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Autore: WishfulThinking    02/11/2014    1 recensioni
Gli ibridi lanciano un ultimo ruggito prima di lasciarla perdere e correre dietro a me, mentre io urlo con tutta la voce che ho in corpo: “Scappa, Katniss, scappa!”
Alla fine di tutto, qualcosa rimane. One-shot Peeta/Katniss
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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When you're sleeping


Gli ibridi lanciano un ultimo ruggito prima di lasciarla perdere e correre dietro a me, mentre io urlo con tutta la voce che ho in corpo: “Scappa, Katniss, scappa!”
Il mio urlo è roco e trasuda disperazione mentre la vedo correre lontano da me, verso la sua salvezza. Mentre so che morirò, e morirò per lei. Poi è una frazione di secondo e scoppia una mina, e io chiudo gli occhi e non ho il coraggio di guardare.

 
Il fiato mi muore in gola mentre spalanco gli occhi e inspiro avidamente tutta l’aria che posso, come un bambino che viene al mondo, e i miei occhi cercano disperatamente Katniss di fianco a me. C’è.
C’è e mi distendo, mi lascio ricadere sfinito sul cuscino e tiro un sospiro di sollievo, mentre i miei occhi si annebbiano e soffoco un singhiozzo sulle lenzuola di seta, concedendomi di piangere silenziosamente mentre lo mordo, respirando piano per non svegliarla. Dobbiamo essere gli unici a Panem che si riposano più da svegli che non dormendo. Cerco di calmarmi respirando profondamente l’aria calda che non sa di sangue e arena, ma di margherite e canzoni non ancora cantate, storie non ancora scritte e giorni non ancora vissuti. Che sa di promesse e di calore. Poi guardo lei, che è accanto a me ma in un altro mondo, un mondo in cui non posso proteggerla e non potrò mai entrare. È così, Katniss; anche quando c’è non sai mai se la comprendi a fondo, non indovini cosa pensi, a chi pensi, e in quali termini lo faccia.
Una brezza leggera entra dalla finestra e le solleva la camicia da notte già corta sulle cosce, la solletica mentre lei mugugna qualcosa, poi stende il braccio fino a trovarmi e prendermi la mano con la sua che è fredda, gelata. Mi stringe e mi tira verso di sé, fino a che non mi ritrovo sopra di lei, a respirarle sul volto, che solo in quel momento si rasserena. La accarezzo piano, con la paura di svegliarla, e le sue labbra si contraggono, poi quasi accennano un sorriso. Le bacio piano la fronte, e le mie mani scendono a risistemarle la camicetta. Poi  silenziosamente mi alzo e lascio la stanza.
 

Mi sveglio e non c’è. Apro gli occhi terrorizzata e Peeta non c’è. Le mie mani afferrano il lenzuolo freddo dove dovrebbe esserci il suo corpo caldo. È stata la prima cosa che ho notato in lui, quando ci siamo stretti la mano sul palco della Mietitura: le sue mani sono sempre calde. Sono le mani di chi crea, di chi dà vita a qualcosa dove c’era solo morte e disperazione. Morte e disperazione. Sembrano le sole due parole che calzino col mio animo, dopo che tutto è finito. Tutti si sono impegnati per farci sentire di nuovo a casa, per coccolarci e ringraziarci, e io mi sento un’ingrata, ma io non vedo altro che questo, sempre. Morte e disperazione. E in questo istante , nonostante questo vento di primavera, mi sento morta dentro. Non c’è nemmeno Peeta, che forse in un momento di lucidità notturno si è reso conto dei miei continui sbalzi d’umore, e forse si è stancato di essere così irrimediabilmente buono con una come me, che non è buona a nulla. Sospiro e tiro con rabbia la coperta, disfando il letto di seta che mi hanno riservato. Forse se n’è andato davvero, e non c’è nulla che io possa fare. Tutto quello che potevo fare non l’ho fatto; per egoismo, per istinto di sopravvivenza, per chissà quale altra ragione, non l’ho fatto. E adesso è tardi. Mi giro dall’altra parte ricoprendomi completamente col lenzuolo, con tutta l’intenzione di restare per sempre così, in un bozzolo, sperando che semplicemente stando ferma, non facendo nulla, io possa rinascere farfalla alla fine di tutto. Poi mi addormento. No, dormire non è la parola giusta; sprofondo in un incerto dormiveglia che dura un’infinità, o pochi minuti, non lo so. So che a svegliarmi è un fruscio della porta che si apre; so che sto per sbraitare contro Effie che non sono ancora pronta, che non ho voglia di vestirmi e che per quanto me ne importa se ne può andare al diavolo quando riconosco il passo pesante che ho tanto spergiurato, rinnegato e infine desiderato nell’arena. Mi volto di getto mandando all’aria il resto delle coperte, e lui in un baleno è lì al mio fianco.
“Ancora incubi?” chiede piano, preoccupato.
“Non c’eri” mi scappa dalle labbra, e subito vorrei riprendere indietro quelle parole che mi fanno sembrare tanto debole e che disegnano un ghigno sulla sua faccia. “Dove sei stato?” riprendo in modo più brusco.
Allora il suo ghigno si trasforma in un sorriso vero: “Pensavo che avessi bisogno di un po’ di zuccheri e io avevo bisogno di fare qualcosa...”. Poi si volta e ricompare con due croissant caldi, come le sue mani.
Non riesco neppure a dirgli grazie, ma afferro il croissant e lo addento con avidità, sbriciolando sul lenzuolo perfetto di seta, guardando fuori dalla finestra. Devo essere proprio attraente al momento.
“Buon appetito, a proposito” ride Peeta di gusto. Non dico niente; anzi, con poca eleganza afferro anche il croissant che lui non ha ancora mangiato.
“Che c’è?” scuoto le spalle mentre lui mi guarda tra l’offeso e il divertito.
“Niente, mi pare giusto” scrolla le spalle con il sorriso che si allarga sulla faccia “Visto che siete in due dovrai mangiare il doppio. Sai quando sarà il problema? Quando diventerai il doppio” ride scansandosi da qualunque cosa si aspetti che gli lanci. Io invece mi limito ad alzare il sopracciglio e a sogghignare “Tanto mi ami lo stesso”. E ancora, quando lo dico, arrossisco.
“Ti amo di più. Ogni giorno” sospira lui, e nella sua voce non c’è ombra di vergogna. Poi si accoccola al mio fianco e mi accarezza la pancia. “Vi amo” si corregge piazzandomi un bacio sulla fronte e uno sulla pancia.
E io mi mordo la lingua ancora una volta perché non so cosa dire, non so come dirgli che ho ancora una paura dannata di questa cosa tanto piccola e insieme enorme che porto in grembo, che spero con tutta me stessa che sia un altro lui, perché io mi odio ma di lui non ne ho mai abbastanza.
“Prego, comunque” sorride Peeta passandomi una mano tra i capelli. E mi sforzo di sorridergli mentre lui crede di non capirmi ed è l’unico a vedermi come davvero sono e ad amarmi comunque, a comprendermi e perdonarmi per ogni sbalzo d’umore e parola di troppo, a dire prego mentre io non so come ringraziare questo ragazzo del pane che senza guardare a se stesso mi ha dato tutto ciò di cui avevo bisogno senza chiedere nulla in cambio: vita e speranza.
  
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