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Autore: drewskelsey    11/11/2014    0 recensioni
E litigare con lui non aveva via di uscita, cercare di capirlo era difficile, provare a dimenticarlo ancora di più, ma lasciarlo andare era semplicemente impossibile.
Perché amarlo per me era facile, sentire la sua mancanza ancora di più, riconoscerlo in una strada affollata era ovvio come notare un tulipano in un campo di margherite e memorizzarlo era semplice quanto ricordare le parole della mia canzone preferita.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Justin Bieber, Nuovo personaggio, Pattie Malette
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 4.
Justin

Quando entrammo nella mia macchina Justin sembrò ancora più scosso, evidentemente mostrargli la macchina più costosa che avevo non era stata una buona mossa, ma quando, quella mattina, uscii di casa per andare a casa di Pattie non immaginai che Justin rimanesse coinvolto nella mia giornata. Comunque non commentò e non disse niente fino a quando non mi fermai davanti ad un semaforo rosso.
«Quanto hai pagato?», chiese. Non avevo intenzione di dirglielo, non volevo che si sentisse in debito. Dopo qualche secondo ripeté la domanda, solo più bruscamente che sobbalzai dal suo tono di voce molto alto «Dimmi quanti fottuti soldi hai dovuto pagare!». Non poteva semplicemente ringraziarmi?
«Cinquecento dollari», mi arresi. Lui mi guardò mentendosi una mano sulla nuca, visibilmente stressato.
«Te li ridarò. Dammi solo qualche giorno...». Lo interruppi.
«Consideralo un favore d'amica», gli sorrisi per poi rimettere gli occhi sulla strada.
«No», rispose secco. Va bene, qual era il suo problema?!
«Prego», gli dissi sarcastica. Sembrava davvero un coglione. Lo sapevo, dovevo tenermi i miei soldi in tasca e far finta di niente, pensai.
«Non ti ho chiesto di farlo», disse non curante.
«Ma io l'ho fatto! E a casa mia questo si chiama altruismo!», sbottai irritata. Non lo capivo, davvero.
«Oh, davvero? Indovina: non mi interessa! Solo riportami a casa», disse. Così, senza aggiungere altro, feci come chiesto.
«Come hai scoperto dove abito?», chiese mentre viaggiavamo a qualche isolato da casa sua.
«Nello stesso modo in cui ho scoperto che tu eri in prigione». Non gli rivolsi neanche uno sguardo, ma lo potei comunque immaginare alzare un sopracciglio per chiedere più informazioni, come era solito fare. «Bacchetta magica!», dissi ironica.
«Dio, sono serio». Quando realizzò che ci trovavamo davanti a casa sua, scese dall'auto. Feci come lui, credevo che la conversazione fosse incompleta e doveva essere finita.
«Ho badato ai tuoi fratelli questo pomeriggio...», non riuscii a finire la frase perché mi interruppe.
«Che diamine ci facevi a casa mia?!», sbraitò arrabbiato. Cosa lo aveva fatto innervosire tanto?
«Calmati, bello, non sono come la gente che prendi a pugni. Sono una ragazza affidabile e Jazmyn e Jaxon mi adorano», provai zittirlo, ma pareva avesse molta aria da dare alla bocca.
«Non ti avvicinare a loro», ringhiò.
«Ma si può sapere che ti ho fatto? Ti ho tirato fuori da un bel casino, ecco che ho fatto! Ti ho salvato il culo! Cos'hai che non va nel cervello?!», urlai. Notai poi una luce accendersi al piano inferiore, dentro casa Bieber, e la porta aprirsi, mostrando Pattie in una vestaglia per la notte.
«Si può sapere che sta succedendo qui fuori?», chiese. Appena guardò davanti a sé e riconobbe il viso di suo figlio, nonostante il buio della notte, si portò una mano alla bocca e lo abbracciò forte. «Justin, tesoro, che ci fai qui?». Lui la strinse a sé senza rispondere. Quando la donna mi notò, intuì quello che era successo. «Rosalie, ti avevo detto di non farlo!», mi rimproverò ma un sorriso era comunque stampato sul suo viso. «Grazie di cuore, Rosalie», mi disse. Le sorrisi semplicemente. Lo sguardo di Justin era ancora duro e freddo su di me.
«Smettila di guardarmi così, ingrato», gli dissi. Sapevo che così dicendo avevo innescato una bomba e trovai la situazione divertente, sapevo di avere ragione in ogni caso.
«Vai via», sussurrò Justin.
«Cosa?», gli chiesi incredula.
«Tornatene a casa, dannazione!», urlò facendo spaventare sua madre. Non mi voleva vedere, questo faceva male. Pensavo ci fosse una specie si intesa tra noi, qualcosa che si era acceso fin dal primo momento in cui lo vidi. Evidentemente mi sbagliavo. Era solo un ragazzino.
«Justin, ti sembra il modo di ringraziare?», gli disse lei. Finalmente qualcuno dalla mia parte. Grazie, Pattie.
«Non avevo bisogno di aiuto, potevo cavarmela da solo», disse infine, trascinando in casa sua madre e richiudendo la porta senza degnarmi più di uno sguardo.
Ed in quel momento capii: avevo ferito gravemente l'orgoglio di Justin. Era davvero convinto che sarebbe potuto uscirne da sé? Sì, be', forse dopo qualche mese a scontare la sua pena in carcere.
Tornai in macchina, ero decisamente troppo stanca per guidare ancora, i miei occhi si chiudevano senza che io glielo potessi impedire. Sveglia, sveglia, Rose, non puoi dormire in macchina!, pensò per me la mia coscienza. Potevo benissimo cercare un motel e fermamici per una notte. No, dovevo smetterla di spendere soldi a caso, dovevo comportarmi come una persona comune. Accesi l'auto, convinta di me stessa, pensavo di potercela fare, ma dopo qualche metro mi arresi, spensi il motore dell'auto e mi posizionai nei sedili posteriori. E credetemi, non l'avrei fatto se non fosse stato necessario per il mio organismo.
Cercando la posizione perfetta, mi muovevo, stavo troppo scomoda, ma dopo qualche minuto mi addormentai in una maniera impensabile.
 
Un rumore fastidioso, un picchiettio mi svegliò. Aprii lentamente gli occhi e me li stropicciai per poi sbadigliare. Mi ci vollero una manciata di secondi per capire dov'ero. Risentii quel rumore e poi guardai verso i finestrini: Justin stava bussando contro i vetri. Sbloccai le sicure e mi mesi seduta composta, quando luì entrò si sedette accanto a me, nei sedili posteriori.
«Si può sapere cosa diavolo stavi facendo?», mi chiese. Cosa? Era lui che stava nella mia macchina.
«Dormivo». Mi appoggiai alla portiera che mi stava accanto.
«In macchina?». No, scemo, nella casa di Babbo Natale! Annuii.
«Ero troppo stanca per tornare a casa. Sai, con tutti i giri che ieri sera ho fatto solo per ricevere una porta in faccia».
«Mi dispiace». Cosa? Si stava scusando?
«Quanto ti ha pagato Pattie per fartelo dire?». Lui non rispose, seriamente non capivo cosa avesse. «Be', dirle di pagarti di più».
«Ti ho detto che mi dispiace, dannazione, Rosalie, sono serio!», rispose esasperato quasi. Annuii in risposta.
«Perché non c'eri ieri mattina al bar?», domandai guardando fuori dal finestrino.
«Secondo te?», mi chiese. Oh, giusto, era in carcere.
«Cosa hai combinato per finire lì?», volevo spiegazioni.
«Io... Un conoscente, ieri sera, mi stava provocando. Gli ho tirato un pugno, e be', è iniziata la rissa». Fece una pausa. «Io non sono così, Rose, credimi, è stato solo...». Lo interruppi.
«Lo so». Gli sorrisi cercando di rassicurarlo. Francamente? Non sapevo più niente. Forse non era un criminale, non era certo un serial killer, ma era un bastardo.
«No, non lo sai, perché ieri sera mi sono comportato come un fottuto idiota. Io solo non volevo che pagassi per uno sbaglio che ho fatto io, non dovevi farlo», disse. Oh, non l'avrei fatto se non fosse stato per la stupida vocina nella mia testa che mi ripeteva di salvarlo. «Ma grazie», disse infine.
Mi voltai verso di lui e lo guardavo, aveva l'aria di un cucciolo smarrito. Sorrisi.
«Allora? Che si fa?», dissi entusiasta aspettando che decidesse un posto dove andare.
«Se non mi sbaglio, abbiamo un appuntamento da recuperare». Mi sorrise. Mi catapultai così nel posto del guidatore e lui in quello del passeggero, accesi l'auto sfrecciando in strada. «Quest'auto è tua?», chiese osservando con ammirazione gli interni. Annuii. «È bellissima!», disse con un tono di voce che sfiorò il falsetto.
In quel momento notai quando assomigliasse a Jaxon quando vide il regalo che gli comprai. Risi leggermente. Il mio cellulare squillò, lo cercai nelle tasche dei jeans e quando lo trovai, guardai lo schermo. C'era scritto "Mark", risposi sbuffando.
«Dimmi, Mark», roteai gli occhi anche se sapevo che non poteva vedermi. Cominciò poi a blaterare di qualcosa in termini finanziari che non capii. «Puoi spiegarmelo nella mia lingua?».
«Ci serve del personale nell'hotel!», urlò esasperato mentre io cercavo di fare attenzione alla strada. L'hotel di cui parlava Mark era uno dell'immensa catena che possedeva mio padre prima di morire. Quando luì decedette,  sapevo che non me ne sarei potuta occupare, non sapevo nulla del settore, ma non avrei mai potuto venderla. Sapevo che non me l'avrebbe mai perdonato da lassù, o ovunque fosse. Così diedi il controllo a Mark, amico stretto di mio padre.
«Accidenti, Mark, cosa ne posso sapere io?! Occupatene tu, maledizione, hai più della metà delle quote dell'albergo!», dissi alzando il tono di voce per poi attaccare velocemente la chiamata.
«Nervosa?», mi chiese Justin. Sì, abbastanza. Scossi la testa. «Di cosa stavi parlarlo con Mark?». Pronunciò il suo nome con una smorfia.
«Uhm... niente di importante», gli sorrisi e quando mi accorsi che eravamo davanti al bar deciso, parcheggiai ed uscii dall'auto, seguita da Justin.
Entrati nel locale ci sedemmo ad un tavolino vicino alla vetrata lasciando il silenzio regnare fino a quando arrivò il cameriere.
«Buongiorno, cosa vi porto?». Sentivo il suo sguardo addosso e questo mi metteva in soggezione.
«Un cappuccino», dissi senza guardarlo.
«Due», aggiunse Justin. Quando il ragazzo se ne andò, spostai la mia attenzione verso Justin, che sembrava prestare molto interesse alle bustine di zucchero che aveva davanti.
«Che succede?», gli chiesi. Sembrava strano, sapevo che c'era qualcosa che non andava, non voleva incontrare i miei occhi. «Guardami, Justin», continuai. Lui alzò gli occhi verso di me.
«Perché non mi hai lasciato marcire in galera? Mi conosci appena». Mi stavo ponendo quella domanda anche io. Lo vidi riabbassare la testa verso il tavolo.
«Forse appunto perché ti conosco appena. Ho troppe cose da capire su di te per lasciare che tu sprechi il tuo tempo lì dentro», gli dissi. «Guardami mentre ti parlo». Guardò i miei occhi per qualche secondo, forse una decina, ma non riuscì più a sostenere il mio sguardo. Era colpa dei miei maledetti, tetri, grigi occhi. Erano inquietanti. Nel frattempo arrivò il cameriere con i nostri ordini su un vassoio e ci porse le nostre tazze. Gli sorrisi come per ringraziarlo.
«Ma io non ce li ho quei dannati cinquecento dollari, non mi piacciono i debiti, Rosalie». Non volevo i suoi soldi, doveva capirlo.
«Non li voglio», chiarii. Cosa non capiva della parola favore? Non parlò per qualche secondo ancora, sorseggiando il cappuccino che aveva zuccherato. Feci lo stesso.
«Sono in debito con te», disse. Ridacchiai, era talmente fissato con quella questione.
«Penso che per saldare il debito dovrai dimostrarmi che non ho speso quei soldi inutilmente e darmi la possibilità di conoscerti», gli dissi sorridendo. Questo valeva più di cinquecento dollari.
«Credo di poterlo fare», accettò sorridente.
Contratto andato a buon termine. Era talmente bello. Non il contratto, ma lui. I suoi occhi, i suoi capelli arruffati, anche se ero abbastanza sicura che li avesse combinati così apposta. E la sua bocca. Dannazione, ne ero così attratta, non riuscivo a smettere di guardarla, era come se i miei occhi avessero trovato la calamita perfetta su cui incollarsi.
«Sei bella, mi piace guardarti», parlò.
Ed eccomi nella situazione più imbarazzante di sempre. Cosa avrei dovuto rispondere? “Anche tu”? O forse “Grazie”? L'unica cosa che sapevo per certo era che non volevo arrossire. Il rosso alle guance non mi donava per niente, lo odiavo. Mi limitai a trattenere una risata e spostare -a fatica- lo sguardo lontano da lui. «Perché ridi?». Mi osservò curiosamente e io non potei fare a meno di tornare a fissare le sue labbra.
«Perché stavo pensando la stessa cosa... di te». Fantastico, Rosalie, rendiamo la conversazione ancora più sdolcinata, bene, pensai. Stavo incasinando sempre più la cosa.
Ad interrompere quell’imbarazzante momento fu il suo cellulare che squillò, avvisandolo di un messaggio. Appena lo lesse un’espressione mortificata si fece spazio sul suo viso.
«Mi dispiace, devo scappare», disse alzandosi velocemente per poi andare alla cassa a pagare per entrambi- gentleman. «Oh, domani sarà il compleanno di mia madre. Sei obbligata a venire a cena a casa mia. A domani, Rose». Corse velocemente fuori dal bar.
Non vedevo l’ora che finisse la giornata per poterlo rincontrare.
 
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Sì, sono tornata. Ovviamente solo grazie alla recensione di Margaretavon.
Ho davvero cercato di migliorare la storia, come mi ha consigliato.
Visto che quindi ho deciso di riprendere la storia, spero che ne valga la pena e che
interessi a qualcuno.
Nient’altro da dire, a presto.
-Sabrina
   
 
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