona vita, una novità in grado di scardinare la sua risoluzione di prendere moglie e fargli riprovare il brivido del Sai ventenne che veniva corteggiato da ragazze come Ino. Era stata una bella sensazione, certo inaspettata, ma bella. Lo aveva fatto sentire affascinante e potente, gli aveva fatto credere che poteva ancora essere l’aitante giovanotto di un tempo.
Quando l’aveva vista comparire sul cornicione della finestra per la seconda volta aveva provato una punta di fastidio, perché aveva pensato alla difficoltà di spedirla a casa da suo padre; ma poi, accogliendola e mettendola alle strette, aveva vissuto un déjavu che da tempo non gli tornava alla mente: Ino. Ino che giurava e spergiurava che avrebbe dettato lei i ritmi del corteggiamento, Ino che si stizziva quando lui nominava Shikamaru, Ino che lo guardava con un sorriso furbo ogni volta che si accorgeva che il suo flirt andava a segno. Erano passati tanti anni, ma il brivido di quei tempi era ancora lì, sepolto sotto la polvere del tempo.
Certo, ora Ino era sposata con Choji e Sai la incontrava solo come amico, quando capitava, ma era stata per certi versi la sua relazione più importante. E ironicamente, se le cose fossero andate in maniera completamente diversa, Chiharu sarebbe potuta essere sua figlia, non di Temari. La cosa aveva un che di perverso, si era detto, ma non aveva mai avuto grossi problemi ad affrontare le proprie perversioni.
Naturalmente tutto ciò non aveva a che vedere con qualche merito particolare di Chiharu. Anzi, la ragazza era molto goffa, una corteggiatrice noiosa e una pessima conversatrice. Se avesse cercato di sedurlo vent’anni prima le avrebbe riso in faccia, ma adesso che si avvicinava ai quaranta non faceva più lo schizzinoso. Era un peccato che fosse stata spedita in missione proprio adesso.
Nello stimolante panorama della sua seconda giovinezza c’era solo un piccolo grande problema: faticava ad essere spontaneo quando si trovava davanti Shikamaru - e temeva che se per disgrazia avesse incontrato sua moglie la situazione sarebbe stata anche più difficile. Per fortuna era facile evitarlo, considerato che il pigro Nara cercava di rendersi irreperibile il più possibile, ma ora che Temari era via lo si vedeva in giro un po’ più spesso. Sai avvertiva un insolito senso di disagio quando lo incrociava per strada.
«Tu hai qualcosa che ti preoccupa» gli disse un giorno Ino, mentre Sai si rassegnava a comprare dei fiori al suo negozio per una delle aspiranti spose che gli ronzavano intorno. «Hai le pieghe attorno alla bocca quando qualcosa ti preoccupa. Dovresti smettere di fare quella smorfia, alla nostra età le rughe di espressione si cementano nella pelle.»
«Sei davvero così attenta a dettagli come questi?» chiese lui lisciandosi la faccia con una mano.
«Il mio mestiere è vendere: devo sapere di che umore sono i miei clienti. Allora, cosa c’è che non va? Un’altra spasimante che piangerà vedendo le margherite perché voleva un anello?»
«Piangerà?» Sai scrutò il mazzo di fiori e cercò di visualizzare il momento in cui li avrebbe consegnati. Oh sì, la ragazza quasi non-ragazza avrebbe pianto. «Potrei prendere delle rose...»
«Se lei vuole un anello, non ti basterà comprare tutto il negozio. Quando metterai la testa a posto, eh?» sbuffò Ino appoggiandosi al bancone con i gomiti. «Essere sposati non è così male. Sesso regolare, almeno i primi tempi, affitto dimezzato e una spalla su cui piangere. E i bambini! Oh, i bambini sono adorabili.»
«Pensi davvero che potrei trovare i bambini adorabili
«Li troveresti molto interessanti. Totalmente imprevedibili, privi di schemi e convenzioni. Per te sarebbero divertentissimi.»
«Posso studiare quelli degli altri, se è questo che intendi.»
Ino fece una smorfia. «Quelli degli altri sono rischiosi... Non sai mai come la prendono i loro genitori. Comunque se vuoi farla piangere un po’ meno, prendi un mazzo gigante di rose rosse e scrivile un biglietto che la carichi di aspettative.»
«Per i genitori?»
«Per la tua spasimante, stupido!»
Sai mise giù il mazzo di margherite e obbedì docilmente. Ino gli preparò un mazzo di rose che minò seriamente il suo budget mensile, gli scrisse un biglietto che lasciava intendere vaghe promesse sul futuro e lo salutò con un sorriso smagliante e la cassa rigurgitante di banconote. Sicuramente sapeva fare il suo mestiere. Chissà come avrebbe reagito sapendo che la figlia diciottenne della sua più vecchia fiamma stava cercando di infilarsi sotto le stesse lenzuola che aveva occupato lei un tempo... Al ricordo, parte della concentrazione di Sai deviò su piacevoli episodi del passato a cui non ripensava spesso: in effetti la giovane Ino avrebbe potuto dare molte dritte alle entusiaste quarantenni di oggi; Choji era stato un ragazzo molto fortunato o incredibilmente abile, Sai non aveva mai scoperto quale delle due.
Qualcosa disturbò i margini della sua area di attenzione, riportandolo bruscamente alla realtà. Smise di camminare e si voltò, appena in tempo per vedere un piede sparire dietro un muro.
Normalmente non faceva molto caso alle persone, a meno che non appartenessero alla famiglia Nara - e solo di recente - ma qualcosa nella figura appena scomparsa gli aveva fatto suonare un campanello d’allarme.
Alzò lo sguardo sui palazzi che delimitavano la strada, inizialmente estranei, poi sempre più familiari, e prima che fossero passati dieci secondi si incamminò rapido nella direzione in cui aveva visto sparire il piede misterioso.
Quella zona del villaggio era benestante: ville dagli ampi parchi recintati, palazzi con portieri che facevano il quarto grado ai visitatori, aiuole accanto ai cancelli e asfalto sempre fresco. L’aria era pervasa dal profumo di fiori che emergeva dagli invisibili giardini, e in quella cornice Sai, con il suo mazzo di rose gigante e i suoi abiti da quattro soldi, sembrava un facchino in cerca dell’indirizzo per una consegna.
Eppure conosceva quelle vie, anche se le aveva sempre attraversate di notte, saltando di ombra in ombra. Le conosceva così bene che avrebbe potuto attraversare l’isolato ad occhi chiusi senza mai attirare l’attenzione di una guardia. Svoltò l’angolo a cui aveva svoltato l’uomo; lo vide in fondo alla strada, fermo davanti a un cancello. Stava parlando con una guardia, e un secondo dopo fu introdotto all’interno dell’abitazione, inghiottito dalle mura di roccia spessa.
Sai raggiunse il cancello oltre il quale l’uomo era sparito. Si fermò ad osservare l’alta struttura di bambù affilato, oltre la quale si intravedeva un tetto decorato, quindi scivolò con lo sguardo all’ingresso. Dal nome sulla tavoletta dell’indirizzo riemerse il ricordo di una famiglia nobile piuttosto in vista, i cui membri erano storiche colonne del Consiglio.
Mentre leggeva gli ideogrammi incisi nella lacca e cercava un collegamento con l’uomo che gli era sembrato di riconoscere, la memoria di Sai scavò indietro, molto indietro, anni e anni prima, quando ancora Naruto era il più incapace allievo di Jiraya e lui un valido membro della Radice agli ordini di Danzo. Scavando così a fondo un volto riemerse dalla nebbia dei ricordi, il volto di un compagno d’armi di cui non ricordava il nome - anzi sì, Hatsu - e insieme a quel volto si fecero avanti una gran quantità di informazioni.
Quando Danzo era stato arrestato e la Radice smantellata, Hatsu era stato rilasciato perché era poco più di un ignaro esecutore. Con lui molti altri erano stati mandati a casa senza note sulla fedina penale, e Sai ricordava bene che alcuni di loro lo avevano considerato uno sporco traditore. Hatsu non era tra quelli: alla caduta della Radice aveva scrollato le spalle e aveva detto che avrebbe continuato a lavorare come shinobi anche se gli avessero affidato incarichi minori. Non sapeva fare altro che il suo mestiere, e non era particolarmente devoto alla causa di Danzo.
Se Sai non andava errato Hatsu era rimasto Chunin e lavorava all’Ufficio per lo Smistamento delle Missioni; il che, sia per lo stipendio che per il prestigio che questo comportava, rendeva assolutamente incomprensibile la sua presenza in quella zona del Villaggio e il fatto che fosse appena stato invitato all’interno di una residenza nobiliare. Tanto più che quello era stato il quartiere di Danzo, tanti anni prima.
«Cerca un indirizzo in particolare?» chiese un portiere alle spalle di Sai.
Il Jonin si voltò e gli sorrise. «No.»
Il portiere lo scrutò con sospetto, quindi guardò l’abitazione di fronte e si chiese se fosse il caso di avvisare la sicurezza della casa.
«Sono solo un ammiratore della signorina» aggiunse Sai, ostentando i fiori con un movimento vago. «Ma ora che sono qui davanti il mio dono sembra totalmente inadeguato.»
Il portiere guardò con compassione le rose rosse e l’abbigliamento del giovane. «Vai a casa, ragazzo» consigliò in tono paterno. «Qui non c’è niente per te.»








* * *



Salve a tutti!
Chiedo scusa per il ritardo nell'aggiornamento,
ma ho trovato improvvisamente del lavoro e mi hanno chiesto di presentare una quantità impressionante di documenti,
per cui devo scomodare tribunale, medici del lavoro e il Papa, credo.

In compenso abbiamo finalmente capito qualcosa di più sulle losche (?) motivazioni di Sai,
e introdotto una grossa, grossissima parte che nella vecchia versione di Penne non esisteva.
(E che dà uno scopo all'esistenza di Sai. Tipo.)

Niente Naruto in questi capitoli,
ma presto tornerà in gran forma
(perché mi sono riletta le parti di Sinners in cui dava di matto. Aww!).



  
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