A.
La
mia
ferita era ancora fresca.
Potevo intingere le dita nel sangue che
sgorgava e le avrei ritratte umide.
Avevo bisogno di ricucire
quello squarcio, ma non avevo alcuno strumento con me; molti mi
dicevano che ci avrebbe pensato il tempo.
Ma
nel
mentre?
Cosa potevo fare per
occultare il mio dolore? O, quantomeno, per sopportarlo?
E mi
sorgevano anche altre domande: il tempo sarebbe riuscito a ricucire
la mia carne sanguinante, ma se la ferita si fosse infettata nel
frattempo?
Cosa dovevo fare per non far andare in cancrena il mio
intero corpo? E l'anima?
Come potevo intervenire su qualcosa di
intangibile quale l'anima?
Non lo sapevo.
Non
lo
sapevo.
Non
potevo
rispondere a queste domande, e intanto aspettavo.
Aspettavo e
vivevo nella paura dell'infezione.
E se il dolore avesse preso il
controllo di tutta me stessa, cosa mi sarebbe successo?
In che
modo
sarei cambiata?
Sapevo
già che quando il dolore diventa un virus fa sì
che ti raffreddi
tanto da portarti ad innalzare mura di ghiaggio intorno a te.
E
non un ghiaccio qualsiasi, semplice da sciogliere.
Neppure
il fuoco può qualcosa.
E
io
sarei diventata quella fortezza di gelo?
Forse sì; sicuramente,
anzi.
E in vista di questa prospettiva provavo sensazioni
discordanti:
da un lato non vedevo l'ora di trasformarmi in un
corpo spogliato dalle proprie emozioni;
d'altra parte ero
attraversata dal terrore di lasciar andare la mia umanità.