La sfida di Carlos Ruiz Zafón
Nel pomeriggio
mia madre, dopo aver guardato MasterChef
Italia/Australia/Spagna/America e quant’altro, mi obbliga a fare i compiti di
matematica.
Sì,
avete capito bene.
Per lei,
potrei anche non studiare nessuna materia, ma sulla matematica non transige. Io
cerco sempre di sgattaiolare via prima che sia troppo tardi, ma raramente mi
riesce.
Il problema
è che dopo pranzo mi viene un sonno incontrollabile e finisco per addormentarmi
sul divano, mentre quell’isterica della mia genitrice strilla di fronte alla
tv, inveisce e insulta questo o quel concorrente.
Quando alla
fine mi risveglio – non chiedetemi come faccio a dormire con tutto quel caos –
è perché mia madre mi scuote per le spalle, pronta a torturarmi.
Allora trascorriamo
ore infinite sui libri e, una volta finiti tutti gli esercizi e ripetute tutte
le formule a memoria e con la corretta pronuncia ed intonazione, sono talmente
stanca che non ho più voglia di uscire e finisco la giornata in uno stato di semincoscienza che mi impedisce di ragionare lucidamente.
Quando,
invece, riesco a fuggire, le cose vanno più o meno così.
“Guarda!
Ma cosa cazzo sta facendo quello? No, non si caramellano così le cipolle, ma
dai! Demente, sei un demente, Anselmo! Sì, ecco, guarda quell’altra cretina di
Mariangela! Fate pena! Ah, se ci andassi io…” (mia
madre di fronte alla tv, di pomeriggio. Una tortura.)
“Mamma,
perché non ci vai allora?” la provoco spesso io, lanciandole un’occhiata
annoiata. Il fatto è che mia madre non sa cucinare, compra spesso piatti pronti
e roba surgelata, scalda tutto al microonde et voilà!
Invidio mio padre che lavora tutto il giorno e si ferma a pranzo fuori,
sicuramente ha un’alimentazione più sana della nostra. Anche il McDonald’s è
più salutare del nostro regime alimentare.
“Oh,
potessi lo farei! Ma poi chi penserebbe a te? E tuo padre? E il lavoro a
scuola? Voi somari non trovereste mai una mia degna sostituta!”
Magre consolazioni,
come si suol dire.
Se sapesse
almeno friggere un uovo, sarei fiera di lei e mangerei uova fritte per il resto
dei miei giorni.
“Hai
ragione, mamma. Senti, io vado un po’ in camera, a schiacciare un pisolino, eh?”
ammicco, alzandomi. “E, mi raccomando: svegliami quando è ora di fare i
compiti!” aggiungo, giusto per rendere il tutto più credibile.
Preferirei
morire piuttosto che sentirmi scuotere per le spalle da lei, ogni fottuto
pomeriggio.
Razza di
madre snaturata! Non capisce proprio le mie esigenze e mi maltratta! Un giorno
o l’altro avviserò gli assistenti sociali e allora la smetterà di
ossessionarmi!
Che poi,
io sarei pure contenta se lei andasse a MasterChef
(ammesso e non concesso che superi qualsiasi selezione). Sì, be’, quale figlia non sarebbe fiera di vedere la propria
madre in televisione?
E poi,
sapete che significherebbe per la sottoscritta non averla tra i piedi per un po’?
Ma siccome dubito che rimarrebbe in gara abbastanza a lungo da darmi il tempo
di abituarmi alla sua assenza, perciò tanto vale evitare di fare figuracce in
pubblico.
Comunque…
Esco dalla
cucina e mi dirigo furtivamente verso la mia stanza.
Ehi,
credete davvero che metterò in pratica ciò che ho rifilato alla mamma?
Nah, vado a prendermi la borsa, darmi una sistemata
e poi scappo di casa.
Avviso Tita con un sms. Lei è fantastica, sempre pronta ad
accogliermi durante le mie fughe.
Poi mando
un sms anche a Giaco e decidiamo di vederci nel suo paese, così saremo
tranquilli e poi da lui ci sono dei bei posti, c’è più divertimento e gente
interessante.
E,
soprattutto, spunti per nuove scommesse.
Allora esco
pian piano di casa, mentre ascolto mia madre che continua a sbraitare contro lo
schermo e non si accorge di niente.
Quando finalmente
raggiungo, strisciando lungo la parete come un ragno, l’angolo della mia via,
tiro un sospiro di sollievo e mi rilasso.
Poi passeggio
allegramente, dirigendomi verso il punto in cui io e Tita
ci incontriamo di solito.
Intanto Giaco
dice che ci aspetta con ansia e che ci sarà anche Gabri.
Oh,
perfetto.
Che sia
la volta buona che lui e Tita si decidano e si
appartino da qualche parte?
Nah, troppe vane speranze, ahimè…
Incontro
Tita e insieme raggiungiamo la fermata dell’autobus.
A quell’ora
– precisamente le 15:20 del pomeriggio – ci sono ancora studenti solitari che
si affannano verso la fermata, ansiosi di rientrare a casa. E io li invidio,
naturalmente.
Perché diamine
non ho scelto un liceo con zero matematica e con una distanza di almeno 100 km
da casa?! Forse è il Paese dei Balocchi detto così, però sarebbe stata la cosa
più bella che potesse capitarmi!
Io e Tita ridiamo come matte, finché ad una fermata non sale un
uomo che attira subito la nostra attenzione.
Ci guardiamo:
stiamo pensando la stessa, identica cosa.
“Assomiglia
a Zafón!” esclamiamo all’unisono, esaltate come se
fosse appena salito sul nostro autobus un funzionario del governo o il Papa.
Ora, non
ditemi che non sapete chi sia Carlos Ruiz Zafón perché vi mangio!
Oh, be’, però non tutti sono intelligenti e colti come la
sottoscritta, perciò la vostra Berty vi darà un
piccolo aiuto:
http://it.wikipedia.org/wiki/Carlos_Ruiz_Zaf%C3%B3n
Ecco,
vedete, quando siete appassionati di un qualsiasi artista e vedete un suo clone
a pochi chilometri da casa vostra, non potete negare che la reazione sarebbe
quella di gettarvi ai suoi piedi e di baciarli, fango o cacca di cane compresi.
Ma,
siccome io e Tita non siamo persone dalle reazioni
convenzionali (o almeno, io non lo sono, Tita viene
soltanto trascinata nelle mie scorribande), la vicenda quel giorno è andata
diversamente da ciò che vi aspettate.
Tita mi fissa con un’espressione indecifrabile, poi
fa: “Oh, Berty, perché non gli parli?”
Ridacchio
come una scema e le lancio un’occhiataccia.
“Sì, e
cosa gli dico?”
“Gli
dici: ehi, Carlos, me lo fai un autografo?”
“Diglielo
tu!”
“Ah-ha! Lo sapevo, non hai il coraggio!”
A quel
punto il mio organismo si ribella. Mi viene quasi da vomitare ogni volta che
qualcuno mi dà della codarda, anche se in maniera implicita.
È una
questione di principio: non c’è nulla che io non possa fare, punto e basta.
“Giuditta,
è una sfida questa?”
E lei sa
benissimo che quando la chiamo con il suo nome di battesimo, ha innescato il
lato più combattivo e orgoglioso di me.
E allora
sbianca improvvisamente.
“Oh, no,
non lo era! Ti prego, Berty, rifletti un attimo… oh mamma, cos’ho fatto?!”
Io intanto
sono già in piedi che fisso Carlos (se scopro che si chiama Carlo, rido molto,
giuro!) con circospezione, scegliendo il modo giusto per attaccare bottone.
Badate bene:
non sono timida, specialmente quando si tratta di una sfida così misera ed
insignificante, ma sono educata e non vorrei turbare l’animo tranquillo di un
adulto, sapete com’è…
“E
siediti, cazzarola! Non starai mica pensando sul
serio di…”
“Taci!”
le ordino, tappandole la bocca con una mano.
Tita si dibatte per un po’ e prova pure a mordermi
un dito, ma io fuggo via prima che possa commettere un simile errore.
Saltellando
sul corridoio posto in mezzo alle due file di sedili e raggiungo con noncuranza
il posto accanto a quello di Carlos.
Ho avuto
culo: è libero.
“Salve,
mi scusi… posso?” chiedo, indicandogli il sedile al
suo fianco.
“Prego,
vieni vieni, ché ti puoi sedere!”
Ehm,
okay, lettori: io ci ho provato, dovete credermi, lo giuro! Ho provato a non
ridere, ma vedere uno con la faccia di Zafón, pensare
al suo genio, al suo intelletto e alla sua intelligenza e poi sentirlo parlare
come mio nonno, be’… questo sarebbe troppo per
chiunque, andiamo!
Ma del
resto non gli ho mancato di rispetto, non così tanto. Mi sono lasciata sfuggire
soltanto un piccolo sorriso. Come vi ho già detto, sono educata, quindi…
“E che
hai da ridere, giovanotta? Si porta rispetto alle
persone più grandi, ché ne sanno più di te!” prosegue Carlos/nonno con tono
estremamente serio e concitato, quasi solenne, patriottico, manco stesse
parlando con un ex generale in pensione.
“Mi
scusi signor Carlos, signore!” butto lì, accennando a mettermi sull’attenti.
Lui mi guarda
stralunato e sbatte le pesanti palpebre.
“Ah,
già, capisco di doverle delle spiegazioni, sa. In effetti dubito che lei sappia
perché l’ho appena chiamata signor Carlos. Bene, è bene che lei venga al
corrente di essere il clone di uno dei miei scrittori preferiti, tale Carlos Ruiz Zafón, nato a Barcellona nel…”
“Ma cosa
stai blaterando, ché sei tutta rincitrullita!”
Era da
una vita che non sentivo questa parola, vorrei che il signor Carlos non l’avesse
pronunciata perché temo di aver perso anche l’ultimo briciolo di stima da parte
sua, scoppiando a ridere fragorosamente, con tanto di testa rovesciata all’indietro
e bocca spalancata.
E ho
pure attirato l’attenzione di tutti, sull’autobus, sicuro!
“Razza d’impertinente!
Ah, i giovani screanzati di oggi! Ma vi hanno insegnato le buone maniere,
perbacco?”
Come posso
smettere di ridere? Ditemelo voi, vi prego!
“Quando
ero giovane io, si rigava dritto, eh! Adesso non vi si può più toccare, siete
bestie, voi! Vorrei vedere che fareste, in Vietnam! Marmocchi, ché non capite
niente!”
Vorrei davvero
rispondergli, dirgli che tutto questo non ha niente a che vedere con Carlos Ruiz Zafón, che lui alla fine non
gli somiglia poi tanto e che è un matusalemme in confronto e che non gli ho
affatto mancato di rispetto come va blaterando.
Ma come
posso?
Per fortuna,
a salvarmi arriva Tita, che mi dice: “Dobbiamo
scendere, Giaco ci aspetta!”
Carlos/non-poi-tanto-Carlos/nonno ci fissa con sguardo furente,
mentre io riesco a malapena ad alzarmi, tanto sto ridendo!
Giaco ci
fissa con aria interrogativa, mentre Gabri, al suo
fianco, lancia occhiate furtive a Tita, la quale
riesce per miracolo a non farmi ruzzolare giù dal pullman.
Poco prima
che lo sportello si richiuda, mi volto e grido: “Arrivederci, nonno Carlos!”
“Aiutatemi!”
geme Tita, lasciandomi andare. Il suo tono implorante
non ottiene alcun riscontro, poiché Giaco è curiosissimo e mi obbliga subito a
raccontargli tutto per filo e per segno. Per quanto riguarda Gabri, lui semplicemente si limita a stare zitto, perché
non ha mai il coraggio di parlare con Tita.
Sembrano
due mummie, chissà che non debba arrivare ad escogitare qualcosa con Giaco per
farli accoppiare.
Chissà…
Bene,
quello che accade in seguito lo saprete la prossima volta, anche perché vi
aspetta un’altra delle sfide che mi vengono lanciate quotidianamente.
Quella di
abbordare il sosia di Zafón non è niente, in
confronto ai miei standard!