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Autore: Kim WinterNight    03/11/2014    2 recensioni
«Ciao, cari lettori.
Mi presento: mi chiamo Albertina, per gli amici Berty. Ho quindici anni e vivo in Italia, precisamente in un paese fittizio che chiamerò… mmh… Bettola town.
Okay, lo so, il nome può sembrare buffo e non attinente al nostro caro Stato Italiano (Repubblica fondata sul Lavoro e bla bla bla), ma sfido chiunque a trovare un nome migliore di questo!»
Spero che la storia vi piaccia.
Non sono solita scrivere comici, però per queste vicende sono davvero ispirata e ho preso spunto da un sogno che ho fatto recentemente.
NOTE: tutti i personaggi sono di mia modesta invenzione e qualsiasi riferimenti a luoghi o persone è puramente casuale.
Genere: Demenziale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La sfida di Carlos Ruiz Zafón

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel pomeriggio mia madre, dopo aver guardato MasterChef Italia/Australia/Spagna/America e quant’altro, mi obbliga a fare i compiti di matematica.

Sì, avete capito bene.

Per lei, potrei anche non studiare nessuna materia, ma sulla matematica non transige. Io cerco sempre di sgattaiolare via prima che sia troppo tardi, ma raramente mi riesce.

Il problema è che dopo pranzo mi viene un sonno incontrollabile e finisco per addormentarmi sul divano, mentre quell’isterica della mia genitrice strilla di fronte alla tv, inveisce e insulta questo o quel concorrente.

Quando alla fine mi risveglio – non chiedetemi come faccio a dormire con tutto quel caos – è perché mia madre mi scuote per le spalle, pronta a torturarmi.

Allora trascorriamo ore infinite sui libri e, una volta finiti tutti gli esercizi e ripetute tutte le formule a memoria e con la corretta pronuncia ed intonazione, sono talmente stanca che non ho più voglia di uscire e finisco la giornata in uno stato di semincoscienza che mi impedisce di ragionare lucidamente.

 

Quando, invece, riesco a fuggire, le cose vanno più o meno così.

 

“Guarda! Ma cosa cazzo sta facendo quello? No, non si caramellano così le cipolle, ma dai! Demente, sei un demente, Anselmo! Sì, ecco, guarda quell’altra cretina di Mariangela! Fate pena! Ah, se ci andassi io…” (mia madre di fronte alla tv, di pomeriggio. Una tortura.)

“Mamma, perché non ci vai allora?” la provoco spesso io, lanciandole un’occhiata annoiata. Il fatto è che mia madre non sa cucinare, compra spesso piatti pronti e roba surgelata, scalda tutto al microonde et voilà! Invidio mio padre che lavora tutto il giorno e si ferma a pranzo fuori, sicuramente ha un’alimentazione più sana della nostra. Anche il McDonald’s è più salutare del nostro regime alimentare.

“Oh, potessi lo farei! Ma poi chi penserebbe a te? E tuo padre? E il lavoro a scuola? Voi somari non trovereste mai una mia degna sostituta!”

Magre consolazioni, come si suol dire.

Se sapesse almeno friggere un uovo, sarei fiera di lei e mangerei uova fritte per il resto dei miei giorni.

“Hai ragione, mamma. Senti, io vado un po’ in camera, a schiacciare un pisolino, eh?” ammicco, alzandomi. “E, mi raccomando: svegliami quando è ora di fare i compiti!” aggiungo, giusto per rendere il tutto più credibile.

Preferirei morire piuttosto che sentirmi scuotere per le spalle da lei, ogni fottuto pomeriggio.

Razza di madre snaturata! Non capisce proprio le mie esigenze e mi maltratta! Un giorno o l’altro avviserò gli assistenti sociali e allora la smetterà di ossessionarmi!

Che poi, io sarei pure contenta se lei andasse a MasterChef (ammesso e non concesso che superi qualsiasi selezione). Sì, be’, quale figlia non sarebbe fiera di vedere la propria madre in televisione?

E poi, sapete che significherebbe per la sottoscritta non averla tra i piedi per un po’? Ma siccome dubito che rimarrebbe in gara abbastanza a lungo da darmi il tempo di abituarmi alla sua assenza, perciò tanto vale evitare di fare figuracce in pubblico.

Comunque…

Esco dalla cucina e mi dirigo furtivamente verso la mia stanza.

Ehi, credete davvero che metterò in pratica ciò che ho rifilato alla mamma?

Nah, vado a prendermi la borsa, darmi una sistemata e poi scappo di casa.

Avviso Tita con un sms. Lei è fantastica, sempre pronta ad accogliermi durante le mie fughe.

Poi mando un sms anche a Giaco e decidiamo di vederci nel suo paese, così saremo tranquilli e poi da lui ci sono dei bei posti, c’è più divertimento e gente interessante.

E, soprattutto, spunti per nuove scommesse.

Allora esco pian piano di casa, mentre ascolto mia madre che continua a sbraitare contro lo schermo e non si accorge di niente.

Quando finalmente raggiungo, strisciando lungo la parete come un ragno, l’angolo della mia via, tiro un sospiro di sollievo e mi rilasso.

Poi passeggio allegramente, dirigendomi verso il punto in cui io e Tita ci incontriamo di solito.

Intanto Giaco dice che ci aspetta con ansia e che ci sarà anche Gabri.

Oh, perfetto.

Che sia la volta buona che lui e Tita si decidano e si appartino da qualche parte?

Nah, troppe vane speranze, ahimè…

Incontro Tita e insieme raggiungiamo la fermata dell’autobus.

A quell’ora – precisamente le 15:20 del pomeriggio – ci sono ancora studenti solitari che si affannano verso la fermata, ansiosi di rientrare a casa. E io li invidio, naturalmente.

Perché diamine non ho scelto un liceo con zero matematica e con una distanza di almeno 100 km da casa?! Forse è il Paese dei Balocchi detto così, però sarebbe stata la cosa più bella che potesse capitarmi!

Io e Tita ridiamo come matte, finché ad una fermata non sale un uomo che attira subito la nostra attenzione.

Ci guardiamo: stiamo pensando la stessa, identica cosa.

“Assomiglia a Zafón!” esclamiamo all’unisono, esaltate come se fosse appena salito sul nostro autobus un funzionario del governo o il Papa.

Ora, non ditemi che non sapete chi sia Carlos Ruiz Zafón perché vi mangio!

Oh, be’, però non tutti sono intelligenti e colti come la sottoscritta, perciò la vostra Berty vi darà un piccolo aiuto:

http://it.wikipedia.org/wiki/Carlos_Ruiz_Zaf%C3%B3n

Ecco, vedete, quando siete appassionati di un qualsiasi artista e vedete un suo clone a pochi chilometri da casa vostra, non potete negare che la reazione sarebbe quella di gettarvi ai suoi piedi e di baciarli, fango o cacca di cane compresi.

Ma, siccome io e Tita non siamo persone dalle reazioni convenzionali (o almeno, io non lo sono, Tita viene soltanto trascinata nelle mie scorribande), la vicenda quel giorno è andata diversamente da ciò che vi aspettate.

Tita mi fissa con un’espressione indecifrabile, poi fa: “Oh, Berty, perché non gli parli?”

Ridacchio come una scema e le lancio un’occhiataccia.

“Sì, e cosa gli dico?”

“Gli dici: ehi, Carlos, me lo fai un autografo?”

“Diglielo tu!”

Ah-ha! Lo sapevo, non hai il coraggio!”

A quel punto il mio organismo si ribella. Mi viene quasi da vomitare ogni volta che qualcuno mi dà della codarda, anche se in maniera implicita.

È una questione di principio: non c’è nulla che io non possa fare, punto e basta.

“Giuditta, è una sfida questa?”

E lei sa benissimo che quando la chiamo con il suo nome di battesimo, ha innescato il lato più combattivo e orgoglioso di me.

E allora sbianca improvvisamente.

“Oh, no, non lo era! Ti prego, Berty, rifletti un attimo… oh mamma, cos’ho fatto?!”

Io intanto sono già in piedi che fisso Carlos (se scopro che si chiama Carlo, rido molto, giuro!) con circospezione, scegliendo il modo giusto per attaccare bottone.

Badate bene: non sono timida, specialmente quando si tratta di una sfida così misera ed insignificante, ma sono educata e non vorrei turbare l’animo tranquillo di un adulto, sapete com’è…

“E siediti, cazzarola! Non starai mica pensando sul serio di…

“Taci!” le ordino, tappandole la bocca con una mano.

Tita si dibatte per un po’ e prova pure a mordermi un dito, ma io fuggo via prima che possa commettere un simile errore.

Saltellando sul corridoio posto in mezzo alle due file di sedili e raggiungo con noncuranza il posto accanto a quello di Carlos.

Ho avuto culo: è libero.

“Salve, mi scusi… posso?” chiedo, indicandogli il sedile al suo fianco.

“Prego, vieni vieni, ché ti puoi sedere!”

Ehm, okay, lettori: io ci ho provato, dovete credermi, lo giuro! Ho provato a non ridere, ma vedere uno con la faccia di Zafón, pensare al suo genio, al suo intelletto e alla sua intelligenza e poi sentirlo parlare come mio nonno, be’… questo sarebbe troppo per chiunque, andiamo!

Ma del resto non gli ho mancato di rispetto, non così tanto. Mi sono lasciata sfuggire soltanto un piccolo sorriso. Come vi ho già detto, sono educata, quindi…

“E che hai da ridere, giovanotta? Si porta rispetto alle persone più grandi, ché ne sanno più di te!” prosegue Carlos/nonno con tono estremamente serio e concitato, quasi solenne, patriottico, manco stesse parlando con un ex generale in pensione.

“Mi scusi signor Carlos, signore!” butto lì, accennando a mettermi sull’attenti.

Lui mi guarda stralunato e sbatte le pesanti palpebre.

“Ah, già, capisco di doverle delle spiegazioni, sa. In effetti dubito che lei sappia perché l’ho appena chiamata signor Carlos. Bene, è bene che lei venga al corrente di essere il clone di uno dei miei scrittori preferiti, tale Carlos Ruiz Zafón, nato a Barcellona nel…

“Ma cosa stai blaterando, ché sei tutta rincitrullita!”

Era da una vita che non sentivo questa parola, vorrei che il signor Carlos non l’avesse pronunciata perché temo di aver perso anche l’ultimo briciolo di stima da parte sua, scoppiando a ridere fragorosamente, con tanto di testa rovesciata all’indietro e bocca spalancata.

E ho pure attirato l’attenzione di tutti, sull’autobus, sicuro!

“Razza d’impertinente! Ah, i giovani screanzati di oggi! Ma vi hanno insegnato le buone maniere, perbacco?”

Come posso smettere di ridere? Ditemelo voi, vi prego!

“Quando ero giovane io, si rigava dritto, eh! Adesso non vi si può più toccare, siete bestie, voi! Vorrei vedere che fareste, in Vietnam! Marmocchi, ché non capite niente!”

Vorrei davvero rispondergli, dirgli che tutto questo non ha niente a che vedere con Carlos Ruiz Zafón, che lui alla fine non gli somiglia poi tanto e che è un matusalemme in confronto e che non gli ho affatto mancato di rispetto come va blaterando.

Ma come posso?

Per fortuna, a salvarmi arriva Tita, che mi dice: “Dobbiamo scendere, Giaco ci aspetta!”

Carlos/non-poi-tanto-Carlos/nonno ci fissa con sguardo furente, mentre io riesco a malapena ad alzarmi, tanto sto ridendo!

Giaco ci fissa con aria interrogativa, mentre Gabri, al suo fianco, lancia occhiate furtive a Tita, la quale riesce per miracolo a non farmi ruzzolare giù dal pullman.

Poco prima che lo sportello si richiuda, mi volto e grido: “Arrivederci, nonno Carlos!”

“Aiutatemi!” geme Tita, lasciandomi andare. Il suo tono implorante non ottiene alcun riscontro, poiché Giaco è curiosissimo e mi obbliga subito a raccontargli tutto per filo e per segno. Per quanto riguarda Gabri, lui semplicemente si limita a stare zitto, perché non ha mai il coraggio di parlare con Tita.

Sembrano due mummie, chissà che non debba arrivare ad escogitare qualcosa con Giaco per farli accoppiare.

Chissà…

 

Bene, quello che accade in seguito lo saprete la prossima volta, anche perché vi aspetta un’altra delle sfide che mi vengono lanciate quotidianamente.

Quella di abbordare il sosia di Zafón non è niente, in confronto ai miei standard!

  
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