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Autore: LimoneMenta    29/10/2014    0 recensioni
Erano poco più delle sei, quella mattina, quando era uscito di casa e si era diretto alla fermata dell'autobus. E l’aveva trovata, fasciata in un abito rosa stranamente non troppo corto, il trucco sbavato e la pelle violacea per l’aria gelida di gennaio. Era rannicchiata tra il cestino dell’immondizia e la ringhiera della fermata.
Storia senza troppe pretese, ispirata da un Tenente che prende il pullman con tutti i giorni. Questa è per i sorrisi che ogni tanto mi fai quando mi giro. Grazie
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La Fermata dell’Autobus

Erano poco più delle sei, quella mattina, quando era uscito di casa e si era diretto alla fermata dell'autobus. E l’aveva trovata, fasciata in un abito rosa stranamente non troppo corto, il trucco sbavato e la pelle violacea per l’aria gelida di gennaio. Era rannicchiata tra il cestino dell’immondizia e la ringhiera della fermata. Tremava e teneva gli occhi chiusi. La conosceva: la vedeva tutte le mattine sul autobus, quando si recava all’Accademia Militare. La osservava di nascosto ascoltare la musica dalle sue inseparabili cuffiette bianche e mentalmente si chiedeva come facesse a non perdere l’equilibrio, senza mai reggersi, mentre tutti gli altri (lui compreso) si aggrappavano al primo appiglio disponibile. Era straordinariamente bella, i lunghi capelli biondi che sbucavano dal suo onnipresente berretto marrone. Com’era possibile che non ci fosse ancora nessuno alle sei del mattino? Senza neppure pensarci, si chinò su di lei e l’avvolse con la sua giacca, prendendola in braccio e stringendola forte al petto. Era ghiacciata. Fece dietrofront e camminò il più veloce possibile per portarla al caldo, al sicuro nel suo piccolo appartamento. Non la guardò per tutto il tragitto, aveva paura che fosse troppo tardi e soltanto quando fu dentro casa si accorse che non aveva aperto gli occhi neppure per un istante. Sembrava morta, se non fosse stato per le ciglia che ogni tanto tremolavano sulle guance. L’adagiò sul suo letto e le sfilò scarpe e abito troppo leggero, sostituendolo con una delle sue maglie a maniche lunghe, pregando che non si svegliasse proprio in quel momento e che non lo scambiasse per un maniaco. Che fu esattamente ciò che si sentì quando rimase a fissarla incantato un po’ più del dovuto. Dopo averle rimboccato le coperte, afferrò la lunga pochette argentata e frugò all’interno: chiavi di casa, cellulare, cuffie, soldi... carta d’identità. Lesse in fretta i dati anagrafici: Rota Rebecca, diciannove anni, studentessa. La rimise velocemente al suo posto, accertandosi che non mancasse nulla all’appello. Si sedette ai piedi del letto e appoggiò la testa sulle ginocchia, cercando di pensare a cosa dovesse fare. Poi tutto si fece buio.

                                                                                                                                                        
Quando si svegliò, c’erano due cose che non quadravano: la sveglia che segnava le due del pomeriggio e lui accovacciato sul pavimento ancora in divisa militare. Oltre al collo che suonava allegramente la fanfara con le sue giunture. Si rialzò massaggiandosi le tempie e dirigendosi in cucina, sicuro che un caffè l’avrebbe aiutato a rimettere insieme tutti i pezzi di ciò che rea successo. Perché qualcosa doveva essere successo. E poi, quello che vide gli riportò alla mente tutto: lei se ne stava al centro del suo minuscolo salotto, gli occhi sbarrati e le mani che tentavano disperatamente di coprire le cosce nude con la maglia che lui stesso le aveva dato. Aveva i capelli biondi arruffati e il trucco sbavato, ma la pelle aveva riacquistato qualche tonalità più rosea, segno che stava meglio. Almeno fisicamente. Sembrò riconoscerlo, perché smise di cercare di coprirsi e si lasciò cadere sul pavimento, abbandonandosi a una lunga serie di lacrime e singhiozzi.                                                     
«Ma porca...!» Interruppe l’esclamazione in tempo, lui che odiava la volgarità, e si agitò sul posto, incerto sul da farsi. Poi mandò mentalmente al diavolo la cautela e si chinò accanto a lei, avvolgendola con le braccia e stringendola forte a sé. La sentì aggrapparsi al suo petto, scossa da un pianto violento e si promise inconsciamente che nessuno l’avrebbe mai più fatta soffrire così, finché lui sarebbe stato in vita. Si sedette sul divano marca Ikea, e lasciò che lei si posizionasse come preferiva. Una piccolissima parte del cervello notò come il corpo della ragazza aderisse perfettamente al suo, le gambe avvolte intorno alla vita, la testa nascosta nell’incavo del collo. Erano rimasti così finché non si era calmata, poi si era alzato, l’aveva avvolta con una coperta ed era andato in cucina, sia per lasciarle un po’ di tempo da sola sia per preparare qualcosa da mangiare. Il suo stomacò protestò al pensiero: era da quella mattina che non metteva nulla sotto i denti. Aspettando che la pasta cuocesse, s’accorse di non aver ancora scambiato una parola con la ragazza. Mentre prendeva l’acqua dal frigo, il suo sguardo cadde su una bottiglia di latte. Uhm, perché no?               
Dieci minuti dopo fece ritorno in salotto con della pasta, dell’acqua e due tazze di cioccolata calda, il tutto strategicamente posizionato su un piccolo vassoio di legno acquistato insieme al divano. E al resto dell’arredamento.                                                                                                                   
«Ehi» chiamò scostando la coperta e scoprendo una massa di capelli biondi. La ragazza fece leva sulle braccia e riemerse dal groviglio in cui si era avvolta. Lui si sedette non troppo vicino a lei, per non spaventarla più di quanto già non fosse.                                                                                               
«Ho preparato della pasta, se ti va. Immagino che tu abbia fame» disse lentamente, posando il vassoio tra di loro. Lei provò a parlare, ma quello che venne fuori fu più un rantolio secco. Si affrettò a riempirle un bicchiere d’acqua, che lei bevve emettendo un sospiro.                                                          
«Grazie» bisbigliò con un sorriso fugace.                                                                                                                                     
Lui le sorrise incoraggiante e afferrò una tazza verde, porgendogliela. «Ho preparato anche della cioccolata calda. Io... ho pensato che potesse rimetterti un po’ in forze» disse titubante. Lei la strinse fra le mani, scaldandosi e annusandone il profumo dolce, per poi fare una smorfia confusa. «Che c’è?» chiese lui, confuso a sua volta.                                                                                                    
«E che... è un abbinamento un po’ azzardato, non trovi?» rispose arricciando il naso. Dio, quant’era bella. Scacciando il pensiero dalla testa, si limitò a ribattere: «Be’, proviamo».                                            
Il loro pranzo “improvvisato” trascorse così, tra scambi di sguardi nascosti, avvolti in un silenzio imbarazzato e allo stesso tempo dall’aria stranamente familiare. Come se entrambi sentissero di essere nel posto giusto al momento giusto. E con la persona giusta.                                                          
«Era la pasta migliore che io abbia mai mangiato» disse la ragazza dopo aver ripulito il piatto dal formaggio con la forchetta. Poi prese un ultimo sorso di cioccolata, sporcandosi il labbro.                                                                                                                                        
Martino scoppiò a ridere. «Era solo della pasta al burro! E comunque, sei sporca qui» l’avvisò, indicando su se stesso il punto giusto. Lei si affrettò a pulirsi con il dorso della mano, sorridendo.  «Be’, complimenti allo chef, allora».                                                                                                                
«Grazie – rispose sollevando il petto, fintamente orgoglioso – A proposito, io sono Martino» disse approfittando del momento di maggior confidenza.                                                                                     
«Rebecca». La ragazza gli tese la mano, ridendo.                                                                                          
«Lo so» ammise. Poi si morse l’interno di una guancia, dandosi mentalmente del cretino per esserselo lasciato sfuggire.                                                                                                                           
«Come fai a saperlo?» chiese lei guardandolo sorpresa.                                                                            
Lui si sentì avvampare. «Io... ho trovato la carta d’identità nella tua borsa» ammise. Rebecca lo guardò a bocca aperta, una scintilla di sconcerto si fece strada nei suoi occhi. «Hai guardato nella mia pochette?»                                                                                                                                                   
«Ho dovuto! – si difese – Non sapevo chi fossi! E poi non ho toccato nulla, c’è tutto, telefono, soldi, chiavi e le tue cuffiette».                            
«Come fai a non sapere chi sono? Ci vediamo tutti i giorni sul bus!» esclamò lei, scattando in piedi. Lui non rispose, ma si alzò, si diresse in camera sua e tornò quasi correndo con in mano la propria carta d’identità, che poi le porse, sotto il suo sguardo confuso. Lei la lesse velocemente.
«Cosa sapevi di me prima di leggere questa? Cosa sapevi oltre il fatto che prendo lo stesso autobus che prendi tu?» chiese Martino. Lei si morse un labbro e lo guardò triste, chiedendogli silenziosamente scusa.                                                                                                                                
«E in realtà ho preso il tuo telefono, ma solo per metterlo in carica – si affrettò a dire – Abbiamo lo stesso modello».                                                                                                                                        
Rebecca sbuffò, sorridendo teneramente.

***

2 MESI DOPO

«Marti» si sentì chiamare. Si voltò a guardarla, la mano ancora appoggiata alla porta della camera da letto. Blazer dormiva accoccolato sulla poltrona  accano alla finestra, avvolto dalla sua inseparabile copertina a quadri.                                                                                                                             
«Sì?»                                                                                                                                                  
«Dormi con me, per favore?»                                                                                                                                        
Il ragazzo la guardò per qualche istante, come a rifletterci. Annuì. «Forza, vieni» disse allungando una mano. Lei si morse il labbro e tirò le coperte fin sotto il mento.                                     
«Intendevo dormire qui, in questo letto».                                                                                                                              
Martino aggrottò la fronte. «Ma non ci stiamo, è da una piazza sola».                                                                   
«Lo so, ma... per favore» supplicò. Lui ci pensò su un istante, per poi raddrizzare la schiena, chiudere la porta della propria stanza ed entrare in quella degli ospiti.                                                                       
«Va bene» rispose, mentre le baciava la testa e s’infilava sotto le coperte insieme a lei. Le accarezzò un braccio con fare comprensivo. Rebecca gli si accoccolò addosso, appiccicandogli la schiena al petto e lasciandolo per un momento di stucco. Ma la circondò con le sue braccia muscolose, stringendola forte a sé. Dopo un paio di minuti, si ritrovò a pensare a ciò che le era accaduto in quel paio di settimane: Rebecca gli aveva raccontato tutto. Di come avesse litigato con i genitori dopo essere rientrata troppo tardi per l’ennesima volta, la sua fuga improvvisa da casa, la notte trascorsa in un angolo della fermata della metro; un crescendo di buio, di solitudine e di paura. Ricordò quando l’aveva trovata: alle sei del mattino rannicchiata in quell’angolino di cemento freddo e umido, cercando di non morire di ipotermia e di mettere fine alla lacrime che scendevano a fiumi. Doveva avere tanto freddo, con solo un abito di chiffon addosso. Le si era avvicinato e l’aveva avvolta con la sua giacca pesante, l’aveva presa in braccio e portata via da lì. E tutto aveva avuto inizio. La mattina dopo l’aveva trovata in salotto, in preda alla confusione e al terrore di essere sola al mondo. Invece lui l’aveva accolta con sé, ospitandola per qualche giorno. Poi lei le aveva confessato che non voleva più tornare a casa, nonostante le persistenti chiamate dei genitori. Martino aveva semplicemente annuito e le aveva chiesto quando sarebbero a prendere le sue cose perché potesse trasferirsi lì definitivamente. Rebecca era scoppiata a piangere e l’aveva stretto talmente forte da togliergli il respiro. E lui se ne era innamorato. Il giorno dopo, mentre si dirigevano a casa sua, lei gli aveva raccontato che quella fuga era stata solo in parte improvvisata: meditava già da un po’ di andarsene e per riuscire a farlo si era fatta assumere in una delle più conosciute librerie di Torino. Poi avevano portato via tutto ciò che le apparteneva, occupando anche lo spiraglio più piccolo della sua 500 Fiat blu notte. Libri, vestiti, ancora libri e un violino avevano occupato tutto lo spazio disponibile. Oh, in tutto questo caos c'era anche un Border Collie nero di tre mesi che aveva trascorso tutto il viaggio cercando di mordergli la mano. Stava cambiando i denti... Quando poi era entrato aveva deciso senza anti complimenti che la coperta abbandonata sul divano sarebbe diventata la sua nuova cuccia. E tanti saluti.                                                                                                    
«A cosa stai pensando?» La voce di Rebecca lo strappò dai suoi pensieri, riportandolo alla realtà.                                                     
«A te» rispose sbuffando fra i suoi capelli.                                                                                                    
«Chissà che bei pensieri, allora» commentò lei ironica.                                                                            
Lui la ignorò. «Stai bene?»                                                                                                                        
La ragazza si rigirò fra le sue braccia, puntando lo sguardo nel suo. «Sì, assolutamente. Forse perché so che ci sei tu. Sono stanca della mia vecchia vita. E poi non ti sembro una donna in carriera? Ho diciannove anni, un diploma in Lingue e un lavoro nella libreria più famosa di Torino. Insomma, guardami!» esclamò con una risata.                                                                                                                                           
 
«Ti vedo» le rispose accarezzandole una guancia. E non seppe mai cosa lo spinse a farlo, ma lo fece lo stesso: si chinò su di lei, le spinse una ciocca di capelli dietro l’orecchio e premette delicatamente le labbra sulle sue. Poi si staccò velocemente, spaventato dalla sua possibile reazione. Ma lei gli sorrise, portandogli una mano sul petto e l’altra sotto la maglietta, accarezzandogli lievemente il fianco nudo. Martino si sporse a baciarla d nuovo, e questa volta non si staccò più: si prese tutto il tempo che voleva per assaporare la sua bocca morbida, per assaggiare il leggero aroma di menta che la impregnava, per sfregare il naso contro il suo.                                                          
«Mi piace la mia nuova vita» disse Rebecca stringendo le gambe intorno alla sua vita. Fissò lo sguardo nel suo, stringendo i lembi della sua maglietta e tirandola via, lasciandolo a petto nudo.                             
«Anche a me – rispose lui abbracciandola e immergendo le mani nei suoi capelli – anche a me».

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