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Autore: Chaotic Alaska    30/10/2014    2 recensioni
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Dall'ottantesimo piano di un grattacielo, Ophelia fissa il fiume di luci lontane ai suoi piedi e si sente incredibilmente distante rispetto al resto del mondo. Ha amato e si è consumata nel suo amore, come una candela che brucia per poi spegnersi alla prima folata di vento. Non le è rimasto nulla. Le restano solo due possibilità e le vede chiaramente davanti a sé.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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She’s not a girl, she’s a storm with skin



Dall'ottantesimo piano di un grattacielo, Ophelia fissava il fiume di luci lontane ai suoi piedi e si sentiva incredibilmente distante rispetto al resto del mondo. Il vento gelido le mordeva la pelle. Aveva ancora in bocca il sapore metallico del vino, bevuto direttamente da uno di quei cartoni del supermercato. Si strinse nella giacca, ma non c'è verso di combattere il freddo quando hai il cuore ghiacciato. I suoni della città arrivavano attutiti, lassù, un frastuono di clacson e urla ridotto a un vago sottofondo, quasi piacevole. Ophelia avvertì un brivido di paura al pensiero delle due strade che si aprivano davanti a lei. Due modi diversi di venir fuori da quel labirinto. La più breve, diciamocelo, era un passo nel vuoto, al di là dello stretto cornicione del palazzo, verso le luci della strada. Un volo non troppo lungo, giusto il tempo di vedersi passare davanti agli occhi tutta la sua vita, e poi la pace. Parola ormai estranea a Ophelia, che se la rigirava in bocca come una caramella avvelenata. Possibile che esistesse una qualche forma di serenità, per una come lei? Non restava che scoprirlo. La via più lunga comportava pazienza, un altro concetto che le era abbastanza estraneo. Ophelia era abituata ad ottenere tutto ciò che desiderava, all'istante. L'idea di dover aspettare la faceva impazzire: aspettare cosa, poi? Di guarire dalle sue ferite o di ritrovarsi presto in bilico sullo stesso cornicione? La via più lunga era un'incognita e, potenzialmente, un disastro. Ancora peggio, un buco nell'acqua, un fallimento. E la ragazza sapeva bene di non poterselo permettere.  Soppesando le varie possibilità, Ophelia abbassò lo sguardo ancora una volta, immergendolo nel traffico dell'ora di punta e in quello che era il suo passato.

Luna, la madre di Ophelia, era una strega. O almeno, questo era quello che in molti sussurravano alle sue spalle. Non che qualcuno credesse davvero a tale definizione, ovviamente, era solo un modo come un altro per emarginare quella vecchia pazza e sua figlia.
«Guardate, la figlia della strega!» urlavano, indicandola, gli altri bambini del paesino in cui Ophelia era cresciuta. Lei non aveva amici, veniva disprezzata e allontanata da tutti.
Se gli abitanti del paese avessero saputo che Luna era davvero una strega, forse madre e figlia avrebbero ricevuto un po’ più di rispetto, dettato dalla paura.
Ma la madre della ragazza non fece mai nulla per smentire o confermare quelle voci. E Ophelia crebbe nell’indifferenza generale, completamente sola e libera come il vento. Fu quella libertà a plasmare il suo carattere mutevole come il cielo di marzo. La madre non si preoccupò mai di mandarla a scuola: le insegnava ciò che sapeva, brevi lezioni mentre cucinava o rammendava qualche vecchio abito. E Ophelia assorbiva quegli insegnamenti come una spugna, curiosa di scoprire i meccanismi che regolavano il mondo attorno a lei.
«Mamma, mi insegni a usare la magia?» domandava ogni tanto, con il suo sorriso più accattivante.
«Tesoro, sarebbe come chiedermi di insegnarti a respirare, o a battere le ciglia. La magia non può essere appresa, nasce e muore assieme a te. È come una linfa vitale che ti scorre nelle vene: se non nasci con questo dono, non c’è modo che tu possa riceverlo» rispondeva lei, paziente. Non voleva illuderla, perché sapeva bene che Ophelia era nata senza magia.
Luna odiava le persone. Il suo disprezzo nei confronti del resto del mondo era palpabile: colpevole di essere diversa, aveva dovuto arrangiarsi a vivere ai margini della società, derisa e odiata. E ora non poteva far altro che assistere, mentre a sua figlia veniva riservato lo stesso trattamento. La vedeva crescere, una bambina allegra e solare, vivace e ribelle, e la vedeva scontrarsi quotidianamente contro un muro.
«Perché gli altri bambini non vogliono lasciarmi giocare con loro? Perché dicono che ho un nome stupido? Perché gli adulti mi guardano storto?»
Era un fiume in piena di domande a cui Luna preferiva non rispondere. E forse, nonostante tutto, Ophelia sarebbe potuta crescere normalmente. Sarebbe andata via da quel paese, in una grande città dove nessuno la conosceva, senza quel marchio infamante di “figlia della strega”, e avrebbe trovato la sua strada. Si sarebbe costruita una nuova vita, a sua misura. Se non fosse stato per lo straniero che, una sera d’estate, bussò alla loro porta.
Era affascinante, in modo delicato e particolare: non aveva una bellezza mozzafiato, ma sapeva attirare l’attenzione, con il volto dai tratti decisi e regolari, i lunghi capelli castani e gli occhi di un verde impensabile. Diceva di aver sentito parlare della famosa strega che abitava in cima alla collina, ma lo disse ridendo e l’espressione di Luna si addolcì. La sedusse, lusingandola e prendendosi cura di lei, come nessuno aveva mai fatto. Ophelia scrutava con sospetto quell’uomo: forse non possedeva il dono della magia, ma sapeva leggere le persone come fossero libri. Ed era sicura che lo straniero non fosse sincero. Provò ad avvisare sua madre, ma la donna era troppo attratta da lui per dar peso alle parole di una bambina che non sapeva nulla dell’amore. Dovette ricredersi quando, dopo qualche mese di convivenza, l’uomo la abbandonò, portando via con sé un antico ciondolo, tramandato nella loro famiglia da generazioni.
L’ira della strega si abbatté sulla vallata sotto forma di temporale.
«Ophelia, luce della mia vita, ho il dovere di proteggerti dal genere umano.» La voce di Luna era fredda come ghiaccio e a nulla servirono le proteste della figlia, terrorizzata.
Luna aveva concesso un’ultima possibilità agli uomini e la sua fiducia era stata tradita, ancora una volta. Non poteva permettere che sua figlia venisse ferita allo stesso modo. Probabilmente l’avrebbe odiata per questo, ma Luna voleva solo evitarle di soffrire. E le scagliò addosso una maledizione, per proteggerla dall’amore e dagli altri, fragili e incostanti, sentimenti umani.
E così, Ophelia divenne una mina vagante.


A vent’anni, la ragazza abbandonò il paese in cui era cresciuta e si trasferì in città. Non aveva paura, a contrario della madre, di correre lontano, di inseguire le sue ambizioni. Bella come il sole, Ophelia aveva il fascino irresistibile delle persone che sanno prendere la vita con leggerezza e la forza di chi è abituato a poter contare solo sulle sue forze. Ma, soprattutto, aveva una concezione tutta sua del bene e del male, frutto degli insegnamenti e del rancore della madre.
Non dava la colpa a Luna della sua maledizione: la donna aveva creduto di farle un favore e, dopotutto, c’era riuscita. La colpa era del genere umano, senza distinzioni né sconti. Per Ophelia, dunque, il bene era ciò che andava a suo favore e tutto il resto era male.
Luna tentò di farla desistere dal partire, sostenendo che il dono che le aveva fatto l’avrebbe emarginata. Ophelia rise di lei: aveva passato una vita intera a sentirsi esclusa, ma non per questo avrebbe rinunciato a vivere. Già da tempo, si era arresa alla cattiveria delle persone: non avrebbe commesso lo stesso errore della madre, lasciandosi ingannare dagli uomini. Non le serviva che la maledizione le facesse da scudo, ma c’era un modo per sfruttarla: certo, bisognava essere completamente privi di scrupoli, ma Ophelia era sicura di poterci riuscire.
E così, si trasferì in città e iniziò a dipingere, nel tempo libero. Quand’era bambina, ancora ignara del fatto di essere diversa e che nessuno l’avrebbe perdonata per questo, sognava di diventare una pittrice famosa in tutto il mondo. Ora, adulta e disillusa, sfogava sulla tela i sentimenti che non poteva riversare sulle altre persone. Un caleidoscopio colorato di odio, amore, amicizia, invidia, rabbia, malinconia, speranza, dolore: i suoi quadri erano esplosioni violente, che la lasciavano completamente svuotata.
Per mantenersi, Ophelia cominciò a prostituirsi. Anche Luna l’aveva fatto, da giovane, e la ragazza non ci trovava niente di sbagliato o immorale: aveva bisogno di soldi per mangiare e questo era l’unico lavoro che potesse fare, per colpa della maledizione.
Chi se ne importava che i suoi clienti morissero poco dopo essere stati con lei, per malattie o incidenti? Nessuno le avrebbe mai attribuito la colpa di eventi assolutamente al di fuori del suo controllo.
Il dono di Luna era proprio quello. Chiunque si fosse avvicinato troppo a sua figlia, fisicamente o psicologicamente che fosse, sarebbe rimasto ucciso dalla maledizione. Era l’unico modo che la vecchia strega aveva per difenderla dalle persone.
Ben presto, Ophelia cominciò a sfruttare il suo dono per arricchirsi ulteriormente: non aveva problemi a sedurre i suoi clienti, a legarli a sé. Riusciva ad irretirli con la sua intelligenza, con i suoi discorsi arguti e la sua dialettica persuasiva, oltre che con la sua bellezza mozzafiato. Molti dei suoi clienti erano uomini ricchi, ma soli da anni e Ophelia riusciva ad inserirsi nelle loro vite, conquistandosi in poche settimane un posto importante: loro credevano alle sue parole, a ciò che lei diceva di provare e la ricoprivano di regali, pagandola più del dovuto per il suo lavoro. Poi, puntualmente, arrivava la loro morte, ma a Ophelia non importava nulla della sorte di quei patetici burattini.
A volte, le capitavano anche uomini violenti, rancorosi, che sfogavano su di lei la loro rabbia, possedendola con la forza e picchiandola: ma erano i rischi del mestiere, si ripeteva la ragazza. Mentre la violentavano sul materasso sporco del suo appartamento, le urlavano contro la loro storia, raccontandole dei loro fantasmi. Poi la abbandonavano lì, come un giocattolo rotto, e andavano via, senza pagarla. Ophelia si imponeva di odiarli, ma non riusciva a serbare rancore nei loro confronti: erano vittime, proprio come lei. Erano anche loro dei burattini, ma i loro fili erano stati recisi; come animali in gabbia, dovevano sfogarsi sul più debole per sentirsi ancora vivi.


Una notte, qualcuno bussò alla sua porta.
Ophelia andò ad aprire, stringendosi addosso meglio che poteva la corta vestaglia, e due uomini di mezz’età entrarono nel suo salotto, spingendola via bruscamente.
«Buonasera, signorina» disse uno dei due, accennando un saluto.
L’altro, una montagna umana alta almeno due metri, la fissava silenziosamente, come se stesse valutando un pezzo di carne dal macellaio. Ophelia lo battezzò mentalmente “il Gigante”.
«Perdona il mio amico, non è molto loquace» aggiunse il primo.
«Che volete da me?» domandò la ragazza. Non era spaventata: il dono di sua madre l’avrebbe protetta, certo, ma non le importava nulla di vivere o di morire. Non era coraggio, il suo, bensì noncuranza.
«Proporti un’offerta che non potrai, anzi mi correggo, non puoi rifiutare.»
E, mentre il Gigante continuava a fissarla, l’uomo la costrinse ad accettare di lavorare per lui. Le spiegò chiaramente che non avrebbe avuto vita lunga, se avesse continuato a svolgere quel mestiere da sola, senza la protezione che lui poteva offrirle; in cambio, le chiedeva soltanto una cospicua parte dei suoi guadagni.
«Fidati di me, dolcezza» aggiunse, per sottolineare ulteriormente il messaggio «Non arriverai viva neanche a domattina, se io non decido così. E non t’azzardare a fuggire, perché ti troverò.» Il suo sorriso sembrava quello di uno squalo.
 Ophelia finse di accettare e, il giorno dopo, preparò i bagagli e si trasferì in un’altra città. Nessuno le avrebbe tolto la sua libertà, di questo era sicura. Non le importava un accidenti delle minacce di quell’uomo patetico: che ne sapeva lui della sua maledizione? Si ritrovò a pensare che, forse, la morte sarebbe stata preferibile alla vita che conduceva, ma poi scacciò quel pensiero con forza. Si convinse che era felice e che non aveva bisogno di nessuno: era forte e indipendente, era una guerriera senza paura.
Ophelia si rese presto conto della necessità di non fermarsi troppo a lungo nello stesso posto: prima o poi, il suo nome cominciava a diffondersi. Iniziavano a circolare strane storie su di lei, sulla morte che sembrava seguirla come una fedele compagna, e loschi individui si presentavano alla sua porta, offrendole gli incarichi più disparati. A quel punto, la ragazza decideva di andar via, ancora una volta. Non aveva alcun tipo di legame, nessuna àncora che le impedisse di spiccare il volo. Forse sarebbe riuscita a sopravvivere così, fuggendo in eterno dalle responsabilità e dalle implicazioni che i rapporti si trascinano dietro, se lui non fosse venuto a cercarla.


La lettera giaceva sul tavolino del suo appartamento in affitto, aperta.
Ophelia era incerta sui sentimenti che le si agitavano dentro: dolore, certo, ma anche un certo sollievo. Il sapere che sua madre era morta senza rendersi mai conto di che persona fosse diventata la figlia, la consolava. Non che Ophelia se ne vergognasse, ma, almeno per Luna, lei sarebbe rimasta la bambina innocente e piena di speranza che le chiedeva di insegnarle la magia. Ora, invece, il peso di tutte le morti che aveva causato iniziava a farsi sentire: quegli uomini meritavano di morire? Erano davvero loro la causa della sua maledizione, del suo sentirsi continuamente emarginata? Ophelia era sempre più convinta che la risposta fosse negativa.
Poi, in una fredda mattina di febbraio, arrivò lui. Sembrava conoscerla, sembrava sapere esattamente quale fosse la sua maledizione: e non gliene importava niente.
Si presentò con un mazzo di rose gigantesco e un sorriso a metà: non era una persona abituata a sorridere, pensò lei. Aveva i modi bruschi di chi è abituato a comandare, ma una dolcezza incerta ogni tanto affiorava nei suoi gesti.
Si presentò: il suo nome era Dexter, ed era un serial killer. Lo disse con leggerezza e questo piacque molto a Ophelia. Quando le propose di diventare soci, però, il volto della ragazza si incupì nuovamente: aveva sperato, anche solo per un attimo, di poter condividere con quel ragazzo il peso della sua maledizione. Ma era sola e lo sarebbe rimasta. Dexter non poteva immaginare che lei non controllasse la morte di coloro che si avvicinavano a lei: era stata stupida a crederlo. Lui sarebbe morto, come tutti gli altri, se non glielo avesse impedito.
Così lo mandò via, bruscamente. E lui tornò.
Ophelia tentò di spiegargli la situazione, facendogli capire che l’avrebbe solamente messo in pericolo; Dexter replicò, ridendo, che il pericolo era il suo mestiere. Per il lavoro che faceva, era spaventosamente ingenuo, come se riuscisse ancora a vedere il lato positivo di ogni cosa. Come un bambino che si vede distruggere un castello di sabbia dal mare, ma ne costruisce uno nuovo sulla macerie di quello crollato. Era sempre stato solo, proprio come lei: si incastravano insieme alla perfezione, come pezzi di un puzzle che acquista finalmente un senso.
Dexter continuava a proporle di diventare soci, ma con sempre minore convinzione; Ophelia, ormai, non poteva far altro che aspettare che la maledizione facesse il suo corso. Cercava ancora di allontanarlo, ma si rendeva conto della bellezza di ciò che si era persa in tutti quegli anni, rinunciando ad avere qualsiasi contatto con il resto del mondo. E iniziò a capire che la colpa era di sua madre, che aveva voluto coinvolgerla nella sua guerra personale. Si rendeva conto di quanto fosse innaturale la sua situazione, del peso della sua maledizione, che mai prima di allora aveva ritenuto davvero tale: Luna non l’aveva protetta dalla sofferenza, l’aveva condannata a restare sola, a non trovare mai il suo posto nel mondo.


Tre settimane dopo il giorno in cui Dexter era piombato nella sua vita, lui la portò al mare. Era una mattina fredda e luminosa, e il mare era una lastra grigia senza fine; i chioschi del gelato, aperti durante l’estate, erano sbarrati con delle assi di legno. Il silenzio era perfetto, interrotto solo dalle sporadiche grida dei gabbiani. Dexter e Ophelia passeggiarono sulla riva, incuranti della leggera pioggerellina che aveva preso a cadere, insistente. Lui le stringeva la mano e lei, per la prima volta, si sentì ancorata al suolo, come un palloncino che avesse finalmente trovato il suo posto e non rischiasse più di volar via. E si convinse di poter rompere la maledizione, a modo suo: si stava innamorando di quell’uomo e, forse, questo sarebbe bastato. Sua madre non aveva mai sperimentato l’amore, disprezzava il padre di Ophelia e l’aveva abbandonato, portando via con sé la figlia neonata. Ophelia era diversa da lei: sceglieva di amare, anche a costo di soffrire, anche a costo di restare ferita e delusa. Era normale così del resto.
Dexter, ad un tratto, si fermò. Ophelia ricordava chiaramente la pioggia che scivolava tra i suoi capelli scuri, mentre abbassava lo sguardo a cercare il suo.
«Prima di dirti che sono innamorato di te, devo raccontarti la verità.»
E le spiegò che era stato mandato da lei per ucciderla o per rapirla. Le raccontò come l’uomo con il sorriso da squalo, che le aveva offerto un lavoro qualche anno prima, avesse mantenuto la parola di trovarla ovunque sarebbe fuggita. Probabilmente aveva intuito qualcosa riguardo la maledizione della ragazza, seguendo la scia di morti che lei si era lasciata alle spalle: così, aveva chiesto al suo uomo più fedele di trovarla e di verificare quanto ci fosse di vero nelle sue supposizioni. Però, lui si era innamorato di lei. Non gli importava nulla della maledizione, se davvero esisteva qualcosa del genere: non sarebbe tornato dall’uomo-squalo, sarebbe rimasto lì con lei, se l’avesse perdonato. Ophelia pensò, amareggiata, che sarebbe dovuta morire quella notte, quando i due uomini avevano bussato alla sua porta. Almeno, la vita di Dexter sarebbe stata al sicuro. Pensò di raccontargli la verità, di spiegarli come il suo destino fosse segnato fin dall’inizio: ma preferì evitare. Lo prese per mano e tornarono a casa, in quella giornata di fine febbraio. Entrarono nello squallido appartamento di Ophelia e fecero l’amore sul pavimento, con le gocce di pioggia che si mescolavano alle lacrime della ragazza.


Dexter morì tre giorni dopo in un incidente d’auto.


Dall'ottantesimo piano di un grattacielo, Ophelia fissa il fiume di luci lontane ai suoi piedi e si sente incredibilmente distante rispetto al resto del mondo. Ha amato e si è consumata nel suo amore, come una candela che brucia per poi spegnersi alla prima folata di vento. Non le è rimasto nulla. Le restano solo due possibilità e le vede chiaramente davanti a sé. Sa che, razionalmente, non prenderà mai una decisione. Allora si impone di non pensare, di farlo e basta. Quale delle due decisioni è quella giusta? Probabilmente, nessuna delle due. Qualsiasi strada scelga in questo momento, rappresenterà l’ennesimo errore. Però, può fare in modo che sia l’ultimo.
E Ophelia scavalca il cornicione, un singolo passo in avanti, come un’equilibrista. Per un attimo resta immobile, il mondo sotto di lei che va avanti senza darle retta, sospesa in aria. Poi precipita verso il suolo, verso le luci della città lontana, lei chiude gli occhi e immagina di volare.



 

   
 
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